Mi metto in viaggio nel labirinto joyciano: è una vera sfida percorrere in un tempo breve qualcosa che non è percorribile. E quindi farò del mio meglio per dare un’idea di questa avventura significativa del nostro secolo
L’opera di James Joyce ci impone come primo problema un terribile spaesamento per le forme differenziali dell’identità. In parole semplici ciò significa che tutta l’opera narrativa di Joyce, a partire dai Dubliners, si svolge nello stesso luogo, Dublino, e quindi c’è sempre l’identità spaziale, mentre il tempo del racconto è sempre differenziato; invece alla fine dell’opera ci troviamo di fronte ad un labirinto cronotopico, ad un labirinto cioè di spazio e tempo particolare che apre la città mortale di Dublino alle sfumature dell’eternità. Naturalmente in così breve tempo non posso attraversare strutturalmente i quattro romanzi; quindi, cercando un po’ come Icaro di impormi delle ali fittizie, inizierei il discorso dal nono episodio dell’Ulisse “Scilla e Cariddi”, là dove Stephen Dedalus, uno dei protagonisti del macrotesto di tutta l’opera joyciana, e che significativamente si chiama appunto Dedalus, ovvero l’artefice che costruì un labirinto, prendendo in considerazione il testo di Shakespeare afferma: “A man of genius makes no mistakes. His errors are volitional and are the portals of discovery” [Un uomo di genio non fa errori. I suoi sono errori voluti e sono portali di scoperta]. È molto interessante il contrappunto tra “mistakes”, che sono veri errori, e “errors”, che sono più segno di erranza, di movimento, di nomadismo. E nell’opera di Joyce, del resto, perché possa essere compresa, bisogna tenere conto anche di tutti i passi volutamente devianti la lettura. Questo avviene nell’Ulisse, ma nel Finnegans Wake abbiamo addirittura una lingua immaginaria, che non è neppure inglese, ma che significativamente cerca di inglobare tutte le lingue, come un’enciclopedia non solo dei contenuti, ma di tutte le lingue.
Darò un esempio. Ad un certo punto in questo testo, il più difficile, che è basato soprattutto sul lapsus, sulla condensazione, sugli effetti onirici, c’è questa frase significativa, che in inglese non significa nulla: “Who ails tongue coddeau, aspace of dumbillsilly?” [Colui che affligge lingua regalo uno spazio…] Però se leggiamo alla francese, scopriamo che questa frase inglese in realtà è una trascrizione fonica della frase: “Où est ton cadeau, espèce d’imbécile?” [Dov’è il tuo regalo, razza di imbecille?]. Naturalmente questo è un segnale, perché tutta l’opera di Joyce, oltre ad essere tragica, ha anche un aspetto comico. Questo segnale ci fa dire che la sua opera mira titanicamente (i Titani sono coloro che non hanno il senso della misura e miticamente sono simboli dell’eccesso) ad inglobare tutta la tradizione occidentale.
Ancora un esempio, per dire che se nel Finnegans Wake ci sono tutti questi echi di moltissime lingue, oltre che di moltissimi contenuti, che tendono a costruire un geroglifico da cui nasce tutto il sapere e che non permettono una lettura definitiva, ma un percorso diverso a seconda di dove si entra, nell’Ulisse è presente invece la tendenza a far diventare la lingua musica. Nell’undicesimo episodio “Le Sirene” c’è una sorta di ouverture che non ha un senso in sé, ma che trova senso se si legge tutto il capitolo. All’inizio infatti ci sono dei suoni che paiono senza senso, ma che in realtà raffigurano alcune modalità musicali, perché nell’Ulisse, prima di tentare la “lingua delle lingue”, come ho detto, l’autore tenta di portare la prosa ad una valenza musicale. Quindi abbiamo il trillo, una ripetizione alternata di note a distanza di seconda superiore e inferiore. Joyce riteneva la prima frase delle “Sirene”più bella del Tristano e Isotta di Wagner, come dimostra un episodio della biografia, quando lo scrittore chiede all’amico Weiss un confronto tra gli effetti musicali del suo Ulysses e il dramma musicale di Wagner: “… Joyce disse: – Non ti sembra che gli effetti musicali delle mie Sirene siano superiori a quelli di Wagner? – No – disse Weiss. Joyce alzò i tacchi e non si fece più vedere per il resto dell’opera, come se non potesse sopportare di non essere preferito”. C’è questa tendenza, appunto titanica, che non è però solo sua; già a partire da Walter Pater, che è uno scrittore importante per Joyce, tutta la scrittura, tutta l’arte, non solo nella prosa ma anche nella poesia, tendono alla musica. Abbiamo dunque questi suoni che di per sé sembrano senza significato:
“Bronz by gold heard the hoofirons, steelyringing.
Imperthnthn thnthnthn”.
[Bronzo accanto a oro udirono zoccoli ferrosi acciaisonanti.
Impertnt tntntn].
È un tipico trillo perché la plosiva orale sorda diventa dentale e nasale, tanto che Luciano Berio negli anni ’50 rese omaggio a Joyce facendo della musica elettronica su questa base. Non mi dilungo su questo tema, ma vi do solo un esempio dello staccato:
“Chips, picking chips off rocky thmbnail, chips”.
