«Perché una Medea nel dialetto di Sirmione?”, si chiede Franco Brevini nella prefazione. “Che ci fa la maga della Colchide nelle ruvide sonorità di questa variante bresciana orientale?”
Brevini per rispondere fa due riferimenti: 1) alle ragioni profonde dell’opera generale di Franca Grisoni;
2) allo stato dell’arte dell’ “officina neodialettale”. A tale proposito Brevini ci ricorda che il dialetto non è più la lingua che risuona di un passato che sa di nostalgia, ma è diventato, negli autori contemporanei, “strumento per rendere dicibili taluni contenuti, per dar voce a uno strato dell’io”.
Che cosa è allora, cosa pensa, cosa dice la “Medea” della Grisoni?
Ci troviamo qui di fronte a una Medea potente, portatrice di verità, insieme arcaica e contemporanea – dunque fuori dal tempo – nella denuncia della violenza in eterno perpetrata dal potere.
Il dolore personale, che ha alimentato tanta poesia di Franca Grisoni, in “Medea” diventa dolore collettivo, dolore dell’umanità, che eternamente rinnova i suoi misfatti, e che eternamente ne piange.
Questo testo è evidentemente animato da un fiato unico, da un’ispirazione irrefrenabile che leva la sua voce – la voce di Medea – da un tempo-fuori dal tempo, che parla a noi contemporanei.
Franca Grisoni non è nuova al teatro – ricordiamo la sua “Passiù” – e non è nuova neppure alla poesia civile, che in questi anni ha costellato le sue raccolte, che fosse per un grido contro la cementificazione del suo lago, o per un canto/preghiera che dalla contemplazione di un quadro della Madonna gira lo sguardo sugli immigrati, i più poveri dei poveri, spesso male accolti dalla nostra società.
Medea accusa, punta il dito contro Giasone e le sue colpe, che sono le colpe di un potere maschile che vede solo se stesso e la sua espansione.
Nel Prologo della Medea di Franca Grisoni, scritto in italiano, quasi un antefatto, si ricorda che lei ha fatto di tutto in cambio del giuramento d’amore di Giasone, il quale aveva promesso che l’avrebbe sposata.
Medea è sicura, crede nella parola di Giasone che le dice (tutte le citazioni dall’opera della Grisoni sono dalla traduzione in italiano, che affianca l’originale in dialetto):
“Mia cara
se tu verrai in quei luoghi, nella mia terra
avrai onore e rispetto dagli uomini
e dalle donne: ti venereranno come una dea,
poiché per opera tua faranno ritorno
i loro figli, e i fratelli e i compagni,
e i giovani sposi scamperanno alla sventura.
Dividerai con me il letto nuziale
legittimo; e niente mai potrà separare
il nostro amore, prima che ci avvolga la morte segnata”. (p. 13)
Non si tratta di una promessa che riguarda solo due persone, poiché in Franca Grisoni l’universo amoroso e quello politico sono in relazione.
Già dunque prima delle nozze, Medea ha fatto cose orribili per amore di Giasone. Dice:
“io l’ho attraversato il male
col Falso, l’eroe che me e sé
ha condannato”. (p. 13)
La condanna (in senso cristiano potremmo dire il peccato, in senso assoluto: il male) è dunque già all’origine della storia, precedente all’episodio della uccisione dei figli; questa è una consapevolezza che Medea ha e la dice subito, nel Prologo.
Prima parte – Medea ribadisce che il vello d’oro è insanguinato con il sangue dei suoi parenti, che sono stati derubati.
E che cosa è questo vello? Per Giasone esso è
“mappa sicura
di terre e gente da dominare” (p. 17).
Il potere.
Per Giasone, Medea ha sconfitto il Drago (pag. 17 – 19).
Ma adesso il Drago lei ce l’ha dentro. E’ evidente una visione moderna, del mostro interno che tutti abbiamo dentro, ma che qui viene evocato e condotto all’azione dalla fame di potere di Giasone, una brama generatrice di morte.
Seconda parte – Medea ricorda le cose belle che l’hanno legata a Giasone. Tutte noi donne, anche di fronte al dolore di un abbandono, siamo portate ad appigliarci al bello che c’è stato in un amore. Lei ricorda il suo
“uomo venuto dal mare” (p. 21)
che l’ha incantata, lei, che fin da bambina era stata votata all’arte della magia, un’arte portatrice di bene:
“io guaritrice
conoscitrice di erbe
ape regina” (p. 21).
Gli unguenti donati a Giasone hanno annientato le forze del male
“tra fiamme e fuoco
il male te lo hanno domato…” (p. 21).
La magia del bene, dunque, contro il male.
Ma poi?
