Israele e Palestina: volere la pace

Claudio Baroni

Bassam Aramin, palestinese, Rami Elhanan, israeliano, due padri di due figlie uccise quando erano ancora piccole, come è capitato a molti in Israele e in Palestina. Due popoli dilaniati dall’odio, dalla guerra, al di là di ogni umana sopportazione. La vicenda di Bassam e Rami è diventata l’emblema di questa grande tragedia, ma è diventata anche il simbolo di una speranza, di una pace che si può costruire, al di là delle atrocità che si vedono anche in questi giorni. Noi stasera vorremo capire come e perché. Innanzitutto, le loro vicende personali racchiudono in maniera incredibile i segni della storia israelo-palestinese. Rami è nato e vive a Gerusalemme, ha parenti che vengono dal cuore dell’Europa e sono passati attraverso la Shoà, riunisce così quelli che sono sempre stati lì, per sette generazioni e quelli che ci sono arrivati nella speranza di poter costruire una Nazione. Bassam è nato a Hebron, cresciuto nelle grotte dei patriarchi, ha provato cosa vuol dire essere cacciato da casa propria. Entrambi hanno parteggiato per le loro parti, hanno vissuto lo scontro, entrambi hanno sperimentato la guerra, e tutte e due possono essere indicati come il simbolo dei rispettivi popoli e questa è la ragione per la quale io vorrei cominciare in modo forse banale, ma diretto, lasciando che loro presentino la loro storia e la loro vicenda.

Rami Elhanan

Non potete neanche immaginare che piacere sia per noi vedere così tanta gente che si è affollata per ascoltarci con spirito puro. Questo “terrorista” palestinese che vedete qui alla mia destra è il mio caro fratello Bassam Aramin. [sorride] È la persona che più mi è vicina al mondo, più vicina di alcuni componenti della mia famiglia, sicuramente più di alcuni componenti del mio popolo. Quello che ci accomuna è il prezzo che entrambi abbiamo pagato come conseguenza di questo conflitto che ammorba le nostre nazioni da tanto tempo. Non abbiamo bisogno di parlare per capirci, perché condividiamo lo stesso dolore. Per me Bassam è un leader, una guida, io lo ammiro. È da lui e da tanti fratelli e sorelle affiliati all’organizzazione di cui facciamo parte che io traggo la mia forza. Si tratta del Parents circle, il Circolo dei genitori, un’organizzazione che racchiude in sé sia palestinesi che israeliani, famiglie e genitori che hanno subito un lutto. Sono 750 famiglie che hanno pagato il prezzo più alto possibile e che hanno questo dolore come denominatore comune. Non è un gruppo di sostegno, non è che andiamo a mangiare insieme l’hummus, non ha niente a che fare con il supporto psicologico. Quello che ci unisce è il dolore, è il prezzo che abbiamo pagato, conseguenza di questa situazione insostenibile in cui un popolo domina un altro. Noi abbiamo perso le nostre figlie a causa dell’occupazione degli israeliani degli ultimi 75 anni. È un’organizzazione molto particolare quella di cui facciamo parte perché è l’unica organizzazione al mondo che non cerca altri affiliati.