Qui c’è la separazione brusca tipica dello staccato. Tra l’altro nel primo verso (chiamiamolo pure verso prosastico), che è di per sé una frase difficilissima, “bronz by gold” si comprende solo leggendo tutto l’episodio, perché si scopre che bronzo era nel colore dei capelli di una barista e oro nei capelli di un’altra barista in un pub. È già interessante sottolineare questa tensione alla musicalità, prima ancora che alla superlingua, alla lingua che tutto ingloba, che non è più una lingua madre, perché la lingua madre di Joyce non è neppure l’inglese, anche se è l’inglese che egli assume come lingua madre, ma è una lingua cosmopolita che assume tutte le altre in una sorte di estasi babelica, come è stato detto. Joyce porta all’estremo limite le possibilità del linguaggio e dopo di lui sicuramente non si può più tracciare lo stesso tipo di percorso.
Questa sera cercherò almeno, se non di farvi uscire dal labirinto, di far vedere come funziona, ma prima di entrarvi devo sottolineare questi fenomeni che sono importantissimi. Voglio far vedere due trucchi, uno lo strisciato glissando, che si ottiene in musica facendo scorrere il dito sulle corde degli strumenti o l’unghia del pollice sul pianoforte: “A sail! A veil awave upon the waves”, che va via proprio come un glissando, come uno strisciato; l’altro il martellato, che sono note battute vigorosamente e che sono più intense dello staccato, che si ottengono quindi con colpi d’archi di violino e che invece Joyce ottiene con parole: “Deaf bald Pat brought pad knife took up”.
In un famoso saggio di John Ruskin del 1864 sull’arte della lettura, Of Kings’ Treasuries [in Sesame and Lilies], poi tradotto nel 1906 da Proust, l’autore sottolinea come la lettura deve essere un nutrimento spirituale, non la sostituzione del nutrimento spirituale, ma una parte di esso e come i libri che veramente nutrono sono i libri che durano per sempre, i libri che hanno un segreto, e non i libri del momento, che sono soprattutto di comunicazione diretta. Naturalmente questo segreto non è un segreto ineffabile, ma è la difficoltà che essi oppongono allo sguardo del lettore, perché il lettore trovi uno spazio potenziale di pensiero all’interno del testo, pensiero che riesca a sposare la forma col contenuto e che permetta appunto di nutrire lo stesso lettore. Proust, traducendo Ruskin, dice che l’oro che si trova nel testo non è l’oro che ha messo lo scrittore, ma il lettore; cioè il lettore che prende possesso di questo spazio potenziale, commenta Proust, è colui che poi troverà l’oro, il filone aureo in sé medesimo. In Joyce questo spazio potenziale riguarda un linguaggio segreto, tanto è vero che i suoi quattro libri finiscono in una “non lingua” che è quella appunto del Finnegans Wake, che è come una lingua aurorale, la lingua prima che sia codificata, quella che tutti i poeti conoscono, il mormorio della musa. In Finnegans Wake ritroveremo la parola quasi lallazione, quasi suono, che ancora non prende forma e che non si disintegra, ma che si orchestra e che diventa sempre più complessa e più ricca nel tempo e che attraverso le indagini critiche, invece di risolvere il proprio segreto, concede sempre uno spazio nuovo a chi intraprende il viaggio iniziatico per mettersi in rapporto passionale, ma anche critico, colla propria capacità simbolizzante, con la propria lingua, ma con anche quella di altri popoli di altri paesi. In questo senso Joyce è lo scrittore più cosmopolita.
Per motivi di disciplina cominciamo allora con i Dubliners, un testo apparentemente semplice, ma che presenta dei procedimenti che permettono al lettore di trovare una propria chiave per una narrazione mitica della vita. Joyce scrive: “Mia intenzione era di scrivere un capitolo morale della storia del mio paese e scelgo Dublino come scena perché è la città che mi sembrava essere il centro della paralisi. Ho tentato di presentarla all’indifferenza del pubblico sotto quattro aspetti: l’infanzia, l’adolescenza, la maturità e la vita pubblica. Le storie sono disposte in questo ordine”.
Ora questi quindici racconti, che hanno una struttura lineare molto semplice, presentano però degli atti di scrittura che sono dei piccoli segreti, il primo dei quali sono gli “effetti di reale”. Barthes chiamava “effetto di reale” quella sorta di effetto che apparentemente fa sì che il suono, il significante, si sposi subito col pseudo referente, cioè la cosa in quanto nominata, la cosa immaginata, mettendo tra parentesi il piano del significato. Nell’Encounter [Un incontro], per fare un esempio di reale, l’elemento è fuori dalla struttura narrativa per cui l’oggetto diventa molto evidente. In questo racconto si trova un ragazzo, il protagonista, che bigia la scuola insieme ad un amico. Vuole andare al Pigeon House, che letteralmente è la “Casa del piccione”, ma rappresenta anche lo Spirito Santo, in un certo senso, e anche la centrale elettrica della città. Mentre i due birichini vagano, incontrano un vecchio maniaco. Ma quello che conta, in questo caso, da questa prospettiva, è una frase apparentemente banalissima: “I saw that he had great gaps in his mouth between his yellow teeth” [vidi che aveva dei grandi spazi vuoti nella bocca tra i suoi denti gialli]. Questo elemento descrittivo non può essere ristrutturato, è deviante, è un “effetto di reale”, e fa vedere come nell’infanzia uno parta per la luce (la centrale elettrica simbolizza la luce, la trascendenza, la bellezza, quello che si vuole a seconda del tipo di lettore, comunque qualcosa che si contrappone al buio delle giornate comuni, di lavoro, di studio) e come visione invece incontra un vecchio maniaco, e il segreto insolubile è questa repulsione che il protagonista prova attraverso questa bocca dentata in modo sgradevole.