C’è uno dei punti più belli di questo testo che descrive l’amore di madre, (pag. 23), l’amore naturale, viscerale di una madre per i suoi figli, e nello stesso tempo la visione dei figli come doppio del marito, un sentimento contraddittorio e lacerante che ai nostri giorni sentono molto verso i loro figli le donne che hanno vissuto un divorzio o un abbandono drammatico. La maternità naturale, profonda, ce la dice proprio Medea, colei che finirà per uccidere i suoi figli.
L’amore grande di una coppia è finito nel dolore e nell’orrore, poiché lei e i figli sono stati
“svenduti per una corona” (p. 23).
I figli – dice Medea a Giasone – sono stati
“straziati
da te senza pietà” (p. 23)
dunque già uccisi prima che sia la madre a compiere l’orribile atto finale.
Dice ancora Medea:
“Noi?
i condannati! Noi
con i nostri giorni contati.
Io e i miei figli
venduti al male
che ci ha comperati…”.
“Cacciati nel senza dove”
“nudi di colpa”
“da un ordine esiliati
per colpe che il padre
neanche si riconosce” (p. 25).
Ciò che rende furibonda Medea, in un certo senso, è proprio il mancato riconoscimento dell’esistenza di un ordine di valori. Tutto e il contrario di tutto si può fare, nell’ideologia di Giasone; tutto è lecito, anche calpestare ciò che è sacro, pur di conquistare altro potere.
Questa cancellazione di un ordine condiviso di valori, che anche la nostra società conosce, e ha conosciuto fin troppo bene, è la miccia che fa esplodere il “Drago” che c’è dentro Medea.
Lei sente che la sua colpa è generata dalla colpa di Giasone, in una catena nella quale il male genera altro male. E non c’è rimedio (il perdono cristiano è ancora da venire).
Parlando delle colpe, Medea dice:
“Quali? Tutte le mie
e le rinfaccio a lui
lui le ha fatte commettere a me” (p. 25).
Medea infatti aveva creduto a Giasone, ma lui la stava ingannando. L’inganno è all’origine di tutto, del male del singolo e del male della società umana. Medea aveva desiderato Giasone
“tutta di pancia
nelle viscere” (p. 27).
Non avrebbe mai pensato che quell’amore non sarebbe stato per sempre. La sua colpa è di avergli creduto. E nella delusione eterna della donna tradita nella sua fiducia dice:
“Il non possibile
davvero è accaduto
e a me – da dentro –
tocca almeno dirlo” (p. 27).
“Almeno dirlo” è la cifra del gridare di Medea. L’inganno è accaduto, il male non ha più rimedio, è stato commesso. Ma: “almeno dirlo”.
Quante scrittrici al giorno d’oggi scrivono per far uscire certe situazioni dal silenzio? E’ uno dei grandi compiti della scrittura femminile ai nostri giorni.
Segue una condanna dei padri, che padri non sono stati capaci di essere: Eeta, Creonte e Giasone. Ma non è una questione di singoli: il male è una catena che procede di inganno in inganno, la cui origine viene da lontano, si perde nella notte dei tempi, e va lontano, continua ancora.
Molto bello è il rapporto di Medea con Creusa, la giovane futura sposa di Giasone, quella per cui Medea è stata ripudiata. Creusa per Medea non è altro che una bambina che obbedisce a suo padre, e il padre la usa
“Povera Creusa
pupazzo nelle sue mani” (p. 33).
E qui salta fuori una battuta che pare presa da Shakespeare, e dice:
“A sua figlia
per proprio interesse
il re fa da ruffiano” (p. 33).
Medea dunque se la prende non tanto con Creusa, ma con il padre di lei, Creonte, e dice:
“Tanta statura
ed ha paura di noi
piccole ombre, noi,
che abbiamo incrociato
i suoi passi. E noi?
I neanche ripudiati
i come già fuori…
Noi? I cancellati
io e i miei figli
come fossimo mai stati…” (p. 35).
A Medea dunque non resta che un ultimo compito: quello di dire “il vero”.
Giasone è un
“eroe comperato
profittatore di donne-pioli
di scale da usare
per salire più in alto” (p. 37).
E chiude:
“Orrore da cancellare” (p. 37).
Terza parte – L’avvio è splendido:
“Io, la tenebrosa…” (p. 39).
Medea torna, senza nominarlo, al Drago:
“io ardo da lontano
fiamma e rabbia in gola” (p. 39)
e prefigura (ricordiamo che Medea ha il dono della profezia, e qui prefigura il destino di Creusa e quello di Giasone da vecchio) di mandare a Creusa, tramite i suoi figli, il mantello che la farà bruciare viva.
Medea e Giasone con quei doni saranno
“sposi ancora nel male” (p. 39).
Creusa indosserà il mantello di Medea e per un attimo le due figure femminili coincideranno, unite nel fatale destino:
“Le sto leccata sopra
più di pittura
su di lei ho colato
la mia figura” (p. 43).