Mi chiamo Rami Elhanan, ho 75 anni, sono un graphic designer, vivo a Gerusalemme, sono un gerosolomitano di settima generazione, sono nato a Gerusalemme. Sono ebreo, sono israeliano, ma prima di ogni altra cosa sono un essere umano. Cinquantuno anni fa ero un giovane soldato e combattevo una guerra orrenda, quella dell’ottobre 1973. Partimmo con undici carri armati, ritornammo con tre e io persi molti dei miei migliori amici nel deserto del Sinai. Ritornai a casa pieno di rabbia e di delusione e con la ferma determinazione di non lasciarmi coinvolgere assolutamente in nulla. Quindi mi iscrissi alla scuola d’arte per diventare un graphic designer, poi incontrai quella che sarebbe diventata mia moglie e desiderai formare una famiglia. E così fu; nacquero quattro bambini. Quarantuno anni fa nacque mia figlia all’ospedale Hadassah, si chiamava Smadar, un nome preso dalla Bibbia dal canto di Salomone e vuol dire: fiore che sboccia. Era una bambina molto vivace, piena di energia, dinamica, bella, era una brava studentessa, nuotava, danzava, suonava il piano. Era una ragazza stupefacente e tutti la chiamavano principessa. Conducevamo una bella vita nella nostra casa di Gerusalemme. Eravamo io, mia moglie, che lavorava alla Hebrew University, aveva una cattedra, i miei tre figli maschi e la principessa. Sembrava che la nostra vita fosse perfetta, non le mancava niente, avevamo tutte le protezioni che ritenevamo sufficienti. Sotto molti aspetti si potrebbe dire che ci eravamo costruiti una grossa bolla nella quale vivere. Completamente distaccati dal resto del mondo ci occupavamo dei nostri affari. Vivevamo comodamente; io lavoravo per chiunque fosse disposto a pagarmi, fossero di destra o di sinistra. Tutto questo durò fino a circa 27 anni fa. Il 4 settembre 1997 questa bolla scoppiò e andò in milioni di pezzi. Due kamikaze di Hamas si fecero esplodere nella strada Ben Yehuda, nel centro di Gerusalemme, uccisero cinque persone in quell’esplosione, di cui tre bambine, una di loro era la mia quattordicenne Smadar. Era un giovedì pomeriggio e fu l’inizio di una notte molto lunga, molto fredda, che dura tutt’ora. Quando si sente un’esplosione uno spera semplicemente che quel dito puntato non sia rivolto contro di lui. E improvvisamente o anzi gradualmente ci si mette a correre per le strade della città, cercandola, perché non la trovi più, e così passano molte lunghe ore di frustrazione, passando da un ospedale all’altro, da un comando di polizia all’altro, finchè, dopo molto tempo, ci si trova in un obitorio e quel dito è puntato proprio in mezzo ai tuoi occhi e si è davanti alla scena che mai e poi mai, per tutta la vita, riuscirai a cancellare dalla tua memoria. Poi si ritorna a casa e la trovi piena di persone che sono venute a rendere omaggio, a presentare le proprie condoglianze. Questo è l’inizio del periodo di lutto che nella nostra tradizione, una tradizione piuttosto intelligente, dura sette giorni, si chiama “shiva”: si è come avvolti da tutte queste migliaia di persone che ti accompagnano nel passaggio verso questa nuova vita. Ma l’ottavo giorno si è di nuovo da soli e allora bisogna alzarsi e affrontarsi. E bisogna prendere una decisione: che cosa fare di questo dolore insopportabile? Che cosa fare di questa rabbia che ti divora vivo? Ci sono solo due risposte possibili a queste domande, la prima è ovvia: quando qualcuno ti ammazza la figlia quattordicenne l’unica cosa che desideri è rendere la pariglia; se qualcuno ti dà un pugno in faccia la risposta automatica è darne uno anche tu. È umano, è naturale, ed è la strada che molte persone scelgono. È la strada della vendetta, della rivalsa, l’inizio di quel ciclo di violenza che una volta partito non smette mai; è quello che succede nei nostri giorni. Dopo un po’ si incomincia a capire che siamo esseri umani, non siamo delle bestie e quindi possiamo usare anche la nostra testa. E ci si comincia a porre delle domande: se uccido qualcuno riuscirò a riavere mia figlia? Se farò del male a qualcuno riuscirò a contenere parte del mio dolore? Siccome la risposta è chiaramente no, allora si intraprende l’altro processo, molto lungo e difficile. Si cerca di capire perché è successa questa cosa, come è potuta accadere un’atrocità simile. Come è possibile che una persona sia così piena di rabbia e così priva di speranza da farsi esplodere uccidendo una ragazzina di quattordici anni? C’è una qualche connessione, una qualche responsabilità? Ci vuole tempo, non è facile; mi ci è voluto quasi un anno. All’inizio, abbastanza stupidamente, pensavo di riuscire a ritornare alla mia vita di sempre, facendo finta che non fosse successo niente. Volevo ritornare al mio studio, riprendere la mia vita normale, ma non c’era più niente di normale, io stesso non ero più quello di prima.

