La bussola di Qohelet

Mi prefiggo di fare un percorso con voi riguardo a questo prezioso rotolo biblico che, come molti sottolineano, presenta più domande che risposte lungo il percorso. Inizio col ricercare quello che potrebbe essere l’autore. Leggendo un testo come Qohelet, bisogna chiedersi chi sia questo Qohelet. Vi è un accordo di massima tra gli esegeti, nel senso che Qohelet non è di per sé un nome proprio, ma un nome di copertura o un soprannome; indica la funzione che questo personaggio svolgeva nella comunità di Gerusalemme. Qohelet significa “guida dell’’assemblea”, “colui che riunisce”; poteva quindi rappresentare qualcuno con compiti ben precisi all’interno dell’assemblea. Definire questi compiti, non è agevole, in mancanza di altri dati.

Non va dimenticato che chi parla si presenta sotto le vesti di Salomone. Egli si proclama il re saggio in Gerusalemme, colui che, illuminato dall’alto, ha saputo reggere il suo popolo con prudenza. Ma nel libro del Qohelet non è più il giovane Salomone che riesce vittorioso negli intrighi di corte per succedere al trono di Davide, non è neppure il monarca orientale che fa erigere costruzioni imponenti. È un Salomone vecchio che si scontra con il problema della morte e fa il bilancio delle sue realizzazioni. Appare sintomatico il costante ricorso dei verbi al passato. L’esperienza è contrassegnata dal senso dell’inconsistenza. Né il piacere, né il possesso, né la discendenza, neppure Dio sono in grado di colmare la sensazione di impotenza che relativizza e addirittura sembra vanificare ogni ricerca e sforzo umano.

Ci troviamo davanti ad un titolo che rispecchia una funzione, Qohelet, e con un descrizione che è chiaramente pseudoepigrafica. Come presentare l’autore di questo rotolo festivo? All’inizio del II sec. a.C., Gesù Ben Sira, si esprime in questo modo: «Mi sono dedicato per ultimo allo studio, come un racimolatore dietro ai vendemmiatori. Con la benedizione del Signore ho raggiunto lo scopo, come un vendemmiatore ho riempito il tino. Badate bene: non ho faticato solo per me, ma per quanti ricercano l’istruzione». Ben Sira si colloca in quella sterminata scia dei saggi, dei cercatori di sapienza diffusi in tutto il mondo antico. Sa di essere come chi passa dopo i proprietari del terreno per raccogliere i frutti rimasti. Non è un creatore, né un innovatore, ma uno che si innesta in una catena tradizionale. Anche il Qohelet come Ben Sira è un saggio. È un cercatore di sapienza. Si pone però di fronte alla tradizione sapienziale in una forma critica. Mentre Ben Sira, pur testimoniando una società in evoluzione, ritiene fondamentale il rinvio al passato, alla tradizione, Qohelet non ha altro punto di riferimento che la sua capacità di indagine e di penetrazione. Qualcuno potrebbe quindi vedervi un ricercatore puro. Ma ciò è probabilmente inesatto, se consideriamo l’epoca in cui vive il Qohelet: egli non parte da un vuoto di sapere, anzi condivide con i saggi che lo hanno preceduto la problematicità dell’esistenza, la domanda su quale profitto avesse la buona condotta dell’uomo e quale retribuzione ci fosse per le opere buone e quale per quelle cattive.

A differenza dei saggi, che parlano per esempio nel libro dei Proverbi, Qohelet non riesce tuttavia più a legare la sua esperienza con le conclusioni a cui la sua tradizione intellettuale e religiosa era pervenuta. È quindi il testimone della profonda distanza che si era creata tra il linguaggio della fede e l’esperienza della vita in un’epoca in cui le certezza di molti erano scosse, epoca che coincide con il sorgere del periodo ellenistico, tra la fine del quarto secolo e l’inizio del terzo.
È interessante notare alcune sottolineature nel modo di porsi di Qohelet.

C’è chi attende il messia, ma per Qohelet non vi è nulla di radicalmente nuovo nella storia: «Non c’è nulla di nuovo sotto il sole» (1,9), come afferma fin dall’inizio il libro del Qohelet. Tutto è in movimento come «il vento che ritorna su di sé» (1,6).

C’è chi crede di poter leggere il corso della storia, come i profeti: Isaia ribadisce costantemente che c’è un piano di Dio, ma per Qohelet l’opera di Dio rimane insondabile nella sua interezza, sebbene l’essere umano non possa negare l’operato di Dio (cf. 3,11).