Così in Un increscioso incidente c’è un uomo molto timido, uno studioso, che incontra una signora sposata, la signora Sinico che gli fa qualche cenno di un’apertura affettuosa e passionale. Il signor Duffy, il protagonista, rifiuta l’intreccio amoroso trasgressivo e non la vede più. Quattro anni dopo, mentre mangia solo e scapolo in un ristorante di quart’ordine, legge che la signora si è suicidata. Anche qui l’elemento significativo è ottenuto attraverso un effetto di reale, un effetto sgradevole: “The cabbage began to deposit a cold white grease on his plate” [intanto nel piatto il cavolo trasudava lento un grasso freddo e biancastro]. Attraverso questo racconto, che è un racconto banale, ma che finisce comunque in modo tragico, l’enigma, l’estetica dell’enigma, fa sì che ci sia un simbolo, che è questo cavolo grasso, che sembra il simbolo della vita del personaggio, questo cibo disgustoso sul piatto. Ma agli effetti di reale lui contrappone degli effetti di irreale là dove i personaggi non riescono più a simboleggiare la loro coscienza. Joyce fa parte di quella grande cultura che vede il mondo non secondo una prospettiva realistica, ma secondo la prospettiva della vita interiore, come Proust, come Virginia Woolf, come tutti i grandi della prima metà del secolo, e nel momento in cui i personaggi vengono come ammutoliti dalla loro condizione avviene questo effetto di irreale. Per esempio, Eveline è una giovinetta che accudisce in modo esemplare un padre vedovo, incontra un marinaio che vorrebbe vivere a Buenos Aires in Argentina e vorrebbe fuggire con lui, è innamorata di lui. Una volta però che arriva al porto sente di non poter abbandonare il padre e si paralizza: “She set her white face to him, passive, like a helpless animal. Her eyes gave him no sign of love or farewell or recognition” [Lei lo fissava con la faccia pallida, passiva, come un animale smarrito. I suoi occhi non trasmettevano alcun segnale d’amore o d’addio e neppure lo riconoscevano]. Anche qui la coscienza del personaggio va a pezzi e la voce del narratore raffigura il segreto di una vita, quello più semplice. Il primo romanzo raffigura in Dublino una civiltà al tramonto, che è quella occidentale, in cui nessuno riesce a sfuggire ad un destino di insignificanza. Così nei Morti Gabriel, che è una persona molto vivace, va a festeggiare il Natale presso una zia, e spera che sia un’occasione di dormire fuori casa, lontano dai figli, spera di rinnovare una serata di caloroso affetto con la moglie. Una volta solo con lei (riduco in questo modo barbaro per accelerare), lei rivela che si sta ricordando di un giovane verso cui ebbe un affetto platonico, il quale morì per lei perché rimase sotto la pioggia ad aspettarla. A questo punto Gabriel a sua volta soffre di questo senso di irrealtà, e il narratore dice: “His own identity was fading out into a grey impalpable world” [la sua stessa identità svaniva in un mondo grigio e impalpabile].
Gli effetti più forti però sono quelli dell’epifania. In un libro che precede A Portrait of the Artist, il giovane Stephen, che è la oggettivazione del giovane Joyce, parla di epifanie come dei fenomeni che fanno esplodere l’essenza dell’oggetto, dal di sotto della sua apparenza. Anche qui però usa molte tecniche che rendono semisegreta, complessa e labirintica l’operazione, perché generalmente il lettore guarda l’azione e come l’azione stessa va a finire. Invece anche qui questi effetti così importanti come l’epifania vengono quando uno meno se l’aspetta, per esempio in pezzetti di frase, di dialogo. C’è un giovanotto nel racconto Sorelle, un ragazzo che è molto affezionato ad un sacerdote che si chiama James Flynn. La tragedia del sacerdote è quella di essere un uomo molto buono, molto per bene, ma senza vocazione, che ha una fine tragica. La storia sembra incomprensibile, ma attraverso i frammenti di conversazione della zia, che il ragazzo intrasente, si chiarisce il problema: “E lo credereste? Era proprio là, solo, nel buio del confessionale, completamente sveglio, e se la rideva piano fra sé. […] Completamente sveglio, sì, e se la rideva piano fra sé… naturalmente, a vedere una cosa simile, pensarono che qualcosa nella sua testa non andava…” La tragedia viene fuori così, in un frammento di frase, in un linguaggio molto basso, quotidiano, quasi dialettale, in un frammento di dialogo, a volte anche in un dialogo con sé medesimo. Joyce usa tutte le cose più semplici della narrativa in modo da frammentare il testo e da mettere nel testo un lampo enigmatico, che deve essere comunque interpretato, perché così prelevato è chiaro, ma nel flusso, cioè nell’opera, nel suo svolgersi drammatico e dinamico, il procedimento è diverso. Per esempio in Araby c’è un giovanotto che per la prima volta si innamora di una ragazza. Il racconto si intitola così perché il protagonista intende andare ad Araby, che è una sorta di bazar, mentre la ragazza non può andarci perché deve andare ad un ritiro spirituale. Anche qui è la storia di un errore, di una erranza, dove l’errore è del personaggio e non dell’autore, che attraverso l’errore del personaggio raffigura la problematica tragicità della vita quotidiana. Nel dialogo, nella conversazione con sé medesimo, il ragazzo stringe le mani, da solo, nel buio e si graffia perché è talmente forte il sentimento che lo lega a questa fanciulla intravista che non può che tremare e mormorare: “O love! O love!”, che sembra quasi una cosa banalissima: “Amore! Amore!” Dopo questa c’è un’altra epifania, descrittiva, in cui la ragazza si mostra attraverso la voce del narratore: “While she spoke she turned a silver bracelet round and round her wrist” [mentre parlava con una specie di tik muoveva un braccialetto d’argento]. Il giovanotto pensa che voglia un regalo, ma sbaglia, e si renderà conto amaramente che la ragazza di lui non si interessa affatto, non vuole nessun regalo, ma il tema non è sviluppato ed è rimasto a livello di frammento.