Circa un anno più tardi incontrai un grand’uomo che cambiò la mia vita in modo drastico, era un tipo massiccio, con quello zucchetto che portiamo sulla testa. E sapete tutti come si tenda a classificare le persone per il loro aspetto, per come si vestono, per quello che si mettono sulla testa. Ero sicuro che quest’uomo fosse un fascista, uno di quelli che si mangiano gli arabi a colazione e mi preparavo già allo scontro. Incominciammo a parlare e lui mi raccontò di suo figlio, un giovane soldato che fu rapito e ucciso da Hamas nel 1994. Incominciò a parlarmi dell’organizzazione che lui aveva fondato e che riuniva persone che avevano perso un loro caro, ma che ancora cercavano la pace, palestinesi e israeliani insieme. Mi invitò anche ad assistere ad uno dei loro incontri, io mi incuriosii, pensai: andiamo a vedere questi pazzi, vediamo cosa succede. Questo avveniva ventisei anni fa, me ne stavo un po’ in disparte con il mio cinismo, completamente riluttante, così come sono sempre. Guardavo la gente che scendeva dagli autobus ed ero sorpreso, vedevo scendere da questi autobus delle persone che per me, un patriota israeliano, erano delle leggende viventi, persone che io ammiravo e mai avrei pensato che un giorno sarei stato in mezzo a loro. Persone che avevano perso i loro figli e che ancora combattevano per ottenere la pace. E poi vidi qualche cosa che era completamente nuovo per me, per i miei occhi, per la mia anima. Vedevo famiglie palestinesi che camminavano verso di me per stringermi la mano, per abbracciarmi, per piangere con me. Rimasi veramente scioccato, scosso e commosso. Allora avevo 46 anni e sono tutt’ora pieno di vergogna quando devo ammettere che per tutto quel tempo io non avevo mai visto i palestinesi come esseri umani; quella era la prima volta. I palestinesi per me erano gli operai che vedevo lavorare sulla strada, i terroristi, degli esseri trasparenti. E invece eccoli: erano esseri umani che condividevano lo stesso carico di dolore che portavo sulle mie spalle, che soffrivano esattamente nello stesso modo in cui soffrivo io. Mi ricordo in particolare una donna anziana che indossava il vestito tradizionale palestinese lungo, nero, sul suo petto portava l’immagine di un bambino di sei anni, esattamente come faceva mia moglie che aveva un medaglione con il nome della nostra bambina. Non so cosa successe dentro di me ventisei anni fa, non me lo so spiegare, so soltanto che da quel momento in avanti mi dedicai ad una cosa soltanto. Ho così dedicato la mia vita a parlare alle persone che vogliono ascoltare, come anche a quelle che non vogliono ascoltare, per trasmettere loro questo messaggio molto semplice: non siamo condannati, non dobbiamo per forza ammazzarci l’un l’altro, non sta scritto da nessuna parte, non è il nostro destino. Possiamo cambiare tutto questo, possiamo spezzare questo ciclo di violenza e vendetta che va avanti all’infinito, dobbiamo farlo semplicemente parlandoci, non smetterà mai se non ci parliamo. Io sono profondamente convinto che possiamo imparare ad ascoltare gli altri, sono anche convinto che una volta che tu impari ad ascoltare il dolore degli altri, allora anche gli altri potranno imparare ad ascoltare il tuo dolore; solo allora si potrà intraprendere insieme questo lungo percorso verso la riconciliazione e alla fine raggiungere la pace. È un percorso lungo, accidentato, dove non ci sono scorciatoie, però è l’unica alternativa che abbiamo, l’altra soluzione è troppo orrenda. Questo è quello che facciamo noi del Parent circle, noi continuiamo a sbattere la testa contro questo muro di odio che divide i due popoli. Apriamo delle crepe in questo muro, delle crepe di speranza, una crepa dietro l’altra la luce incomincia ad entrare e anche un piccolo raggio di luce che penetra attraverso queste fessure può sciogliere molta oscurità. E questo andrà avanti fino a che non riusciremo ad abbattere questo muro, perché l’alternativa, come ho detto, è troppo orrenda. Abbiamo un alleato potente dalla nostra parte, il nostro dolore: il potere del dolore è molto simile all’energia nucleare. L’energia nucleare può essere utilizzata per fare del male, per creare dolore, distruzione, ma può anche essere usata per produrre luce, calore, speranza. Viaggiamo nei nostri due paesi e visitiamo una scuola dopo l’altra per parlare ai ragazzi, sia israeliani che palestinesi, per dire loro che il nostro sangue ha esattamente lo stesso colore, che anche il dolore è lo stesso e le nostre lacrime sono ugualmente amare. E se noi che abbiamo pagato il prezzo più alto possibile, se noi che abbiamo tutte le ragioni per ucciderci a vicenda, se noi possiamo chiamarci fratelli penso che ogni altra persona possa farlo e penso che ogni persona dovrebbe farlo. Grazie mille! [applausi]

Bassam Aramin

Buonasera. [applausi]

Il poeta siriano Muhammad al-Maghut dice: quando mi sposerò voglio avere un maschio, non una femmina, perché le donne non vengono trattate bene dalle mie parti e darò a questo maschio un nome molto speciale, cosicché nessuno possa riconoscere la sua nazionalità o la sua religione, non i mussulmani, non i cristiani e neanche gli ebrei. Lo chiamerò Adam, gli dirò che la sua missione è l’amore, la sua religione è l’umanità, e la sua sinagoga o la sua chiesa o la sua moschea è il cuore di ogni essere umano. E dice anche: non c’è una strada verso la pace, la pace è la strada.