“l’odio del Drago furioso
su lei posso e voglio soffiare” (p. 45)
dice Medea.
Creusa diventerà un pugno di cenere.
“E loro? chi me li salverà?” (p. 47)
si chiede come smarrita Medea.
Quarta parte – “Oi oi anime mie…” (p. 49)
Imitando i suoni della tragedia greca, ecco la lamentazione sui figli.
Medea si chiede: come salvarli? Vorrebbe farli ritornare nella pancia, ma non può.
Allora dice:
“L’amore ferito
a morte ferirà” (p. 49)
E’ il suo modo per trafiggere il marito con una spada, lasciandolo però vivo.
Il gesto estremo sarà
uno specchio per lui
in cui farsi paura
perché ha il suo volto il male” (p. 49-50).
E’ questo il punto in cui Medea diventa madre di tutti i figli immolati dal potere per una qualche causa di espansione:
“Oi oi figli miei dannati” (p. 51)
mandati a morire in guerra.
Giasone si tormenterà, specialmente da vecchio, perché quei figli non ci saranno più. Vagherà come un’ombra
“e neanche per poterti perdere
saprai dove andare” (p. 55)
gli dice Medea.
Questo sarà il destino di Giasone, che, rinnegando i figli e il loro futuro, smarrirà la sua stessa identità e ogni punto di riferimento.
Quinta parte – Medea si chiede:
“Confine tra bene e male
quand’è che è saltato?” (p. 57)
E ricorda il tempo della gioventù, l’età dell’oro
“e ferro e oro e rame
donava la terra
e pietre preziose (…)
e le mie mani pulite
che guarivano” (p. 58 – 59)
Era un tempo felice e lieve, in cui tante cose erano possibili, che oggi non sono più
“ed io – che non sono più io –
che non so neanche più chi sono” (p. 59)
Medea e la sua identità perduta, che si è smarrita, rinnegando le sue radici e la sua vocazione, per una falsa promessa.
Rimpiange la sua terra natale. Ricorda il fratello Absirto. I pezzi del cadavere del fratello, da lei gettati in mare, sono stati accolti da
“onde pietose” (p. 61)
che lo hanno trasformato in
“terra nuova” (p. 61).
Medea ha imparato ad uccidere per Giasone; per sé ha continuato ad uccidere.
“Da me ho dovuto lacerare
la loro carne di figli:
ne ho fatto scogli dannati” (p. 63)
Da qui in avanti, una serie di invenzioni poetiche una più straordinaria dell’altra, in una sorta di gran finale, tutto fondato su vari miti.
Medea sente le voci dei figli levarsi dal mare:
“Ognuno li sente:
di notte dal mare
continuano a singhiozzare. Come piangono!” (p. 63-65)
Chi risponde a quelle voci?
“Da terra a loro rispondono
le madri di figli perduti:
pietose per loro
come propri figli li patiscono
e me li tengono chiamati
con i nomi di quelli
che già hanno sepolto…” (p. 65)
“In loro piangono i bambini
morti sul lavoro
e quelli strappati al vivo
da donne sventrate
in guerre sorelle
sempre le stesse” (p. 65)
Siamo nel mare del dolore del mondo, di tutti i tempi e di tutte le latitudini.
Ecco dunque il cuore del testo, il motivo profondo da cui è scaturita questa Medea, ispirata e “dittata dentro”, scritta nella lingua arcaica e profonda e poetica che è il dialetto di Franca Grisoni.
Il mare è insanguinato, vengono a galla
i corpi dei disperati
partiti dalle loro terre
per paradisi inventati” (p. 67)
Di fronte al male, Medea non tace, anzi grida la sua invettiva, che è il lamento della Terra.
“”Orrore!” grida la terra
morde rabbiosa
per quante morti
non può scampare” (p. 71)
L’avidità lega l’antico e il presente, il passato
“precipitato
nei giorni futuri
di qui e di là del mare” (p. 73)
in una visione apocalittica, e tutta umana.
Medea conclude:
“Il vello d’oro
non ha più niente di santo” (p. 73)
Possiamo adesso comprendere quello che Franca Grisoni scrive nella finale nota esplicativa:
“Medea si rende conto che la civiltà nella quale Giasone l’ha portata è impostata totalmente sull’inganno. E’ testimone della sparizione della verità. Da qui il suo bisogno di interrogarsi sui corsi e ricorsi della Storia. Dalla propria ferita personale, vede che quello che Giasone ha perpetrato su di lei è solo un anello di una catena di inganni accettati universalmente come veritòà: contro la verità esiste la menzogna collettiva perpetuata e diffusa dal potere. Di qui la tragedia”.
NOTA: intervento, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 23.102012 su invito della CCDC.