Quando si parla di “giusti” si pensa sempre a persone eccezionali, che hanno spirito di abnegazione, persone di un altro mondo. Non è così. Questo è il punto di riflessione. I “giusti” sono persone che hanno difeso la dignità umana in tempi difficili come durante la Shoah, il genocidio in Armenia e in Rwanda o durante il totalitarismo sovietico. Essi sono stati capaci di questo perché hanno avuto la forza di rimanere uomini e di difendere la propria dignità, non per altre ambizioni.
Conobbi Moshe Bejski, artefice del Giardino dei Giusti a Gerusalemme, alcuni anni fa in Israele. Andai da lui perché volevo capire come era nata l’idea della memoria dei “giusti” in Israele. La divulgazione della memoria del bene non era frutto dell’iniziativa di uno Stato, ma era l’impegno di un uomo, che aveva trasformato la propria esperienza personale in una missione, diventata successivamente universale.
Moshe Bejski, nato in Polonia nel 1920, dopo essere stato rinchiuso in un campo di concentramento tedesco ed esserne uscito, aveva vissuto il periodo dell’invasione nazista, mentre la sua famiglia veniva sterminata e i suoi amici assassinati. Viveva quindi una situazione di sfiducia totale nel mondo. Tuttavia gli capitò di conoscere l’uomo a cui deve la vita e che in seguito definì l’ultimo uomo buono sulla Terra, un tedesco capace di stringere la mano ad un ebreo: Oscar Schindler. Moshe Bejski racconta che più importante della salvezza stessa fu la scoperta di un essere umano che lo trattava come un suo pari. Da questa esperienza deriva l’impegno di Bejski nella ricerca di tutti i “giusti” che avevano aiutato gli ebrei. Egli riteneva degne di essere ricordate non soltanto le grandi opere di aiuto e di salvataggio, non soltanto coloro che avevano rischiato molto in prima persona, ma anche coloro che avevano contribuito, con piccole azioni, a trasmettere alle nuove generazioni l’idea che tutti avevano la possibilità di fare qualcosa, anche in piccola parte. Se invece viene trasmessa l’idea che per lottare contro il male bisogna essere eroi, si crea automaticamente un alibi per chi non ha preso le distanze dai grandi orrori della storia.
In un dibattito, all’interno della Commissione dei Giusti di Yad Vashem, emerse una posizione secondo cui il “giusto” era chi aveva rischiato la vita. Moshe Bejski rispose raccontando la storia di un doganiere svizzero, Paul Grüninger. Egli, nonostante fosse stata chiusa la frontiera, aveva lasciato passare i rifugiati e creato per loro documenti falsi, facendo tutto quanto in suo potere per aiutarli. Quando fu scoperto, perse il posto di lavoro. Egli aveva rischiato, ma non la vita. Moshe Bejski portò all’attenzione della Commissione questo fatto, per dimostrare che è nostro compito rendere onore a tutti coloro che hanno saputo prendersi una piccola responsabilità, indipendentemente dall’entità del rischio. Tuttavia soltanto adesso si parla di “giusti” e si dà valore a questo genere di azioni.
Come sostiene Hannah Arendt, per parlare delle storie dei “giusti” bisogna far funzionare una memoria poetica: i poeti, infatti, sono in grado di cogliere azioni belle, umane, indipendentemente dal risultato che hanno sortito. Tramite un’operazione di memoria poetica Bejski è andato a ricercare storie di difesa degli ebrei in tutto il mondo e le ha riportate alla luce. Queste storie non sono oggetto della ricerca degli storici, ma di poeti e scrittori, che, raccontandole, le fanno entrare nella vita di ciascuno. Emerge che i “giusti” non hanno cambiato la storia, non hanno impedito gli orrori portati dal nazismo, dal fascismo e dal comunismo, le loro azioni non hanno avuto un risultato tangibile: il loro ruolo è stato marginale. Però hanno salvato la speranza nell’umanità, hanno cioè mostrato una delle grandi intuizioni di Vasilij Grossman, scrittore russo che ha vissuto negli anni bui del nazismo e del comunismo. Nella sua opera Vita e destino egli aveva immaginato il dialogo tra un soldato tedesco e uno bolscevico, in una prigione in Germania. In quel breve scambio di battute il soldato tedesco diceva all’altro che se i bolscevichi avessero vinto la guerra, la situazione non sarebbe cambiata, perché avrebbero continuato l’opera nazista. Infatti nonostante la Russia combattesse contro la Germania, stava avviando un’opera di sterminio dell’opposizione costruendo i gulag e deportandovi migliaia di persone. Il suo romanzo, reo di aver messo a paragone comunismo e nazismo, fu censurato dall’allora ministro della propaganda Michail Suslov.