Io sono nato in una grotta, in una “piccola” famiglia, siamo soltanto sedici tra fratelli e sorelle, è considerata una piccola famiglia dalle mie parti [sorride]. È così difficile crescere da palestinese, è molto difficile crescere in un paese occupato: persone che ci sono completamente estranee, che non hanno lo stesso aspetto, non sono come noi, non parlano la nostra lingua vengono per controllare la nostra vita. Naturalmente li odiamo, non c’è assolutamente la necessità di imparare come si fa a odiare questi estranei. Così quando compii tredici anni insieme ad altri quattro ragazzini creai un gruppo militare locale per combattere l’occupazione. Il nostro strumento era la bandiera palestinese perché issare la bandiera palestinese era un reato, non vi nascondo che è tutt’ora un reato, un reato per il quale la condanna va dai sei ai dodici mesi di prigione e magari qualcuno ti spara e ti ammazza per aver issato la bandiera. All’età di sedici anni rinvenimmo in una grotta delle vecchie armi, tra cui c’erano due bombe a mano e altro materiale militare che non sapevamo certo usare. Due dei miei amici presero queste bombe a mano e le lanciarono contro una jeep in cui c’erano dei soldati israeliani, era una pattuglia che passava vicino a Hebron; nessuno rimase ferito, tantomeno ucciso, perché noi non sapevamo come usare queste armi. Un anno più tardi, all’età di diciassette anni, fummo tutti arrestati, uno si beccò ventun anni di prigione, un altro diciannove, un altro quindici, un altro ancora quattordici e io sette anni. In prigione imparai che per poter sconfiggere e anche uccidere il tuo nemico è necessario conoscerlo, perché se ti limiti a odiarlo è come firmare la tua condanna a morte. Incominciai ad imparare l’ebraico, la lingua del mio nemico, perché volevo uccidere Rami, niente di personale naturalmente [sorridono entrambi]. Poi il caso volle che mentre ero in carcere vedessi un film sull’olocausto, spero che voi sappiate cosa sia l’olocausto, perchè se lo chiedete ai palestinesi non sanno cosa sia. Quello che io a quel tempo sapevo, era che qualcuno che si chiamava Hitler aveva fatto fuori sei milioni di ebrei, ma che era tutta una bugia, non era successo niente. Anzi io volevo guardare questo film, anche se era tutta una bugia, proprio perché volevo vedere il mio nemico che veniva torturato, maltrattato, ucciso, sottoposto a occupazione, proprio perchè io mi trovavo in un carcere israeliano. Dopo alcuni minuti mi ritrovai con le lacrime agli occhi perché non potevo accettare che degli innocenti potessero essere maltrattati in questo modo da altri esseri umani, non credevo ai miei occhi, non potevo credere che tali atrocità potessero essere state commesse da esseri umani contro altri esseri umani, continuavo a ripetermi: ma è solo un film. Per farla breve, ma è una storia lunga, decisi di conoscere di più su questa grande bugia: se era davvera accaduta, o se era soltanto un film. Volevo cercare di capire la brutalità dei soldati israeliani che venivano nel mio villaggio, quando ero giovane. Non riuscivo a capire da dove venisse tutta questa brutalità, tutto questo odio, perché si comportavano come delle macchine assassine, che non facevano differenza tra adulti, bambini, donne, uomini, medici; mi dicevo forse hanno visto questo film e usano la stessa brutalità quando vengono al mio villaggio. Mi dicevo che forse se noi palestinesi ci fossimo trovati nella stessa situazione avremmo perso anche noi la nostra umanità e avremmo usato la stessa brutalità. Questo significa che allora, quando ero in prigione, non sapevo cosa fosse successo ai palestinesi nel 1948 con quella che noi chiamiamo la Nakba. E così la visione di quel film mi spinse, 25 anni dopo, a studiare l’olocausto all’Università di Bradford, nel Regno Unito, e mi iscrissi così ad un corso di Master. Lì capii che quando uno conosce sa agire molto meglio, mentre invece se uno non sa, semplicemente non sa. E mi resi conto che è molto meglio non sapere perché si è sempre in accordo con se stessi, quando invece si scopre qualche cosa di diverso, allora si comincia a soffrire perché non si può più rimanere zitti. Per quanto riguarda la