Potrei fare un ultimo esempio, in cui addirittura irrompe il discorso indiretto libero, quando Gabriel si rende conto che il matrimonio non può essere più rinnovato nella passione originaria. Sembra che parli il narratore, invece c’è un discorso indiretto libero: “Yes, the newspapers were right: snow was general all over Ireland” [Sì, i giornali dicevano il vero: c’era neve dappertutto in Irlanda]. Anche qui una frase molto banale, ma la neve che ricopre l’Irlanda è anche la neve che ricopre i loro affetti e li congela come in un sudario. Il primo testo ci rappresenta dunque Dublino come il centro della paralisi, cioè dell’impossibilità di cambiare vita, che poi è il tramonto dell’occidente di cui si parla da cento anni e che non riesce mai a tramontare per rinnovarsi. E questo è il punto di vista di Joyce, che però scrive i Dubliners nel 1914.
Passiamo ora al romanzo A Portrait of the Artist, dove l’autore addirittura oggettiva la vita d’artista, l’artefice che costruisce il labirinto ed è appunto il “Dedalo”. C’è anche un esergo, indicativo per il lettore: Et ignotas animum dimittit in artes [impegna la mente in arti ignote]. La storia è autobiografica, e forse questo è il libro più letto perché apparentemente più semplice, ma solo apparentemente, perché l’autore in ogni episodio cambia stile. Joyce non ha un proprio stile, non ha mai avuto uno stile, lui mima, semmai, i contenuti spirituali, tanto è vero che per raffigurare l’infanzia si sente la voce paterna che dice: “Once upon a time and a very good time it was there was a moocow…” [nel tempo dei tempi, ed erano bei tempi davvero, c’era una muuucca…] ma dice muuucca come un bambino potrebbe sentirla, e il bambino viene chiamato “baby tuckoo”, che vorrebbe dire “bambino che viene imboccato”. E quindi c’è una mimesi proprio del linguaggio infantile sin dall’inizio. L’artista viene già qui visto come ribelle e questo è un tema che verrà poi ripreso nella complessissima orchestrazione dell’Ulisse e attraverserà tutto il romanzo. Il motivo è rappresentato fin dall’inizio di A Portrait. Vediamo infatti il ritornello, quando il bambino si nasconde sotto il tavolo: Pull out his eyes, / Apologize, / Apologize, / Pull out his eyes [strappa gli occhi, chiedi perdono, chiedi perdono, strappa gli occhi]. Durante gli studi il giovane Stephen (è un fatto autobiografico) si rompe gli occhiali. Viene scoperto da padre Dolan, il prefetto agli studi, un insegnante severo che ritiene che i ragazzi siano degli ipocriti, e viene castigato. Il padre si rivolge a lui così: “Lazy idle little loafer! Broke my glasses! An old schoolboy trick! Out with your hand this moment!” [Pigro piccolo fannullone! Ha rotto gli occhiali! Un vecchio trucco di scuola! Fuori la mano subito!]. E poi c’è la famosa bacchettatura, e il tema verrà ripreso infinite volte come leitmotiv in tutta l’opera joyciana. Il personaggio, l’artista, il giovane artista, si trova davanti ad un bivio: non sa se cercare il sacro attraverso la via religiosa, diventando sacerdote, o diventare artista. Alla fine del libro diventa artista, e diventa tale attraverso la visione della bellezza. Vede infatti una giovinetta sulla riva del mare e anche qui parla con frasi abbastanza banali: “She was alone and still, gazing out to sea; and when she felt his presence and the worship of his eyes her eyes turned to him in quiet sufferance of his gaze, without shame or wantonness” [Era sola e immobile e guardava verso il mare e quando s’accorse della presenza di Stephen e dei suoi sguardi adoranti, gli volse gli occhi in una tranquilla tolleranza del suo sguardo, senza mostrare né vergogna né civetteria]. La traduzione di Pavese dice: “Pareva una creatura trasformata per incanto nell’aspetto di un bizzarro e bell’uccello marino […] Aveva il seno come quello di un uccello, morbido e delicato, delicato e morbido come il petto di una colomba dalle piume scure. Ma i suoi lunghi capelli biondi erano infantili: e infantile, toccato dal miracolo della bellezza mortale, il suo viso”. Così nel secondo romanzo, quello sicuramente più leggibile, ma che va visto nella sua problematicità, il personaggio sceglie l’arte, sceglie davanti alla bellezza immortale della trascendenza la bellezza mortale e tragica dell’umano e quando parla con i suoi colleghi studenti ci sono degli elementi di estetica, in cui la bellezza è descritta come un fenomeno di staticità, in cui la mente viene arrestata al di là del desiderio e della repulsione. Stephen trova il personaggio in questo labirinto della vita, trova come valore il bloccare il tempo, che è solo la prima fase. Noi non capiremmo Joyce se non sapessimo che c’è sempre ironia su questo giovane idealista, c’è ironia quindi su se stesso, perché i problemi sono molto più complessi, però è fuori dubbio questo elemento dell’arresto, che è vero anche per i Dubliners dove, abbiamo visto, tutti gli effetti estetici bloccano la storia e sottraggono il pathos, sia la passione che il desiderio, a una repulsione in senso grottesco. Il personaggio si presenta come ribelle e vien fuori il famoso leitmotiv del non serviam, che ha un sapore luciferino: “I will not serve”, cioè: non servirò ciò in cui non credo più, che si chiami patria, casa, famiglia o chiesa. Quindi il giovane Stephen viene visto come un ribelle che abbandona la famiglia, la fede dei padri e si rivolta contro tutta la cultura del suo tempo. Il testo si conclude con un diario; le parti sono cinque, ognuna con stile diverso, l’ultima diaristica, nella quale c’è il benvenuto alla vita, famosissimo, molte volte letto come lirico, il che sarebbe un errore alla luce di tutta l’opera di Joyce: “Benvenuta, oh vita! Vado ad incontrare per la milionesima volta la realtà dell’esperienza e a foggiare nella fucina della mia anima la coscienza increata della mia razza”. Questo in sé e per sé sembra un frammento lirico, quasi dannunziano, anche se lo stile è molto meno alto.