Grossman afferma che i totalitarismi, in particolare quelli nazista e comunista, costruiscono macerie e non riescono ad annientare l’animo umano. Questo avviene perché ci sono sempre degli uomini “giusti” che non si fanno condizionare. Il nazismo avrebbe vinto, dice Grossman, se fosse stato capace di sopprimere l’anelito alla libertà degli uomini; tuttavia questo desiderio ardente si è sempre manifestato e sempre si manifesterà, perché appartiene indissolubilmente all’animo umano.
Le ideologie totalitarie si manifestano in continuazione: l’uomo viene catturato dall’idea di una società perfetta, che nasca dall’eliminazione di altri uomini. Queste ideologie non si presentano come ideologie del male, ma del bene. Secondo queste, per costruire una società giusta è necessario eliminare alcune categorie di persone, considerate deboli o inferiori. Nel recente genocidio in Rwanda, come racconta la scrittrice ruandese Gasana, gli Hutu che uccidevano i Tutsi non pensavano di commettere omicidi; avevano infatti la convinzione di uccidere una categoria inferiore di uomini, al pari delle bestie. Uccidere era un dovere del cittadino per la realizzazione di una nuova società Hutu, migliore della precedente. Inoltre non esisteva neppure una vera differenza tra le due etnie: fu il colonialismo europeo a creare una divisione, concedendo maggiori privilegi ai Tutsi, i quali si affermarono come l’etnia più ricca.
L’umanità, come dice Grossman, non è capace di imparare dalla storia. Nonostante questo e nonostante i milioni di morti, l’anelito alla libertà degli uomini non può essere distrutto, ma si ripresenta sempre. In Vita e destino sono raccolte le storie di uomini che compiono “atti di bontà insensata”, come recita una suggestiva espressione dell’autore, ovvero le azioni di individui che hanno agito secondo coscienza, sottraendosi ai richiami ideologici dei regimi. “Bontà insensata” significa che queste opere andavano contro il senso ideologico del potere. Grossman e Bejski partono da un’idea di speranza completamente diversa dalla nostra: non dicono che si può eliminare il male, ma che bisogna avere la consapevolezza del ripresentarsi continuo di esso nella storia. Affermano che è necessario continuare a credere nell’umanità, perché il totalitarismo, nonostante tutto, non può scalfire l’animo umano.
Varlam Šalamov, scrittore, nei suoi Racconti di Kolyma, rende molto bene il concetto della resistenza ai regimi. Egli racconta che in Russia i carnefici portavano via tutto ai prigionieri, li rinchiudevano nei gulag e li facevano lavorare in condizioni disumane. Quando però gli aguzzini chiedono ai prigionieri di consegnare le protesi riutilizzabili (denti d’oro e protesi di altro tipo), Šalamov risponde che avrebbero potuto prendere qualsiasi cosa ma non la sua anima. Questa resistenza vitale è l’elemento di rottura che si ripresenta sempre, anche quando tutto sembra perduto.
Václav Havel, quando in Cecoslovacchia si viveva un periodo di grande disperazione, a seguito dell’invasione sovietica, redasse insieme a Jan Patočka il famoso documento fondativo di Charta 77. In questo documento egli affermò che noi non abbiamo il potere, inteso politicamente, ma abbiamo un potere più importante, quello su noi stessi, che i governanti non possono toglierci. Con questo appello, che Havel lanciò nel 1977 a Praga, si intendeva sostenere l’esistenza di un elemento di irriducibilità nell’uomo, che chiunque possiede e può esercitare. Questa rivolta delle coscienze fu la vera causa della fine del comunismo in Cecoslovacchia, avvenuta qualche anno più tardi. Si può quindi dedurre che esiste sempre una speranza realistica, che si fonda sull’impossibilità di qualsiasi regime di togliere l’anima alle persone. Essa riemerge quando tutto sembra ormai perduto.