mia permanenza nelle carceri israeliane devo dirvi che non ha fatto altro, e in generale non fa altro, che aumentare la determinazione a imbraccciare la lotta armata per opporsi all’occupazione. Sono loro che ci insegnano a odiarli, perché loro ci vedono come assassini, terroristi, selvaggi, barbari e noi li vediamo come assassini, terroristi e occupanti. E quindi sette anni dopo, nel 1992, quando uscii dalla prigione, continuavo a credere nella lotta armata come unico strumento di comunicazione con quella gente. Nel 1993 improvvisamente ci fu la pace tra l’OLP e Israele, si firmarono gli accordi di Oslo. Fu allora che io vidi gli stessi assassini, gli stessi terroristi, gli stessi prigionieri palestinesi diventare o generali delle forze di sicurezza palestinesi o rappresentanti dell’autorità palestinese, che a loro volta incontravano gli stessi politici israeliani che quindici, venti anni prima li avevano arrestati. Quindi mi sono chiesto: perché ho dovuto passare sette anni in prigione, solo per assistere a questa sciarada? Quello che successe allora era che gli Stati Uniti e Israele avevano deciso che quelli che il giorno prima erano chiamati terroristi erano diventati improvvisamente partner con cui firmare la pace. L’OLP veniva allora descritta esattamente con le stesse parole con cui viene descritto Hamas al giorno d’oggi. Io allora, come molti palestinesi e israeliani, sostenni il processo di pace e pensavo che da quel momento avremmo cominciato a vivere in pace. E se c’è la pace allora uno incomincia a pensare in modo normale. Così io decisi di crearmi una famiglia, ero giovane, pensavo che fosse la cosa giusta da fare; invece con le mie stesse mani, mi sono rinchiuso in un carcere, in una gabbia dorata. La chiamiamo proprio così: la prigione dorata [sorride]. Così da un giorno all’altro arrivarono sei figli, così la mia missione era diventata proteggere i miei figli. Pensavo che non avrei mai permesso che mio figlio finisse per sette anni in una prigione israeliana perché non sapeva niente o perché voleva issare la bandiera palestinese, io ero lì, sapevo come allevare i miei figli, o almeno era quello che pensavo a quei tempi. Scoprii che erano ormai più di cento anni che noi cerchiamo di ammazzarci a vicenda. Nonostante Israele, gli Stati Uniti e molti paesi europei siano contro i palestinesi noi ci siamo dimenticati di morire, siamo ancora qui, però ci sono sempre più vittime, più sangue versato, più violenza, Isreale non è sicuro e la Palestina non è libera. Nel 2002- 2003 incominciai a sentir parlare nei media israeliani del fenomeno dei refuseniks, cioè di quei ex soldati e ufficiali israeliani, che si rifiutavano di servire nell’esercito, nei territori occupati. Per me, come palestinese, era molto strano sentirgli dire che si rifiutavano di prestare il servizio militare nei territori occupati perché amavano Israele e perché era contrario ai loro valori di ebrei. Ed era persino contrario ai valori sionisti, il che era per noi quasi una contraddizione in termini associare sionismo e valori morali, ma chi sono queste persone? [Rami Elhanan sorride] E così dopo un paio d’anni organizzammo un incontro. Quattro palestinesi ex prigionieri, tra cui io stesso e sette ex ufficiali israeliani, tra cui il figlio di Rami; naturalmente Rami arrivò al nostro secondo incontro e fu così che io incontrai nel 2005 questo mio nobile nemico. E penso che quando ci siamo incontrati lui si sia innamorato di me [Rami Elhanan sorride]. È stato l’incontro più difficile della mia vita. Potete solo immaginarvi come sia incontrare per la prima volta il tuo assassino, il tuo carceriere, l’occupante della tua terra, tutto quanto di male c’è stato nella tua vita, per questo potevamo vedere la paura nei loro occhi. Continuammo a incontrarci per un anno, alla fine del quale eravamo già in 300 persone e creammo un movimento chiamato: Combatants for peace cioè Combattenti per la pace. [applauso dal pubblico] Scoprimmo che siamo sì molto diversi, ma alla fine siamo uguali, perché vogliamo esattamente la stessa cosa: ucciderci a vicenda per raggiungere la pace e la sicurezza, naturalmente ognuno dal suo punto di vista.