Nell’Ulisse vedremo che Stephen non riuscirà ad andare via da Dublino e il tempo viene dilatato al punto che il romanzo è un volume enorme, forse uno dei romanzi più lunghi mai scritti, anche se a livello di referenze dura una giornata sola, il 16 giugno 1904. C’è, come si sa, un parallelismo mitologico con la Telemachia (i primi 3 episodi), con l’Odissea (dal 4 al 15) e col Nostos (dal 16 al 18), quindi un parallelismo con Omero, ma c’è una fuga in cui troviamo anche Shakespeare e molti altri autori. Ma quello che serve al nostro autore è riprendere il personaggio di Stephen, che è il protagonista dei primi tre episodi della Telemachia, ri-giocare con un linguaggio diverso, molto più frammentato, il tema della difficoltà di staccarsi dalla madre, che ormai è morta. Stephen si era inginocchiato presso la madre morente e per non essere ipocrita non aveva pregato. Apparentemente il suo era un gesto di liberazione, ma in realtà per tutta la vita egli non viene abbandonato dal senso di colpa, tanto è vero che, nel primo episodio, mormora in un contesto di più difficile ascolto: “No, mother! Let me be and let me live” [No, mamma. Lasciami stare e lasciami vivere]. Nel secondo episodio c’è un altro lampo epifanico quando il personaggio dice: “History is a nightmare from which I am trying to awake” [la storia è un incubo da cui cerco di destarmi]. Quindi un’altra idea del labirinto, sempre presente, della storia. Nel terzo episodio, il suo bastone di frassino pende al suo fianco, come la lancia di Wotan (il wagneriano Wotan ha una lancia di frassino): “My ash sword hangs at my side”.
Uno dei modi per comprendere l’autore, in una delle tante letture possibili, è tenere conto del parallelismo anche con Wagner, in cui c’è naturalmente la nostalgia del sublime, l’impossibilità del vivere a livello eroico, il secondo livello, diciamo così, la parte del romanzo dal quarto al quindicesimo episodio, parallelo a quello dell’Odissea. Nel quindicesimo episodio, “Circe”, abbiamo una dilatazione mostruosa, almeno 170 pagine su 600, quindi molte più di quelle che l’episodio dovrebbe contenere. Qui il discorso è totalmente teatrale; i personaggi parlano come a teatro, ci sono delle didascalie, perché questo è il grande episodio del teatro della coscienza, in cui tutti gli elementi precedentemente scritti da Joyce vengono convocati a giudizio. Qui c’è anche il padre di Bloom, perché i due personaggi, Bloom, che è il protagonista, un ulisside che è un commesso viaggiatore che gira per Dublino, e Stephen, si ritrovano nella Night Town, nella città di notte, nel reparto dei bordelli dublinesi. E proprio in questo luogo “indecoroso” a Bloom appare il fantasma del padre di Ulisse-Bloom, Viràg, che in inglese vuol dire fiore, ma non c’è lingua che non scappi a un qualche tipo di contrabbando, che dice: “From the sublime to the ridiculous is but a step” [dal sublime al ridicolo il passo è breve]. Il sublime è quello che cerca Joyce, cioè la nostalgia del sublime, quel terrore di vivere nell’immondezzaio della storia, di trovare una via nuova e non riuscire che a ricalcare la grande tradizione, ora deridendolo, ora sognandolo, ora essendone orgoglioso. Io lo leggerei come un testo che fa ridere questo testo di “Circe”, uno dei momenti più intensi di Joyce, che fa ridere e piangere allo stesso tempo. C’è del pathos e c’è anche del grande divertissement a livello quasi di farsa, a volte, perché se si scava vengono fuori situazioni farsesche. Per esempio, il buon Stephen si trova a parlare con una meretrice, è ubriaco e vuol fare una specie di patto di sangue, e intanto cita (pensa di citare) il giuramento di sangue del Crepuscolo degli dei di Wagner e dice le seguenti parole: “Hangende Hunger, / Fragende Frau, / Macht uns alle kaputt”, che si potrebbe tradurre: “Desiderio inappagato, / Una moglie che fa domande, / Ci manda tutti in malora”. Una citazione volutamente errata perché il primo e il terzo verso sono inventati, mentre il secondo è tratto da Die Walküre (Le Valchirie) e non dal Crepuscolo degli dei. I due personaggi attraversano questo mondo, diciamo così, di piacere corrotto e basso, mentre Stephen, attraverso delle allucinazioni, vede padre Dolan. Ritorna all’elemento della bacchettatura, all’umiliazione ingiusta, ritorna alla madre che gli dice: “Mi cantavi quella canzone. L’amaro mistero dell’amore”. Ma anche questo è un trucco, perché non è un verso di Joyce, né di Stephen, ma è del grande poeta Yeats. Ma, a parte questi giochi, quello