Hannah Arendt riprende questa tesi e la sviluppa, proponendo una nuova chiave di lettura. La filosofa tedesca si chiede quali sono i fattori che impediscono all’uomo di comportarsi in un certo modo e che fanno sì che egli scelga di agire diversamente, sottraendosi ai richiami ideologici dei regimi. Ella individua una categoria di persone: i non partecipanti al nazismo, ovvero quelle persone che hanno deciso di non assecondare Hitler e il suo regime totalitario per mantenere intatto il rispetto di se stessi. Non esisteva, al tempo, nessun tipo di baluardo culturale, sociale o politico che ponesse dei limiti o dei freni al comportamento degli uomini. C’è però, secondo la Arendt, una forza di opposizione creata da persone che non vogliono svendersi ai regimi e che mantengono intatta la loro dignità di uomini.
Nel mio libro (La bontà insensata) racconto tre storie affascinanti avvenute durante la Seconda Guerra Mondiale.
La prima è la storia di Dimitar Peshev, salvatore di tutti gli ebrei della Bulgaria. Egli fu un nazista convinto, votò le leggi razziali e contribuì a promulgarle; tuttavia, a seguito di una visita di amici ebrei, ebbe una crisi di coscienza. Questa crisi lo portò a scrivere un documento rivolto a tutti i deputati filotedeschi del Parlamento bulgaro, in cui sosteneva che la deportazione degli ebrei in Germania e il loro internamento nei campi di prigionia erano un male non soltanto per il popolo ebreo ma anche per quello bulgaro. Infatti, si sarebbero macchiati di un crimine spaventoso e la Bulgaria avrebbe dovuto portare per sempre il peso di queste decisioni. I deputati rinunciarono così alle politiche antisemite per rispetto di sé e della propria dignità.
La seconda riguarda Armin Wegner, soldato tedesco e medico nella 1a Guerra Mondiale, che nel 1933 scrisse una lettera a Hitler in cui protestava contro le leggi razziali, presagendo la fine della Germania nazista se si fosse continuato in questa direzione. Egli intuì perfettamente ciò che di lì a poco sarebbe successo in Europa e mise in guardia il Führer. Reo di aver scritto questi avvertimenti, Wegner fu arrestato e torturato dalla Gestapo. Con la fine della guerra e la disfatta tedesca risultò chiaro, come egli aveva profetizzato, che Hitler aveva fatto un male enorme alla Germania, lasciandole un’eredità di sangue indelebile.
La terza storia riguarda la scrittrice polacca Zofia Kossak, fervente antisemita. Ancora prima dell’arrivo dei nazisti, la Kossak teorizzava che gli ebrei dovevano essere espulsi dalla Polonia e trasferiti in Madagascar. Quando però, durante l’invasione tedesca, vide una donna ebrea picchiata dai soldati, cominciò a riflettere. Successivamente redasse un documento, La protesta, in cui affermò che, nonostante l’avversione del popolo polacco nei confronti degli ebrei, non bisognava permettere che essi fossero perseguitati e deportati, poiché in questo modo avrebbero inquinato la propria dignità di esseri umani. Zofia Kossak non aveva cambiato le proprie idee, tanto che rimase antisemita anche dopo la guerra, ma avvertì l’esigenza di aiutare gli ebrei, per preservare la rispettabilità del popolo polacco. Per questo motivo costruì la più grande rete di aiuto agli ebrei in Polonia, chiamata Żegota.
I “giusti” sono animati da questa volontà di conservare la propria dignità e il rispetto di sé. In quest’ottica Hannah Arendt ritiene indispensabile il saper giudicare, cioè il saper raccogliere i punti di vista degli altri e avere una visione plurale del mondo. Giudicare è come compiere un viaggio attraverso i diversi punti di vista e prendere consapevolezza della realtà non a partire da noi stessi, ma dagli altri.
In questo contesto una figura emblematica è quella di Jan Karski, militare polacco che cercò di portare all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale lo sterminio degli ebrei che si stava consumando in quel periodo. Egli scrisse al presidente degli Stati Uniti Roosevelt e al ministro degli esteri britannico Anthony Eden, riferendo loro tutte le informazioni che aveva raccolto sui campi di concentramento nazisti. Tuttavia le reazioni dei capi di stato erano di incredulità e disinteresse in quello che diceva. Jan Karski, in riferimento alle vicende vissute durante l’invasione tedesca, disse che quando vide la sorte degli ebrei si sentì non solo polacco ma anche ebreo, non soltanto cattolico ma anche di religione ebraica, non solo polacco ed ebreo allo stesso tempo ma anche come la coscienza del mondo. Egli è l’esempio di una persona che ha saputo vedere il mondo dal punto di vista degli altri.
