Introduzione al Padre nostro, un testo semplice e profondo, come il suo autore

Dobbiamo essere molto grati a padre Giulio Cittadini per questa sua Introduzione al Padre nostro, un testo semplice e profondo al tempo stesso – come è, del resto, il suo autore – in cui si commentano le invocazioni della preghiera cristiana per eccellenza, considerata nella traduzione interconfessionale (e per uno spirito ecumenico come quello che soffia in padre Giulio non poteva essere che così!), alla luce dei riferimenti che essa intrattiene, in particolare, con il Nuovo Testamento in cui è inserita e con gli autori maggiormente frequentati da padre Giulio, tra i quali spicca, tra gli altri, soprattutto Agostino di Ippona. Grazie ancora, padre Giulio, per questo suo ultimo piccolo grande testo, che sono davvero lieto e onorato di contribuire a presentare a pochi giorni dal suo così fecondo novantesimo compleanno

 Quello che mi propongo di fare – non essendo né un biblista né un teologo – è semplicemente cercare di evidenziare alcuni aspetti di questo intenso volumetto alla luce soprattutto di ciò che mi lega a padre Giulio ovvero in riferimento a quelle associazioni laicali e a quegli interessi comuni mediante i quali ho potuto approfondire il mio rapporto con lui: e quindi la Fuci e il Meic, la Ccdc e il Cedoc e, da ultima ma non ultima, la filosofia nel suo essenziale rapporto con la religione.

 La prima questione che vorrei toccare è il tema stesso della preghiera, di cui padre Giulio parla nella premessa. La preghiera, dice tra l’altro padre Giulio, è “Colloquio [silenzioso], rapporto esistenziale con una sapienza diversa dalla nostra, nella quale siamo chiamati ad entrare, lasciandoci da essa profondamente cambiare”.

Mi piace pensare che di questo tema padre Giulio abbia potuto parlare qualche volta con quel suo grande amico che è stato Matteo Perrini per il quale “L’uomo prega perché pensa, [perché] ha il presentimento dell’Infinito di cui avverte la vicinanza e l’inesauribilità […]. L’uomo prega perché – continuava Matteo – ha lo stupore di esistere e non cesserà mai di chiedersi, finché non perderà la sua umanità, qual è il volto del Padre di tutti gli esseri, qual è la sua volontà, che cosa Egli ci autorizza a credere e a sperare”.

Padre Giulio ricorda che “Il Padre nostro – attraverso cui Gesù “non insegna soltanto [ai suoi discepoli] che cosa dire ma anche e soprattutto come dirlo, come entrare in un rapporto autentico col Padre che li ama” – è la preghiera, paradigma di ogni altra preghiera”. Ricordo in proposito che per Agostino “se passi in rassegna tutte le parole delle preghiere contenute nella S. Scrittura […] non ne troverai una che non sia contenuta e compendiata in questa preghiera insegnataci dal Signore. Pertanto nel pregare ci è permesso domandare le medesime cose con altri termini, ma non deve essere permesso di domandare cose diverse”.

Per padre Giulio poi la “preghiera libera dalla distrazione che ci rende estranei a noi stessi, al nostro vero io”. E a tale riguardo – e in riferimento all’attenzione come opposto della distrazione – mi piace ricordare quanto diceva Simone Weil, autrice che ho cominciato a leggere ai tempi della Fuci. La Weil diceva a proposito della preghiera del Pater che “È impossibile pronunciarla una sola volta, concentrando su ogni parola tutta la propria attenzione, senza che un mutamento reale, sia pure infinitesimale, si produca nell’anima”. Più in generale per lei – ed è un’indicazione che mi piace pensare che l’insegnante padre Giulio abbia tenuto in considerazione nel suo rapporto con i suoi numerosi studenti – la “chiave di una concezione cristiana degli studi è che la preghiera esige attenzione, esige che venga orientata verso Dio tutta l’attenzione di cui l’anima è capace. La qualità dell’attenzione è strettamente collegata alla qualità della preghiera”. In questa prospettiva “lo scopo reale e l’interesse quasi unico degli studi è quello di formare la facoltà dell’attenzione”. L’attenzione, per la Weil, consiste “nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto”. L’attenzione è cioè un lavoro di ‘svuotamento’: bisogna fare spazio nel proprio pensiero per permettere all’oggetto di manifestarsi a noi. Non siamo noi che afferriamo l’oggetto, è esso che ci raggiunge. Da una parte, l’attenzione è in rapporto con l’attesa, nel senso che la nostra attività consiste nell’essere pronti all’accoglimento. Dall’altra parte, l’attenzione è in stretto rapporto con il desiderio, nel senso che per ottenere un oggetto lo dobbiamo desiderare. Quando la Weil sostiene che “l’attenzione, al suo grado più elevato, è la medesima cosa della preghiera” ha sicuramente presente la nota tesi di Malebranche secondo cui “l’attenzione dello spirito è la preghiera naturale con cui otteniamo che Dio ci illumini”.