che interessa è che l’autore a livello simbolico vuol fare vedere la difficile percorrenza. Mentre Ulisse riesce a tornare a casa, compie il nostos, il moderno eroe non può tornare a casa e vedremo il senso di questo. Per il momento vediamo Bloom che, per premiarsi, fa dei sogni ad occhi aperti: lui, che è ebreo e sradicato e malvisto e tradito dalla moglie, quindi ha una Penelope ben poco Penelope, si vede nominato sindaco (ma l’autore non avverte che si tratta di un sogno, il lettore deve capirlo da solo); viene poi incoronato come re; addirittura è una donna incinta, perché lui ha sempre amato i figli, che comunque l’abbandonano (uno è morto e l’altra, la figlia, ha abbandonato la casa), e partorisce otto gemelli maschi, il sogno di questo uomo perduto, che hanno tutti a che vedere con l’oro e l’argento: Nasodoro, Goldfinger, Chrysostomos, Maindorée, Silversmile, Silberselber, Vifargent, Panargyros. Contrabbanda l’argento e l’oro in molte lingue europee: sono i figli il vero tesoro, sembra dire. Bloom parla anche dei suoi “progetti di rigenerazione sociale” grazie alle nuove Muse, perché non si tratta più di Clio, la glorificante, né di Euterpe la rallegrante, né di Talia la festosa, né di Tersicore la danzante, né di Calliope la bella voce, né delle altre, e dato che siamo in un’epoca più avanzata le muse non sono più nove ma sono dodici, solo che si chiamano: Commercio, Musica Operistica, Cupido, Pubblicità, Manifattura, Libertà di Parola, Pluralità di voto, Gastronomia, Igiene personale, Concerti in riva al mare, Parto indolore e Astronomia per la plebe. Quindi si fa vedere anche il disagio delle muse in questo degrado generale. Bloom è così incoronato re, quasi come una sorta di Francesco Giuseppe, di colpo si trova poi nel tribunale della coscienza, e rivede il dottor Mulligan, che è uno studente di medicina, un amico di Stephen, che lo accusa in maniera divertente, volutamente farsesca, di essere “bisessualmente anormale”, un esibizionista diventato calvo per abusi di vario tipo; il dottor Madden poi gli riscontra sintomi di ipospadia, una deviazione congenita dell’uretra maschile. Nel testo non è però scritto ipospadia, ma hypsospadias e hypsos è il sublime in greco; quindi sembra che, in modo farsesco ma anche tragico, l’ulisside moderno mantenga il sublime soltanto in una imperfezione di una sua parte non molto nominabile. In questo delirio parodistico Mulligan finisce poi per dichiarare Bloom una virgo intacta. L’episodio si conclude con Stephen che pensa di avere in mano, invece del suo bastone, Nothung, la spada di Sigfrido, e levandolo in alto rompe una lampada nel bordello. Naturalmente ne vien fuori una rissa generale; Stephen sta per essere arrestato ma lo salverà Bloom, l’ulisside. L’interessante è che Nothung, la spada, è in realtà un bastoncino, e anche qui si evidenzia dunque il rapporto passato-presente. Inoltre Nothung assomiglia molto a Nothing, con evidente richiamo al nichilismo della nostra epoca.
L’Ulisse, questo penultimo labirinto, finisce con l’episodio intitolato “Penelope”, con il famoso monologo, di cui cito solo la prima frase: “Yes because he never did a thing like that before as ask to get his breakfast in bed with a couple of eggs since the City Arms Hotel… [Sì, perché prima non ha mai fatto una cosa del genere chiedere la colazione a letto con un paio di uova da quando eravamo all’albergo City Arms…] In pratica il “nostos” non avviene; Bloom dopo una lunghissima giornata, che io ho evocato soltanto in brevissimi frammenti, torna a casa, vorrebbe vivere la sua paternità, ma Stephen non vuole essere suo figlio. Proprio al termine dell’episodio intitolato “Circe” ha una allucinazione in cui vede il figlio Rudy, che aveva perso ad un anno, vestito come uno studente di Eton; lo rivede con un libro in mano, mentre legge da destra a sinistra invece che da sinistra a destra. La cosa in sé è naturale, essendo un ebreo, ma qui significa anche altro, anche questa è una trappola, cioè il segnale che il lettore deve rileggere tutto l’Ulisse per capire l’episodio di Circe. E comunque questo è vero per tutta l’opera joyciana, che è un continuo andare e venire; il trucco estetico fondamentale è che da una parte c’è la treccia e dall’altra la spirale: la spirale, che è un andare avanti indefinito, e la treccia che è un eterno ritorno. È cioè un’opera strutturata in modo tale da non rendere possibile una lettura ovviamente lineare, come in realtà dovrebbe avvenire per tutte le grandi opere d’arte.