Due anni più tardi, il 16 gennaio 2007, un giovane poliziotto di frontiera israeliano, poco più che adolescente, uccise mia figlia Abir, era la terzogenita. Era quindici, venti metri davanti alla sua scuola, cadde per terra, due giorni dopo morì nell’ospedale Hadassah dov’era nata. Due ore più tardi ricevetti mio fratello Rami con sua moglie e più di trenta famiglie israeliane che trascorsero con me tre giorni a pregare per la piccola Abir, finchè non morì. Fin dall’inizio dissi: vorrei che Abir fosse l’ultima vittima del conflitto tra israeliani e palestinesi. Io non mi arrenderò, inseguirò questi assassini in tribunale anche per i prossimi cento anni. Purtroppo però gli israeliani chiusero questo caso per insufficienza di prove. Dopo quattro anni e mezzo il tribunale supremo israeliano decise che la madre aveva il diritto di sapere chi era l’assassino di sua figlia, ma il caso era ormai chiuso poiché erano passati quattro anni e mezzo e per insufficienza di prove. Dopo tre anni e mezzo dalla morte di mia figlia incontrai il suo assassino, gli dissi che era una vittima, gli dissi: tu non sei un eroe, non sei neanche un combattente, non hai fatto fuori il nemico, non hai ucciso un terrorista, hai soltanto ucciso una bambina innocente di soli dieci anni, se sei orgoglioso di quello che hai fatto goditi il tuo crimine, io non mi vendicherò su di te, perché io non prendo vendetta su una vittima, per me tu non sei meno vittima della tua vittima. [applauso dal pubblico] Ma se un giorno vorrai venire da me a chiedere perdono, verrai e mi troverai, ma non sarà certo per te, ma per me stesso, per il grande amore verso mia figlia, per l’amore che provo per gli altri miei cinque figli e perché non voglio che loro crescano e diventino tue vittime. Tra la morte di Abir e quella di Smadar erano trascorsi esattamente dieci anni, eppure, non lo sapevamo, il nemico comune, l’assassino che le ha uccise, era lo stesso: è l’occupazione israeliana. Due giorni dopo la morte di Abir decisi di entrare a far parte del Parents circle proprio perché due anni prima avevo conosciuto mio fratello Rami. Anche se io conoscevo benissimo le persone meravigliose che ne facevano parte ovviamente non volevo diventare uno di loro, neppure nei miei sogni peggiori. Come ha già detto Rami adesso nel Parents circle ci sono oltre 750 famiglie che hanno perso un loro caro. Vogliamo dimostrare che noi possiamo essere veramente dei partner per la pace. Non abbiamo bisogno di amarci, non c’è neanche bisogno di piacersi, abbiamo bisogno di rispettarci. Io voglio che tu abbia rispetto per me come essere umano, per i miei diritti, per i miei confini, per la mia dignità e io nello stesso modo rispetterò te. Abbiamo dimostrato di poter essere dei compagni, dei partner, degli amici, addirittura dei fratelli, e nel nostro caso possiamo persino sentirci una famiglia. Come ha detto Rami: grazie mille!. [applausi]