C’è chi sforza di trovare leggi che regolino il vivere umano, come i saggi dei Proverbi. Qohelet afferma al riguardo: «La corsa non la vince chi è agile, né la battaglia è vinta dai più forti. Non è al sapiente che tocca il pane, né agli abili le ricchezze e neanche agli accorti il favore, perché a tutti tocca secondo il tempo ed il caso» (9,11).

Su questo appunto è necessario riflettere: Qohelet si pone ad un livello di distanza, narra basandosi sulle sue esperienze, spesso si limita a proporre solo interrogativi. Questo modo molto particolare è dovuto al fatto che utilizza il linguaggio della diatriba, per cui argomenta per opposizione, molte volte citando anche l’opinione che non ritiene valida.

In questa sede vorrei scorrere alcuni passi di questo libro particolarmente significativi. In Qohelet 1,2 incontriamo la prima affermazione chiave del testo: «Vanità immensa, ha detto Qohelet, vanità immensa, tutto è vanità. Che vantaggio c’è per l’essere umano per tutta la fatica in cui si affatica sotto il sole?». Il libro di Qohelet gioca tantissimo sulle ripetizione. Che cosa vuol dire “vanità”? Questa stessa frase sulla vanità chiude anche la parte autografa di Qohelet. Il vocabolo ebraico hebel è reso fin dalla antica versione greca nel senso di vanità, ed è lo stesso vocabolo che dà il nome al primo uomo che muore: Abele. Di per sé, dal punto di vista filologico, il significato è «soffio, alito». È difficile rendere il senso di questo vocabolo perché bisogna coglierlo entro la costellazione in cui lo inserisce il libro. San Girolamo, come la versione greca precedente a lui, lo ha reso in latino con il vocabolo vanitas. Molti autori contemporanei, dopo aver letto il testo, pensano che si debba tradurre con «assurdo». Secondo Camus l’assurdo è una disparità tra due fenomeni che si ritengono congiunti da un’armonia, ma invece sono in disarmonia, magari anche in conflitto. L’assurdo è dunque un affronto alla ragione. Camus infatti, ne Il mito di Sisifo, ha una pagina interessante a questo riguardo, dove argomenta pressappoco come segue: Se accuso un innocente di un mostruoso delitto, se sostengo che un uomo virtuoso ha desiderato la propria sorella, egli risponderà che è assurdo. Nell’indignazione si avrà il lato più comico, ma anche la sua profonda ragione. L’uomo virtuoso, dimostra con la sua replica l’antinomia definitiva tra l’atto che gli attribuisco e i principi della sua vita: assurdo significa, contraddittorio. L’assurdità nasce da un confronto, non da una semplice analisi di una fatto. Scaturisce dal paragone tra uno stato di fatto e una certa realtà. Nella fattispecie, posso dire che l’assurdo non è né nel mondo, né nell’uomo, ma nel fatto che entrambi esistono insieme. Questa definizione di assurdo, proposta da Camus, sarebbe quella che si attaglia meglio al nostro autore biblico. Questo pensiero aveva sfiorato le menti di altri pensatori prima di Qohelet, ma nel momento in cui egli definisce la realtà con il nome hebel, vorrebbe dire che ha una visione tragica dell’esistenza, perché il divorzio tra l’agire e il risultato dell’agire è una realtà che fa sprofondare l’agire umano, toglie ogni significato alla sua esistenza e mette in crisi tutta la morale.

Penso si possa argomentare diversamente. Nel libro questo vocabolo ricorre a più riprese. Nel capitolo 3 ritorna in un passo sulla giustizia nei tribunali: «Un’altra cosa ho visto sotto il sole: al posto del diritto c’è l’iniquità, al posto della giustizia c’è l’ingiustizia. Ne ho concluso che il giusto e l’empio sono sotto il giudizio di Dio» (3,17) e continua: «Ho pensato riguardo agli esseri umani: Dio fa questo per metterli alla prova e per mostrare che essi per sé non sono che bestie. Infatti la sorte degli umani è uguale a quella degli animali. Come muoiono i primi così anche i secondi. Gli uni e gli altri hanno uno stesso soffio vitale, senza che l’essere umano abbia qualcosa in più rispetto all’animale; gli uni e gli altri sono vanità» (3,18-20). Egli parte da un’osservazione, e dà una prima risposta. Il giusto e l’empio sono sotto il giudizio di Dio, c’è un tempo per ogni cosa e un giudizio per ogni azione. Gli uomini giudicano male, ma Dio giudica bene. Si può quindi contare sempre sul giudizio di Dio anche dopo un torto subito in seguito al giudizio sbagliato dagli uomini. Qohelet afferma che Dio fa questo per mettere alla prova: l’iniquità del tribunale è fatta per mettere alla prova l’essere umano. Dire che tutti sono vanità è poco chiaro. Di fronte alla domanda sul perché ci sono ingiustizie, Qohelet si rifiuta di rispondere. Dire che tutto è vanità non significa dire che non va bene, ma che l’enigma rimane. Resta la domanda. Qohelet conosce le risposte date dalla tradizione sapienziale e di fede al riguardo, ma non lo soddisfano, non gli bastano. Il lettore deve comprendere che noi dobbiamo convivere con molte questioni senza riposte.

