Come sapete, a maggio 2004 entreranno a far parte dell’Unione Europea dieci nuovi paesi e la maggioranza di essi proviene dall’ex blocco sovietico. Inoltre, hanno raggiunto un buon punto anche i negoziati con Bulgaria e Romania che dovrebbero entrare nelle UE entro il 2007.
Credo che il modello europeo sia già stato di fatto esportato a questi paesi. Possiamo guardare tutte le nazioni che facevano parte precedentemente dell’orbita sovietica, tutte le economie pianificate, che includevano non solo i paesi che entreranno adesso nell’Unione Europea, ma anche paesi che facevano effettivamente parte dell’Ex-Unione Sovietica, e ci accorgiamo che questi paesi hanno trasformato profondamente le loro economie nell’ultimo decennio da quando è caduto il muro di Berlino. Lo hanno fatto, però, seguendo delle traiettorie tra di loro molto diverse. Tutti questi paesi si sono posti il problema di trasformare un’economia pianificata in un’economia di mercato, ma nel farlo, hanno adottato strumenti e metodologie molto diverse. In particolare, i paesi che entreranno adesso a far parte della UE hanno dato un modello di transizione che ha segnato un peso molto importante a degli strumenti volti a ridurre i costi sociali dell’aggiustamento e delle ristrutturazioni, ad un modello che ha attribuito fin da subito un peso molto rilevante a strumenti di tipo redistributivo.
Queste politiche avevano come obiettivo la prevenzione delle condizioni di povertà estrema, la riduzione dei costi della disoccupazione, indotta dai processi di ristrutturazione che ci sono stati da quando si è cominciato a cambiare regime, da quando non sono più stati dati sussidi a imprese decotte, da quando si è cominciato a spingere perché ci fossero gli incentivi ed i meccanismi di mercato fossero presenti all’interno di questi paesi. È così avvenuto che questi paesi hanno trasformato le loro economie, creando anche molta disoccupazione, però anche contenendo relativamente le disuguaglianze. Esse sono chiaramente aumentate e questa è una delle inevitabili conseguenze della transizione ad una economia di mercato. Esse, d’altra parte, non sono esplose come è avvenuto altrove. I paesi dell’Ex-Urss, hanno invece seguito un modello diverso: hanno anche loro trasformato la loro economia, hanno anche loro introdotto dei meccanismi di mercato, ma hanno lasciato esplodere le disuguaglianze. Gli indici di cui disponiamo parlano di una dinamica di disuguaglianze esplosiva. Questi paesi non hanno introdotto schemi di ultima istanza per chi perdeva il posto di lavoro; questo ha creato meno disoccupazione, ma sicuramente ci sono stati divari di reddito molto forti, perché la gente rimaneva attaccata a qualsiasi posto di lavoro anche se non pagato. In Russia, per anni, molte imprese non hanno pagato i lavoratori.
Possiamo dire che il nostro modello lo abbiamo già esportato. Perché se i paesi che stanno entrando oggi nell’UE hanno avuto quel tipo di transizione diversa dalle economie che provenivano dal blocco sovietico è perché guardavano all’Europa. Per loro, quello che si sta prefigurando è un ritorno in Europa. Uno dei valori che abbiamo esportato a questi paesi, è un valore di tipo redistributrivo. Se si guardano i sondaggi di opinione, ci si rende conto che un carattere distintivo degli europei, rispetto ai giapponesi o agli americani, è l’importanza assegnata a strumenti di tipo redistributivo.
Del resto, in Europa si spende di più in politiche redistributive che in America o in Giappone. Questa attenzione ai problemi di distribuzione è un tratto quindi distintivo dell’Europa e lo abbiamo esportato ai paesi che provenivano dalle economie pianificate. Il tipo di transizione che è stata vissuta in quei paesi che entrano ora nella UE è stata influenzata dal nostro modello sociale.
Il libro cui ho contribuito si pone una domanda che guarda in avanti: cosa succederà adesso? Sarà un Europa più grande o più unita? Vediamo perché più grande.
L’Europa sarà più grande perché naturalmente aumenterà la popolazione, avremo circa cento milioni di persone in più. Diventerà sempre di più un’Europa di piccoli paesi. Non sarà però un’unione molto più grande economicamente, perché i nuovi arrivati avranno delle economie “piccole”. Esse non cambieranno molto i redditi complessivi dell’Unione e abbasseranno i livelli medi di reddito pro-capite. Nasceranno dei divari, del 60-70% sul reddito pro-capite tra i paesi che entreranno nella UE e quelli che ci sono già. Non è mai successo niente di simile in passato e la UE è un risultato di diversi allargamenti. Ma i passati allargamenti avevano visto la UE accogliere paesi sì più poveri, nel caso dell’allargamento a Spagna, Portogallo, ma i divari erano nell’ordine del 20-30% al massimo, e ora sono almeno il doppio con Bulgaria e Romania.