C’è anche un rapporto essenziale tra attenzione e amore verso il prossimo. Rifacendosi alla parabola evangelica, la Weil dice che il buon samaritano fa attenzione al suo prossimo e l’attenzione è creatrice perché lascia spazio per altro, si ritira, fa essere. Un atto di rinuncia genera vita. Da questo punto di vista il contrario dell’attenzione è la disattenzione intesa come distrazione – si diceva sopra – nei confronti dell’altro e mancanza di qualsiasi tipo di aiuto e condivisione.

Padre Giulio ha prestato attenzione a molti di noi presenti questa sera.

 Quanto poi alla struttura stessa della preghiera costituita da un indirizzo (Padre nostro che sei nei cieli) e dalle note sette richieste poste tra cielo e terra, tre rivolte al tu divino, alla ‘Signoria sovrana di Dio’ e quattro caratterizzate dal noi umano, dai ‘bisogni fondamentali dell’uomo’, posso soffermarmi solo su alcune di esse per rimanere nei tempi concordati, in modo tale che – come diceva un grande laico cristiano bresciano scomparso nel dicembre 2012, Mario Cattaneo, riguardo al quale il Cedoc sta predisponendo un volume di testimonianze e scritti – “se non sarò stato bravo si potrà almeno dire che sarò stato breve”.

 Padre nostro che sei nei cieli.

Il padre è tale perché “ci ha creati a sua immagine e somiglianza” e perché ci ama. È un “padre che ci ama con la tenerezza e la dolcezza della madre. È Padre e Madre insieme”, dice padre Giulio. Ma, egli ricorda, è un “Dio [che] rimane sempre l’altro da noi, il diverso che noi possiamo conoscere soltanto per analogia”. Dio ci è vicino – e lo è come un padre è vicino ai suoi figli – perché se non ci fosse vicino non potremmo dirne nulla e per noi nulla sarebbe, ma insieme Dio è “in cielo, ci trascende anche quando si rivela” e quindi nessuno di noi può dire di conoscerlo totalmente e di possederlo.

Ma soprattutto padre Giulio ci ricorda che il padre è nostro e quindi è di tutti noi, ovvero non “è il Padre soltanto dei cristiani devoti ma è il padre di tutti gli uomini, dell’intera famiglia umana”. Per questo, come padre Giulio sostiene in Credere, perché no?, il volumetto pubblicato lo scorso anno sempre con Morcelliana, mi devo porre in relazione a chi mi sta di fronte con dolcezza e rispetto (secondo uno stile caro alla Ccdc) perché forse egli è “più vicino a Dio di quanto lo sia io che cerco di convertirlo”, in forza di una maggiore carità esercitata nei confronti di quei poveri, di cui si parla in Matteo 25. Non dimentichiamo infatti che saremo giudicati non per le nostre radici ma per i nostri frutti e questo padre Giulio lo sa molto bene.

 Che il tuo regno venga

“Con questa invocazione” – dice padre Giulio – il Padre nostro “ci apre al futuro che ci attende, al regno dove ‘Dio sarà tutto in tutti’”, ci apriamo cioè alla “dimensione escatologica dell’annuncio evangelico”. Il presente, per il cristiano, è e deve essere ispirato al futuro in cui egli crede e spera. Nel tempo storico infatti, aggiunge padre Giulio, “il male, vinto da Cristo ma soltanto in radice, continua a sfidare l’uomo, chiamato a vincerlo con il bene”.

Mi piace chiosare in proposito dicendo che il regno non è quindi un quietivo della coscienza e uno strumento attraverso cui conservare l’esistente, ma il criterio alla luce del quale giudicare le ingiustizie del nostro mondo impegnandoci per vincerle, anche mediante il potere politico, che di per sé – ricorda padre Giulio – “viene dall’alto”, ma che “diventa diabolico quando pretende di essere divino”.