Qohelet poi continua: «C’è un altro male che ho visto sotto il sole, che grave pesa sull’essere umano. È il caso in cui Dio concede ricchezze in abbondanza a quello a cui non manca nulla di tutto ciò che può desiderare; Dio però non ha concesso lui di poter godere dei suoi beni, perché se li gode un estraneo: questo è vanità» (6,1-2). Come si vede Qohelet affronta un caso. Resta la domanda: perché uno non può godere dei suoi beni? Egli ci propone il caso, ma non ci dà la risposta. «C’è un uomo che non ha nessuno, né un figlio, né un fratello, eppure la sua fatica non conosce limiti. Non smette mai di sognare nuove ricchezze. Allora si domanda, per chi mi affatico e mi privo di beni? Anche questo è vanità» (4,7-8). La domanda è: perché lo faccio se non ho ricavo? Non ho nessuno, ha senso questa fatica? A Qohelet non basta la risposta: «Sono pieno di beni», perché per lui è vanità l’accumulare beni senza futuro. La domanda è sul perché.

La sorte del giusto e del malvagio in uno dei punti cruciali del libro, il capitolo 8, è affrontata nel seguente modo: «C’è un’altra vanità che accade sulla terra: ci sono giusti cui tocca la sorte dei malvagi e malvagi cui tocca la sorte dei giusti. Io dico che anche questo è vanità» (8,14). Anche Geremia dice a Dio: «Tu sei giusto Signore, perché io ti contesti, ma permettimi una domanda sulla giustizia: perché vanno bene gli affari dei malvagi e male quelli dei giusti?» (Ger 12,1). Nel Qohelet si ha una constatazione di vanità, una domanda senza risposta.

Non dimentichiamo però che Qohelet, quando vuol chiarire che tipo di risposta intende dare, non dice che non c’è niente da fare. In seguito afferma:«Allora io approvo l’allegria, perché non vi è niente di meglio per l’essere umano sotto il sole se non mangiare, bere e darsi alla gioia. È questa la sola cosa che gli faccia compagnia nella sua fatica, nei giorni contati della sua vita che Dio gli concede sotto il sole» (8,15). Il Qohelet non dice dunque che non ha senso vivere.

Siddharta, quando giunge alla consapevolezza del dolore universale, trova un modo per uscire da tale situazione penosa; scopre infatti come sbocco al dolore il camminare per un sentiero che ti porta all’astensione dal dolore, ma che nello stesso tempo ti chiede di evadere da questa vita. Qohelet rimanda a questa vita, insegnando ad accettarla nei suoi limiti, prendendola nei suoi aspetti piacevoli. Questa è la compagnia della fatica nei giorni contati della vita che l’essere umano vive sotto il sole. È Dio che ha dato quei giorni contati e Dio non è estraneo alla prospettiva del Qohelet. La vita, nell’ottica del Qohelet non cessa di avere un significato, sebbene essa sia enigmatica. Secondo lui, la risposta sapiente è accettare questa situazione, accettare il fatto che non si è in grado di rispondere a tutti gli enigmi che la vita mette davanti. Questo non significa che la vita sia vuota o insignificante, piuttosto essa è piena di situazioni in cui né il saggio, né il teologo sanno dare risposta. A queste situazioni, non alla vita in sé, Qohelet dà il nome di vanità.