Claudio Baroni

La storia di Bassan e di Rami è raccontata in questo libro: Apeirogon che prende il titolo dal poligono con infiniti lati. È di infiniti aspetti il problema complesso che riguarda la Palestina, Israele e il Medio Oriente. Nulla è negato, nulla è nascosto, non c’è quello che qualcheduno chiamerebbe buonismo, c’è la franchezza dei rapporti. Vorrei fare un paio di domande, la prima è questa: perché quelli che lavorano per la pace contano così poco oggi in Israele? La seconda domanda è: ora che la guerra ha preso questa deriva geo-politica, è sufficiente porre la questione in termini di rapporti personali, basta porre la questione in termini di contatto diretto, di incontrarsi a livello di persone, di famiglie.

Rami Elhanan

Non puoi avere una vita privata quando la guerra infuria intorno a te. non puoi mandare i tuoi figli a scuola e ogni giorno aver paura che non tornino a casa. Non puoi condurre una vita normale se non sei padrone del tuo tempo. Il conflitto non è iniziato il sette di ottobre, né è finito l’otto di ottobre. Possiamo guardare alla storia: ai primi tempi del movimento sionista quando c’era un popolo senza una terra e una terra senza un popolo, stiamo combattendo da allora per questa terra come due bambini che si contendono un giocattolo. Fino a quando andrà avanti questa forma di oppressione, che è l’occupazione, ci sarà sempre resistenza, non c’è occupazione senza resistenza, la resistenza a sua volta crea l’oppressione e l’oppressione crea il terrore, il terrore crea la vendetta e così via. Queste sono due società intrappolate in una rete di odio, di paura, di mancanza di fiducia, di enorme rabbia e umiliazione. La soluzione è una sola: “From the river to the sea everyone should be free”: “dal fiume al mare tutti devono essere liberi”. [applausi]

Claudio Baroni

Voi avete detto che le critiche più forti, più feroci, gli attacchi più duri li avete ricevuti dalla vostra gente, dalla vostra parte. Questo per voi ha comportato qualcosa, come avete reagito a queste critiche?

Bassam Aramin

Naturalmente noi stiamo nuotando contro la corrente, è molto difficile andare contro la cultura. Non so se vi sorprenda sentire quello che sto per dire: i palestinesi mi tengono in alta considerazione, a volte mi ricevono perfino come un eroe, non mi sento in pericolo, non corro pericoli, mi rispettano e lo fa addirittura chi non è d’accordo con me, perché io non ho paura e continuo a far sentire la mia voce. Il peggio a me è già successo ed è per me una questione di responsabilità continuare a far sentire la mia voce, a dire quello in cui credo. Personalmente non credo nel vittimismo, non voglio vivere da vittima ed è proprio questo che io vorrei dirvi, abbandonate questa cultura della colpa qui in Europa. Avete come una spada sopra la vostra testa che vi rende muti, non potete agire perché vi sentite in colpa. C’è qualcosa come questa legge profondamente radicata dentro di voi, secondo cui la critica al sionismo è antisemitismo e questo è incredibile: una legge così non esiste. [applausi] Criticare questi massacri, questi crimini, è antisemitismo? Non lo è per niente, l’obbiettivo è farvi stare zitti, spaventarvi. [applausi]

Claudio Baroni a Rami Elhanan

Condivide questa impostazione?

Rami Elhanan

Sono d’accordo su ogni singola parola. [applausi]

Claudio Baroni

Quali orizzonti vedete per il vostro futuro, per il vostro Paese? Perché dalle nostre parti si comincia a sentire un atteggiamento di sconforto, c’è chi ha creduto che potesse essere costruita la pace, poi ha visto quel che è successo e comincia a pensare che in fondo sono problemi vostri, che per noi si tratta di limitare i danni e che in fondo in fondo è necessario che ve la risolviate tra di voi. Che cosa rispondete a questo atteggiamento?

 Rami Elhanan

Penso che principalmente siano gli europei ad avere una responsabilità in quello che sta succedendo sia in Medio Oriente, che in Estremo Oriente. Il colonialismo e l’imperialismo hanno creato queste linee artificiali nel Medio Oriente e i conflitti sono per lo più una vostra responsabilità. E Bassam ha proprio ragione, dopo l’olocausto in Europa c’è questa coscienza attanagliata dalla colpa, e sentite sì la responsabilità, ma è orientata nella direzione sbagliata. Invece di offrire il vostro sostegno incondizionato a Israele e fornirgli armi, dovreste esercitare il vostro diritto di chiedere umanità da tutti i popoli del Medio Oriente. [applausi]

Claudio Baroni a Bassam Aramin

Condivide?

Bassam Aramin

Sono d’accordo.

Claudio Baroni

Ormai sono anni che state girando il mondo, avete portato il vostro messaggio alla Casa Bianca, in Vaticano, ai parlamenti, nelle scuole. Voi dite che ogni volta che avete un incontro la sensazione è che il messaggio è lo stesso ma c’è sempre una sensazione nuova, a me piacerebbe sapere che sensazione avete questa sera qui con noi a Brescia?