Quali sono le implicazioni dell’arrivo di questi nuovi paesi? Il fatto che sia un’Europa più grande come popolazione, ma economicamente non tanto più grande, fa pensare che ci possano esserci pressioni migratorie. Si è parlato di “orde” di immigrati che sarebbero arrivate da certi paesi dell’Est. Secondo le nostre stime non saranno così numerosi. Si tratterà in larga misura di immigrati con livelli di istruzione piuttosto elevati. Potranno esserci problemi di integrazione nell’immediato per questi nuovi immigrati, ma dovrebbero essere cose risolvibili in tempi brevi. I problemi potrebbero piuttosto essere che cambieranno i confini delle Unione. Avremo a quel punto confini diversi, confini con i paesi dell’Ex-Urss, decisamente più poveri dell’Europa. Allora potrebbero sorgere problemi nel controllo delle frontiere se vorremo controllare i flussi da paesi terzi. Sarà dunque importante condurre una politica dell’immigrazione comune con i nuovi paesi della UE.
Il fatto che aumenti il numero degli stati, comporta problemi molto seri dal punto di vista dei processi decisionali e sono dei problemi che vengono discussi proprio in questi giorni. A Napoli c’è attualmente questo vertice che dovrebbe, secondo le intenzioni della presidenza italiana, essere chiamato a spianare la strada verso l’approvazione della costituzione europea. È un vertice molto importante da questo punto di vista. Sono soprattutto i paesi piccoli e medi quelli che stanno ponendo dei problemi, essi hanno paura di essere in qualche modo schiacciati dal fatto che molte decisioni non vengono più prese all’unanimità, ma dalla maggioranza, e ciò toglie loro potere decisionale. I paesi medi come la Spagna e la Polonia temono la bozza di Giscard, perché cambia la situazione rispetto al trattato di Nizza che li aveva molto privilegiati e quindi prima di rinunciare a quello vorranno puntare i piedi. Il modo migliore per andare incontro ai problemi di questi paesi sarebbe quello di garantire il fatto che ci sono delle regole precise, forti, scritte che valgono per tutti a livello di unione. Sarà utile avere degli organismi sovra-nazionali forti che possano tutelare i loro interessi.
Purtroppo però questo vertice avviene poco dopo la decisione di cancellare nei fatti, di far morire, il Patto di Stabilità e Crescita, non appena questo patto andava ad intaccare gli interessi delle grandi nazioni d’Europa, (Francia e Germania). È stata una decisione incresciosa, perché formalmente non ha abrogato il patto, queste importanti nazioni si sono di fatto impegnate ad avere delle politiche di bilancio più restrittive, ma si è tolto potere sanzionatorio al patto: il Patto rimane in vigore formalmente, ma non ci sono più le sanzioni. È una violazione grave che indebolisce sicuramente il Patto, perché senza il deterrente delle sanzioni il Patto perde efficacia.
Il rischio è che si torni ad un’Europa in cui tutto viene soggetto al negoziato, in cui c’e molta politica e c’è poca tecnocrazia o burocrazia. Un’Europa di questo tipo vedrà i paesi piccoli sicuramente in grosse difficoltà, perché nel negoziato il paese piccolo, conta poco. Se non c’è una regola comune, o magari c’è ma viene calpestata non appena intralcia con le intenzioni del paese grande, le difficoltà per i “piccoli”, saranno notevoli.
La grande opportunità che rappresentano questi nuovi paesi è che, essendo essi paesi che devono crescere molto, hanno di fronte a sé una possibilità di convergere ai nostri livelli di reddito, saranno la parte più dinamica dell’Europa. Vedremo una parte dell’Europa con tassi di crescita anche del 7% e di cui beneficeremo anche noi. Si apriranno notevolmente i mercati e non c’è dubbio alcuno che dal punto di vista economico generale, l’allargamento è una grandissima opportunità per tutti noi.
Le politiche distributive dell’Unione dovranno cambiare; essendoci regioni più povere, molte delle risorse che andavano a delle regioni anche italiane, finiranno ai nuovi paesi. Finora abbiamo dato molti soldi agli agricoltori, ogni giorno una mucca della UE riceve 2$, quando ci sono miliardi di persone che vivono con meno di 1$ al giorno. Dovremmo fare delle politiche redistributive molto più trasparenti: dovremo dare a quelli che hanno reddito più basso. Penso però che noi stiamo arrivando impreparati a questa nuova realtà. Sono sempre stato un grande sostenitore dell’allargamento e ho sempre apprezzato tutti gli sforzi fatti in questa direzione, ma vedo il rischio che l’Unione possa essere solamente più grande, ma non più unita.
NOTA: testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 28.11.2003 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.