Molte volte noi pensiamo a partire da astrazioni; invece, come sostiene Hannah Arendt, dobbiamo essere capaci di giudicare le cose in modo diretto, senza pregiudizi né schemi. I pregiudizi ci impediscono di comprendere, pertanto bisogna essere capaci di ragionare senza pregiudizi ideologici, di mettere continuamente in discussione le proprie opinioni. Un personaggio che fu capace di questo fu il generale bosniaco Jovan Divjak, che conobbi a Sarajevo. Questo generale credeva fermamente nel comunismo e in Tito. Tuttavia, quando cominciò la guerra, mentre si trovava a Sarajevo, vide quello che succedeva e cominciò a riflettere, fino ad arrivare a mettere in discussione l’idea dell’unità della Jugoslavia. Egli difendeva Sarajevo. Quando però si rese conto che anche i musulmani si erano resi protagonisti di numerosi crimini nei confronti dei serbi, cambiò posizione. Disse di difendere ancora Sarajevo ma non i crimini commessi, schierandosi contro il presidente del Paese. Successivamente decise di fondare un’associazione in aiuto agli orfani di guerra, chiamata “Obrazovanje gradi BiH”, ovvero “L’Istruzione costruisce la Bosnia”. Egli si dimostrò una persona capace di cambiare continuamente idea, capace di non farsi prendere dagli schemi e dai pregiudizi. Queste qualità sono indispensabili per comprendere il male e sono il segreto degli uomini “giusti”.
Capita tuttora che principi morali di primaria importanza come il non uccidere, il non rubare, il non mentire, nonostante siano insegnati dalle religioni, dalla filosofia antica e da quella contemporanea, molto spesso siano messi in discussione e vengano stravolti. Quando ciò accade, secondo la Arendt, solo il pensiero è in grado di salvare l’uomo. Il pensiero è il dialogo silenzioso con se stessi, la capacità di porsi continuamente delle domande. Attingendo dal pensiero socratico, Hannah Arendt definisce così la coscienza: la capacità di porsi delle domande. Secondo lei, come risulta da una ricerca storica, la maggior parte dei “giusti”, in Polonia, erano coloro che vivevano ai margini della società. Questo accade perché il dialogo silenzioso con se stessi risulta più facile nella solitudine, ovvero quando non si è condizionati da altri. Estraniarsi dalla società aiuta a comprendere.
Perché occuparsi di “giusti” ancora oggi? Attraverso la memoria dei “giusti” e la memoria del bene si possono educare le persone. Saper giudicare, saper pensare autonomamente, saper vedere il mondo dal punto di vista degli altri, saper perdonare, sono modi di essere che ci permettono di migliorare la democrazia stessa. L’idea di “giusti” deve quindi essere universale, deve valere dappertutto. È necessario costruire una memoria del bene a livello internazionale.
Marco Aurelio, nei suoi Ricordi, scrisse: “Non sperare nella repubblica di Platone, ma accontentati d’ogni minimo miglioramento e pensa che riuscire a ottenere un risultato, pur così piccolo, non è cosa da poco”. Anche oggi, nel contesto sociale italiano, caratterizzato da una degenerazione politica continua, bisogna accontentarsi che una piccola cosa progredisca: la possibilità che abbiamo di comportarci diversamente. Marco Aurelio anticipava il pensiero di Havel, il quale a Praga diceva che ognuno ha un potere personale su se stesso, quello di decidere delle proprie azioni. Ognuno di noi può fare qualcosa, nel suo piccolo, per trasformare la realtà.
Gli uomini “giusti” non sono persone di un altro mondo, irraggiungibili, essi sono persone che hanno saputo fare piccole cose per aiutare gli altri. Quando parliamo di “giusti” dobbiamo valorizzare loro e le loro azioni, perché quelle piccole azioni sono state grandi per l’umanità.
NOTA: Trascrizione non rivista dall’autore dell’intervento tenuto giovedì 3 marzo alle ore 20,45 nella Sala Bevilacqua, via Pace 10 a Brescia, in occasione della presentazione di La bontà insensata. Il segreto degli uomini giusti (Mondadori 2010) di Gabriele Nissim.