 Bassam Aramin

Per me questa sera e tutte le prossime sere saranno sempre una sera di meno nell’occupazione israeliana. Vedere la gente che viene ad ascoltare il nostro messaggio è quello che ci dà la forza per continuare, per mettere alla prova la nostra umanità, per resistere. Non sta scritto da nessuna parte che noi dobbiamo continuare ad ammazzarci a vicenda, purtroppo il nostro non è il primo conflitto e non sarà neanche l’ultimo. Ricordiamoci sempre che i palestinesi non hanno ucciso sei milioni di israeliani, gli israeliani non hanno ucciso sei milioni di palestinesi [Rami aggiunge: non ancora] e che c’è un ambasciatore tedesco in Israele e c’è un ambasciatore israeliano a Berlino e questo è avvenuto cinque anni dopo l’olocausto, con sei milioni di morti. Questo significa che anche gli israeliani e i palestinesi lo possono fare. Quello di cui abbiamo bisogno è un leader coraggioso che ci sappia liberare di un passato molto doloroso, perché il passato è ormai chiuso. Per aiutarci e darci un po’ più di speranza, c’è qualche cosa che gli italiani potrebbero fare: chiedere al proprio governo di riconoscere lo Stato Palestinese in cui credono, cioè entro i confini del 1967, che sono stati riconosciuti dalle Nazioni Unite, dal Consiglio di Sicurezza e dal popolo italiano. [applausi]

Claudio Baroni

Voi girate il mondo, incontrate un pubblico che in genere condivide i vostri messaggi, poi riprendete l’aereo e riatterrate a Tel Aviv, quando prendete quell’aereo di ritorno che cosa pensate?

Rami Elhanan

Quello che sta succedendo adesso in questo momento è uno sviluppo che non è sano. Il nostro conflitto è diventato una specie di reality show. La gente ci guarda mentre ci ammazziamo con la mentalità di quelli che vanno allo stadio, hanno le bandiere, hanno le sciarpe, hanno i loro riti e non si ascoltano l’uno con l’altro. Non hanno nessuna compassione. Ora vorrei che voi mi ascoltaste attentamente, che cosa potete rispondere alla domanda: che cosa possiamo fare? Che è la domanda più importante dopotutto, qual è il messaggio che vi porterete a casa dopo questo evento? Che cosa sognerete stanotte? E che azione intraprenderete domani mattina? Mio padre era un sopravvissuto di Auschwitz, ottantacinque anni fa quando i miei nonni furono accompagnati dentro un forno i paesi europei, il mondo libero e civile, decise di non alzare un dito. E adesso quando le nostre due nazioni di pazzi si scannano a vicenda, senza alcuna misericordia, il mondo libero e civile sta lì in disparte e non dice una parola. In questo momento davanti al genocidio che si sta perpetrando a Gaza, in Siria, alle atrocità in Ucraina, il mondo libero e civile è lì in disparte, non dice niente. E assistere ad un crimine senza alzare un dito è anch’esso un crimine. Naturalmente noi non pretendiamo che voi importiate il nostro conflitto nei vostri paesi, avete già abbastanza problemi da soli. Non abbiamo bisogno che voi tifiate per Israele o per la Palestina, questo atteggiamento non ci aiuta. Noi vi chiediamo di essere per la pace. [applausi]  Vi chiediamo di essere per la giustizia e soprattutto di essere contrari a questa situazione anomala in cui un popolo ne domina un altro; questa è l’essenza del problema, bisogna cambiarla e può essere cambiata. Terminerò con il messaggio di un ebreo. [Nessuno è perfetto” dice Bassam]. [tutti ridono]

Io sono un ebreo orgoglioso, ho il massimo rispetto per il mio paese, per il mio popolo, per la mia cultura, per la mia storia e per la mia religione. E penso che opprimere, occupare e dominare milioni e milioni di persone, senza alcun diritto democratico, questo non è ebreo. [applausi] Non ci sono dubbi su questa cosa, non è da ebrei ed essere contro questo non vuol dire essere antisemiti [applausi] e se vi capiterà di discutere su questo argomento potrete dire che ve l’ho detto io. Grazie! [applausi]

Bassam Aramin

Giusto per rispondere alla domanda a che cosa penso quando sono in volo verso casa: c’è un detto inglese: “East or west, home is the best”: “Che sia oriente, che sia occidente, la casa è il posto migliore che ci sia”. Grazie! [applausi]

 

Nota: Trascrizione, basata sulla traduzione consequenziale di Marina Fracchia, non rivista dagli Autori, della conferenza tenuta a Brescia il 24.10.2024 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura, ACLI e Diocesi di Brescia nell’ambito del Festival della Pace.