Il libro che noi stiamo brevemente commentando, è costantemente ritmato da inviti a gioire. Questi inviti sono molto importanti perché si ritrovano almeno in otto passi del libro e sono tutti collocati in posizione strategica. Sono normalmente al termine di un’argomentazione circa le scelte e le osservazioni che il saggio ha fatto sulla vita. Questi inviti a gioire sono comunque dei doni di Dio. Nel capitolo 5, si ritrova un passo abbastanza significativo in cui si dice: «Ecco ciò che io ritengo buono e bello: mangiare, bere e godersi il frutto del proprio lavoro faticoso con il quale ci si affatica sotto il sole, nei giorni contati della propria vita, che Dio concede all’uomo: questa è infatti la parte che a lui spetta. Poi, ogni uomo al quale Dio abbia dato ricchezza e sostanze e il potere di goderne, di prendere la propria parte e gioire della propria fatica… tutto questo è dono di Dio. Perché l’uomo non pensi molto a quanto è breve la sua vita, Dio lo intrattiene con la gioia del suo cuore» (5,17-19). In fondo, la gioia diventa quasi una distrazione concessa da Dio. Secondo me è molto importante che il libro del Qohelet contenga questi inviti alla gioia, perché significa che, secondo lui, alla radice della vita non sta l’assurdità. Certo, Qohelet non dà tutte le riposte, tuttavia intende esortare ad affrontare la vita. A ciò corrisponde il passo del capitolo 9: «Su, mangia con gioia il tuo pane, bevi di buon animo il tuo vino, perché Dio ha già gradito le tue opere. In ogni momento vestiti a festa, né manchi olio profumato sul tuo capo. Godi la vita con la donna che ami, giorno per giorno, durante la vita vana che ti è stata data sotto il sole. Perché questa è la tua parte nella vita e nel lavoro faticoso per cui ti affatichi sotto il sole» (9,7-9).

Ovviamente il Qohelet non riesce ad andare al di là di questa vita. La vita è enigmatica, misteriosa, ci sono molte domande senza riposta ed il saggio lo riconosce. Il saggio però procede positivamente per godere della vita e della parte che Dio attribuisce. C’è anche un altro limite conoscitivo che mi sembra di poter individuare in questo testo che si trova in un passo famoso già citato al capitolo 3. Lì si trova quella famosa descrizione del tempo. «Per tutto c’è il suo momento. Un tempo per ogni cosa sotto il cielo. Un tempo per nascere, un tempo per morire, un tempo per piantare, un tempo per uccidere, un tempo per curare, un tempo per demolire, un tempo per costruire, un tempo per piangere, un tempo per ridere, un tempo per il lutto, un tempo per l’allegria». Alla fine di questa lunga sequenza di 28 momenti, ritroviamo: «Quale vantaggio per chi lavora in tutto il suo affaticarsi?» (3,9). Qohelet ripete la domanda iniziale. Siamo nel tempo dell’uomo. Non descrive altro tempo. Cosa indica questo tempo? Certamente indica la realtà di questo mondo. Ogni cosa ha il suo tempo. È a mio avviso, un modo di pensare che implica che il mondo sia ordinato. Il tempo l’ha disposto Dio, è la prima cosa che crea Dio: «E fu sera e fu mattina» (Gen 1,5). L’ordinamento del mondo non è deciso da noi. Il tempo giusto, il tempo opportuno non dipende dall’essere umano, il quale è invece invitato a riconoscere il tempo, a coglierlo, a prendere coscienza di quale tipo di tempo stia vivendo. Si fa riferimento alle situazioni in cui si è collocati, dato che la vita è fatta di tante situazioni. Questo è uno dei brani che mettono in gioco il pensiero di Qohelet in maniera profonda. La considerazione che la creazione è contrassegnata da un ordinamento che trae la suo origine dal progetto divino, fa da sfondo alla domanda sul vantaggio che viene all’uomo da tutto ciò che fa con fatica. Ma alla domanda Qohelet fa seguire: «Ho osservato l’occupazione che Dio ha dato agli uomini perché si affatichino in essa: egli ha fatto bella ogni cosa al tempo opportuno» (3,10-11). La riflessione è diversa rispetto alla Genesi. Il primo capitolo della Genesi è ritmato dall’esclamazione: «Dio vide che era cosa buona […] Dio vide tutto ciò che aveva fatto ed era molto buono». Non dimentichiamo che il termine “bello” è un’ulteriore specificazione rispetto a “buono”. Forse questo è uno degli influssi più chiari del pensiero greco, ma non si tratta di un giudizio estetico: il creato è certamente bello, ma soprattutto (e dunque l’affermazione del Qohelet va colta entro la prospettiva della fede nella creazione biblica) è conforme al volere divino. Egli, dentro una realtà per tanti versi enigmatica, trova dunque un fondamento al suo invito a prendere sul serio questa vita.

NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conversazione tenuta a Brescia il 4.4.2000 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.