Dopo la giornata di Bloom arriviamo invece alla notte di Finnegans. Se Bloom-Ulisse era al centro di un viluppo di miti, nel Finnegans Wake abbiamo il mito dei miti, il sogno collettivo, cioè quello di raggiungere una sorta di eternità. È un testo difficilissimo, composto tra il ’22 e il ’39. Già il titolo vuole dire “veglia funebre”, ma anche “risveglio, rinascita”. La cosa curiosa, che avranno notato tutti quelli che sono arrivati all’ultima riga, è che l’ultima riga non si conclude, ma finisce con un articolo: the. Però se si torna all’inizio si vede che la frase si “conclude” all’inizio, cioè qui, anche in modo manieristico, l’autore indica con chiarezza che il libro è un labirinto che non può essere considerato concluso a livello estetico, ma in continuo movimento circolare. Se uno lo attraversa con sguardo critico troverà che ci sono le quattro fasi del ciclo di Vico. Il libro infatti è strutturato in quattro parti: il momento divino della civiltà, quello eroico, quello umano, e l’ultimo, quello caotico, quello presente in attesa di rinascita. La figura centrale è H.C.Earwicker, che lui chiama anche con altri nomi, che non è solo il proprietario di un pub, ma a volte è un salmone nel fiume Liffey, a volte è Willingdone (cioè il duca di Wellington) e così via. Ha una figlia, Issy, che rappresenta tutte le ragazze giovani, e ha due gemelli, Shem e Shaun, che raffigurano i due tipi fondamentali dal punto di vista di Jung, cioè gli introversi e gli estroversi. C’è una frase che dice: “… when they were yung and freudened…” [… quando erano giovani e gioiose…]. Sembra voler dire: quando erano Jung erano Freud. I neologismi yung e freudened si riferiscono a Jung e Freud, ma la connotazione del gioco di parola suggerisce una lettura in cui yung implica young (giovane) e freudened l’inno alla gioia (Freude) del testo poetico di Schiller. Questo è un testo totalmente basato su giochi di parole in varie lingue, in cui sicuramente la trama esplode; però se si guarda con attenzione e si ricostruisce si riesce ad intravedere che ai quattro momenti vichiani corrispondono la nascita, la crescita, la morte, la rinascita del personaggio principale, di questo individuo che cade ubriaco da una scala e poi rinasce, che sogna di notte tutta l’umanità.
L’ultima frase del testo: “A way a lone a last a loved a long the” si ricollega dunque alla famosa frase con cui comincia: “riverrun, past Eve and Adam’s…”, in cui riverrun è una parola inventata, perché sono due parole messe insieme (fiume e scorre), una parola “baule” di cui Joyce fa uso. Devo stare attento a non naufragare in questa Dublino rivisitata, cioè quello che l’autore mette in questione è che siamo sempre a Dublino, in ogni libro, sempre allo stesso luogo, ma il tempo si dilata sempre di più, la giornata e la notte sembrano sempre più dense e lunghe tanto da superare i limiti temporali, quelli della fenomenologia del quotidiano. A Dublino c’è la libreria Browne & Nolan e questo permette a Joyce di contrabbandare il Bruno di Nola (Nolan), il nostro filosofo Giordano Bruno. Si dice ad un certo punto: la filosofia italiana si parla in napoletano, naturalmente detto in 7 o 8 lingue, perché sono tre i filosofi italiani, appunto Bruno, Vico e Croce, secondo anche un personaggio di Finnegans Wake. Bruno gli serve per raffigurare l’idea che tutto si trova in tutto, che il mondo è fatto di infiniti mondi, ma in ogni frammento si rispecchia il senso del tutto. Bruno balbetta: “Filling a sleep”. “Mi sento addormentato”, ma potrebbe anche essere: “Anch’io faccio i lapsus” (slip). Poi c’è un altro tema. Verdi appare e dice: “The force of dustiny”, dove polvere (dust) e destino (destiny) fanno una parola unica forza del polvere – destino. È un’espressione intraducibile, oscura, una “oscura notte dell’anima”, che è anche in Juan de la Cruz. Tuttavia per dovere di correttezza cerchiamo un apparente senso, perché sicuramente c’è un senso di “sporcizia” della storia. Vengono citati Arnold e Pater, Arnold che credeva nel “plainness and cleanness”, nell’interezza e nella chiarezza del linguaggio originario, mentre Walter Pater raffigurava la pratica compositiva come la necessaria ascesi ottenibile solo attraverso il bruciamento delle scorie della tradizione, perché la tradizione possa sopravvivere nella metamorfosi, perché il noto si manifesti come ignoto. Quindi Joyce prendendo questi elementi raffigura il principio femminile della creatività come la gallina (the hen) evocata anche come poule, in francese, lingua in cui significa anche “puttana”. Ed è un doppio gioco: cosa era prima, la gallina o l’uovo? Cosa è prima, lo spirito di un popolo o le sue opere d’arte? Quindi con un’apparente grossolanità del linguaggio quotidiano l’autore fa vedere come non è più Stephen ma è la gallina, ovvero l’anima del popolo, cioè il linguaggio stesso, che è detentore dei segreti. Infatti nel suo romanzo autobiografico oggettivato Stephen aspira a diventare “forgiatore della coscienza increata della mia razza”. E questa “gallina” becca nel litter, nell’immondezza, e trova letter, la lettera. Anche questo sembra un gioco molto superficiale, detto così, ma è proprio nella “spazzatura” della storia che il linguaggio trova la sua purificazione e diventa “lettera” (letteratura), diventa qualcosa di sacro, secondo la visione originaria di Joyce, secondo il criterio di ricerca della bellezza. Comunque verso la fine abbiamo un’altra frase significativa piuttosto farsesca: “out of the dumbling”, fuori della stupidità, cioè la figura che il presente da cui non si può fuggire è una presenza di stupidità, ma anche qui abbiamo Dublin (Dublino) e dumbness che vuol dire stupidità.