Evidenzio come si apra qui tutto lo spazio della laicità, ovvero dell’impegno del laico cristiano e delle mediazioni possibili nella situazione data a cui egli è chiamato, nella consapevolezza che – come ci è stato insegnato per sempre – c’è qualcosa che precede e fonda la politica e qualcosa che la segue e la giudica. I laici cristiani – alla luce di una prospettiva cara, tra l’altro, al Meic e anche a padre Giulio – devono soprattutto impegnarsi nella testimonianza dei “valori cristiani nel mondo sociale, poli­tico ed economico” (Evangelii Gaudium, 102), sapendo che essi – come recita Lumen Gentium al numero 33 – “sono soprattutto chiamati a rendere presente e operosa la Chiesa in quei luoghi e in quelle circostanze, in cui essa non può diventare sale della terra se non per loro mezzo”.

 Che la tua volontà si compia in terra come in cielo.

Strettamente connessa alla richiesta della venuta del regno è quella rivolta al padre perché compia la sua volontà “sulla terra così come è compiuta in cielo” (L. Monari).

Un’espressione, questa, che padre Giulio pone in relazione con quella di Gesù “Non la mia ma la tua volontà sia fatta”, in base alla quale egli obbedisce pienamente al progetto del padre su di lui e che sottende anche il fatto che non “possiamo pretendere che Dio si pieghi alle nostre misure”, anche se siamo chiamati nella preghiera ad insistere nelle nostre richieste.

“Noi – dice padre Giulio – bussiamo alla porta di Dio e facciamo bene; ma anche Dio bussa alla nostra porta e domanda che gli apriamo”.

E questo rapporto tra la nostra volontà e quella di Dio, in cui si radica la essenziale tematica della vocazione personale, è un rapporto che non si dischiude solo in un colloquio ma che è anche una disputa, secondo il noto episodio, opportunamente ricordato da padre Giulio, della lotta notturna di Giacobbe con Dio presso il torrente Jabbok. Un episodio che mi è molto caro perché mi pare dica molto bene che l’esperienza religiosa non è un’esperienza di sottomissione passiva e di accettazione tranquillizzante, ma un’esperienza di combattimento interiore e di contesa non arrendevole nella consapevolezza che nel rapporto con Dio “riusciamo vincitori – dice molto bene padre Giulio – solo se ci lasciamo da lui vincere e cambiare”. Questo vitale rapporto dialettico interno all’esperienza religiosa – aggiungo – si riproduce poi anche all’interno del pensiero che tale esperienza vuole pensare e qui mi pare si radichi in ultima istanza il rapporto agonico tra ragione e fede.

 Dacci oggi il nostro pane necessario.

La prima richiesta riguardante i bisogni dell’uomo non può che essere quella del pane, senza di cui non possiamo vivere. “Il Vangelo – dice padre Giulio – è lontano da qualsiasi forma di angelismo”.

Come il padre, anche il pane non è mio ma è nostro. Gesù ci insegna a “chiedere ogni giorno il pane necessario alla nostra vita e a quella degli altri”, sapendo che la provvidenza di Dio non ci farà mancare il necessario.

Ma proprio perché il pane è nostro questa “domanda del Pater – dice padre Giulio – ci apre alla sollecitudine per gli altri” e alla responsabilità nei loro confronti, una responsabilità che non si concretizza solo nell’elemosina “del benefattore”, ma anche e soprattutto nell’azione sociale, economica e politica che intende “operare per l’uguaglianza”.

L’uomo però non “vive di solo pane”, ma “della parola di verità e di amore che riceve dall’alto”. Ecco quindi che padre Giulio ci ricorda l’essenzialità della mensa eucaristica e quindi “il pane della parola di Dio” e “il pane di vita eterna” di cui in essa ci nutriamo. E’ dolcissima l’espressione di padre Giulio secondo la quale “Dio nell’eucaristia ci nutre di sé come fa una mamma che nutre di sé il suo bimbo”. Però ancora il Dio che ci nutre ci chiede la condivisione fraterna che potrebbe anche concretizzarsi, ricorda padre Giulio, come nella “chiesa nascente”, nella “libera e spontanea condivisione dei beni”.

 Fa’ che non cadiamo nella tentazione.

Emerge qui tutta la drammaticità della vita umana, di un uomo che è incline al male, “a causa – dice padre Giulio – di una tentazione non superata, quella del primo Adamo”. E l’uomo nella sua libertà è l’unico essere “suscettibile di tentazione”.

“Le tentazioni – dice padre Giulio in riferimento a un essenziale criterio antropologico ed educativo – possono essere vinte se non ci mettiamo in occasione, se siamo capaci di voltar loro le spalle già dal loro primo affacciarsi”, ma chiediamo al padre che non ci esponga ad una prova che sia superiore alla nostra capacità di sopportarla, affinché non “cadiamo nella tentazione”, che in ultima istanza è il “non riconoscere Dio come padre” (L. Monari). Come dice Romano Guardini a questo proposito, “Tu hai il diritto di metterci alla prova. Tu hai il diritto di portarci al rischio della decisione, ma, Signore, ricordati della nostra debolezza!”.

Dio mette alla prova – e la prova “fa parte della logica della fede” – Abramo, Giobbe, lo stesso Gesù e anche tutti noi, non è certo Lui ad indurci in tentazione, anche se è possibile osservare in proposito come i più grandi spiriti tragici moderni – e penso, tra gli altri, a Dostoevskij e Nietzsche – hanno pensato che Dio sia la massima tentazione per l’uomo ovvero quella di voler essere come lui. Si radica qui quella che può forse essere considerata la questione centrale della modernità ovvero il tema della libertà umana che, volendo liberamente porsi come autodeterminazione assoluta, finisce con il perdere se stessa.

 Ma liberaci dal maligno.

Ecco perché, come emerge dall’ultima richiesta, l’uomo chiede di essere liberato dal male, il male che è l’ultima parola della nostra preghiera la cui prima parola è Padre, proprio perché l’uomo prega Dio di fronte alla presenza del male che rende schiavo l’uomo e nella consapevolezza che solo Dio può vincere il male e liberarlo da esso.

Padre Giulio richiama in proposito la dialettica della redenzione cristica, dicendo che la “morte è la peggiore delle schiavitù”, ma che, paradossalmente, “dalla morte di Cristo nasce la nostra liberazione autentica nel Dio che fa vivere”.

E un uomo “interiormente libero crea situazioni di libertà, le uniche creative per l’uomo”. Con grande finezza pedagogica padre Giulio afferma che veri “educatori sono coloro che agiscono con discrezione e rispetto dei tempi e della libertà degli educandi” e quindi devono “accompagnarli paternamente ma senza paternalismi”.

Certo, la nostra libertà storica non è ancora totalmente liberata perché è ancora una libertà intesa come indipendenza dagli altri e autoaffermazione di sé e non come relazione e donazione.

Padre Giulio richiama in proposito Blondel e soprattutto ancora l’amato Agostino e la differenza da lui stabilita tra libertà minore, quella del “poter non peccare” e la libertà maggiore, quella del “non poter peccare”, una libertà quest’ultima completamente liberata dal male, che a noi si dischiuderà “quando saremo nella verità e nell’amore, nel regno di Colui che è verità e amore infiniti”.

 Padre Giulio termina il suo commento al Pater in riferimento all’amen e cioè al “dunque sia”, si avveri quanto si è pregato, affermando che il Padre nostro, come sostiene ancora Agostino, “ricorda a tutti i credenti di essere uniti fra loro come fratelli, in quella comunione di fede e di amore, che rende credibile al mondo la testimonianza cristiana”. Mi piace porre in relazione questa frase finale con quella posta in apertura del libro, tratta da Romani 8,37-39, “Io sono sicuro che niente e nessuno ci potrà strappare da quell’amore che Dio ci ha rivelato in Cristo nostro Signore”. Emergono qui la fede e l’amore che innervano, insieme alla speranza, la vita di padre Giulio e che egli ci testimonia con il suo pensiero e la sua azione.

Caro padre Giulio, grazie! Ad multos annos et ad multos libros.


NOTA: testo dell’intervento tenuto in occasione della presentazione del libro di padre Giulio Cittadini Introduzione al Padre nostro (Morcelliana, Brescia 2014), svoltasi presso l’Oratorio della Pace di Brescia l’11 marzo 2014 su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.