Ma subito dopo torna la terribile nostalgia del sublime e viene citata la wagneriana Liebenstod, la morte d’amore del Tristano e Isotta: “… in this sound seemetery which iz leebez luv”. Ma anche qui le parole incespicano e diventano sound e seemetery che potrebbe essere “un sano luogo da vedere” ma anche “un sonoro cimitero”. Seemetery, deformazione di cemetry (cimitero), condensa nel “cimitero” anche il “vedere”: nella lettura i vocaboli suonano però allo stesso modo e potrebbero significare “vedere una misura sana”, ma anche “un cimitero di suoni”. Quindi il testo segnala come la grande musica wagneriana è tramontata su un’altra epoca e ormai nella sporcizia della storia si deve inventare un nuovo linguaggio, una nuova forma.
A conclusione c’è una frase che ricorre sia all’inizio che alla fine, un testo problematico, che è molto aperto al lettore, quasi una invocazione al lettore del futuro. Se osservate questo testo, l’auroralità sta nel fatto che c’è Anna Livia Plurabelle, A.L.P., che è la moglie del protagonista ed è un po’ la depositaria di una sorta di “vita nova”. Addirittura sorgono elementi sessuali simbolizzati in qualche pagina: è quasi la genitrice di un linguaggio aurorale nuovo, ma è anche il fiume Anna Liffey, il fiume della patria dell’autore che attraversa Dublino e in cui il personaggio maschile è un salmone che nuota. C’è dunque questa frase di invocazione al lettore che dice: “(Stoop) if you are abecedminded, to this claybook”, che suonerebbe: Chinati se hai la mentalità dell’abc – cioè se sei un lettore – su questo libro d’argilla; però potrebbe suonare anche: Se sei distratto chinati su questo libro d’argilla. Infatti abecedminded evoca per somiglianza sonora absentminded (distratto). Naturalmente l’argilla richiama sempre l’origine mortale dell’uomo. E continua: “what curios of signs (please stoop), in this allaphbed!” Cioè: quale rarità di segni, curiosità di segni (prego chinati) in questo alfabeto (che è in realtà un alfaletto). Il termine allaphbed potrebbe essere alphabet (alfabeto) e il gruppo grafico –lap- è sempre A.L.P. di Anna Livia Plurabel, le cui iniziali sono variamente disseminate nel testo; ma potrebbe essere anche “alfaletto”, quindi “il letto di Allah”, il letto di Dio detto in una lingua esotica, lontana (allah bed), ma potrebbe essere anche l’alfabeto in altre tradizioni. Quindi c’è anche questa invocazione perché il lettore si chini di fronte alla novità.
Nella mia esposizione non ho seguito la via dell’eleganza, ma mi sono, per così dire, incespicato in questo labirinto e mi sembra di poter concludere che, se in generale aveva ragione Ruschin a dire che i grandi libri hanno un segreto, che non è il segreto di un “giallo”, ma il segreto rapporto col lettore, la loro polisemia, che secondo Proust è la ricchezza che viene data attraverso la rinascita, attraverso la bellezza della lettura, non esiste il capolavoro senza un lettore che si chini, come dice Joyce, a leggere. È vero per tutti i libri, per tutte le tradizioni, che esiste questa sorta di miniera, che da una parte può essere una fuga dalla vita spirituale, quando uno non ce l’ha e il libro è solo un momento di evasione, ma se uno ha una sua vita spirituale sicuramente in questa miniera, come dice Ruschin, può trovare nutrimento alla sua vita. Nel caso di Joyce la cosa è molto complessa, perché questo segreto, questa miniera, è totalmente distrutta dalla barbarie storica, tutto è misto all’immondezza. Però c’è qualcosa che non muore, ed è qualcosa sul confine del biologico, dell’animalesco e dell’angelico, qualcosa che non può essere dimenticato e questo è un segreto che può legare il lettore a questo autore, che con tanta attenzione ha massacrato tutte le lingue, ma soltanto per dire ai lettori che non tutto è finito e se il tramonto non avviene comunque l’aurora non è lontana.
Io mi scuso se il discorso era un po’ accidentato, ma ho preferito accidentarlo che ridurlo a qualcosa di più elegante senza mettere in evidenza la problematicità. È effettivamente faticoso attraversare i quattro libri di Joyce, e la volontà era quella di far vedere che questa identità del luogo, l’identità dei problemi, lui li trasforma con un’intera letteratura, che però lui teme diventi immondezza se non c’è qualcuno che la ristruttura. Ho fatto lo sforzo di dare un panorama inadeguato, perché non può che essere inadeguato, ma per dare un’idea del labirinto che ha un centro, non ha un solo centro ma molti. Potrei ancora aggiungere: forse più che un segreto ci sono molte chimere. Allora potrei concludere così, se è vero che è pesante portare la chimera letterale sulle spalle è ancora più pesante portare il cinismo del nulla; quindi uno dei significati di Joyce può essere questo, che contro il cinismo del silenzio, del formalismo puro, lui ha tentato di dare questa chimera difficilissima dell’illeggibile che diventa leggibile, di questo linguaggio cosmopolita che parli a tutti i popoli, questo gesto quasi sicuramente, potrei dire, da Icaro.
NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 4.3.1996 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.