La resistenza alla dottrina e alla politica del fascismo e del nazional-socialismo è un fatto acquisito alla storia ed ha un significato di grande portata, che va ben oltre la passione politica di partito, perché in quella lotta, particolarmente difficile e disperata in Germania, maturò nella coscienza di vasti strati e di molti uomini – diversi fra loro per estrazione sociale, milizia politica, fede religiosa – una comune devozione a ideali universalmente umani, in virtù della quale la resistenza si caratterizzò innanzitutto come rivolta morale e religiosa, da cui si originarono il rifiuto del razzismo e del nazionalismo, la percezione del carattere disumanizzante di ogni dittatura (al di là di persistenti dommatismi ideologici), l’aspirazione ad una società più libera e affratellata nella giustizia. In quel movimento – che fu di partiti, ma, in Germania più che altrove, fu soprattutto di coscienze – la ribellione della coscienza cristiana, e in essa di quella specificamente cattolica, ha avuto una parte non secondaria6. Un dato si impone, con una terribile eloquenza: furono oltre quattromila i sacerdoti cattolici uccisi per il diritto di vivere la propria convinzione e di professarla nei paesi che negli anni 1939-1945 rimasero sotto il dominio nazista. Essi furono fucilati sul posto, nelle loro diocesi, come a Chelm e a Vilna, o portati a morire in campo di concentramento per esecuzioni capitali, esperimenti medici, fame, torture, maltrattamenti. Soltanto a Dachau dal 1942 al 1945, lasciarono la vita più di mille sacerdoti cattolici . Quanti furono i sacerdoti deportati? E quanti laici cattolici furono assassinati o comunque perseguitati a causa della loro opposizione al nazifascismo in obbedienza a un imperativo morale e religioso?
A Dachau era diretto nel novembre del ’43, con duecento ebrei, il «prigioniero deportato» Bernhard Lichtenberg, la personalità di maggior spicco dopo il vescovo Preysing nella diocesi della capitale del Reich. In che modo quell’uomo, vissuto in un periodo contrassegnato da attentati alla libertà al diritto alla vita, da guerre e da massacri di uomini di altra razza o di diverso pensiero, era pervenuto alla decisione semplice e radicale di far suo, fino all’ultimo respiro, l’imperativo di Pietro «è meglio obbedire a Dio che agli uomini»? L’itinerario di Lichtenberg è stato ricostruito, con puntigliosa aderenza ai documenti, da Otto Ogiermann nel volume “Contro il nazismo un martire cristiano”, che la Morcelliana ha pubblicato in edizione italiana, con ispirate parole introduttive del vescovo di Crema, il filippino padre Carlo Manziana, anch’egli travolto nel vortice dell’odio nazifascista, anch’egli testimone fedele, a Dachau, della inconciliabilità fra Chiesa cattolica e neo-paganesimo razzista.
A Lichtenberg ancor giovane fu affidato, all’inizio del secolo, un lavoro durissimo, che lo avrebbe portato a un risultato forse insperato. Cominciò dai grossi borghi della periferia di Berlino e dal sottoproletariato polacco e italiano di mietitori e muratori, stradini e netturbini. L’impresa di costruire una comunità cattolica a Berlino gli costò sacrifici dolorosi e durò oltre quarant’anni; essa segnò profondamente la sua vita, se in una poesia autobiografica, scritta in carcere nel ’43, a sessantotto anni suonati, confessa che vorrebbe «ancora sgobbare nella cava di Berlino». Lichtenberg si era formato in un clima spirituale in cui era assai vivo e operante il ricordo della resistenza cattolica allo stato bismarckiano, discriminatorio e persecutore, e all’aggressione ideologica del Kulturkampf che ne accompagnava e giustificava l’azione politica. Un uomo così «tedesco» nel suo cattolicesimo senza incrinature, nella sua dedizione senza risparmio a Dio e al prossimo, non voleva essere per nulla un gallo da combattimento, ma riteneva suo dovere difendere pubblicamente ciò che amava, soprattutto quando la canea anticlericale infangava quei valori di cui, per quanto gli concerneva, si sentiva responsabile come custode di una comunità. Nel ’29 egli osò sfidare il pubblico, e con successo, l’irreligiosità e l’antiebraismo della «Lega di Tannenberg» capeggiata da Ludendorff, il famoso generale già associato a Hitler nel fallito putsch dell’8 novembre ’23.
L’avvento di Hitler al cancellierato nel gennaio del ’33 trova Lichtenberg, da un mese prevosto del duomo di Berlino, preparato al peggio. Egli ha letto e annotato con grande attenzione i due classici dell’ideologia nazista, “Mein Kampf” di Hitler e “Der Mythus des 20. Jahrhunderts” di Rosemberg, e dal trionfo di idee criminali non si attende che crimini. I vescovi ricordarono nella campagna elettorale per le elezioni del marzo ’33, svoltesi in un clima analogo a quello delle elezioni italiane del ’24, i loro ammonimenti contro il nazismo nei termini già espressi il 10 febbraio del ’31. Il 28 marzo del ’33, quando già vasti suffragi avevano mostrato preferenza per il regime autoritario del terribile parvenu, la conferenza episcopale ribadì che le proibizioni e gli ammonimenti contro il nazismo, ormai trionfante, dovevano rimanere in vigore finché e nella misura in cui i motivi relativi continuavano a sussistere. Gli smarriti, gli stolti, i politicanti al seguito di von Papen operarono una scelta di segno contrario. Certo non tutti i cattolici vedevano chiaro . Ci furono carenze e ingenuità, attendismi e sfasature, ma la Chiesa cattolica tedesca, nel complesso, affrontò la terribile prova con un senso di responsabilità e con una fermezza a cui non sempre si rende il riconoscimento dovuto.
Il governo tedesco, presieduto da un cancelliere che era al tempo stesso il Führer del movimento nazista, si impegnò a rispettare l’inviolabilità della dottrina e dei diritti della Chiesa cattolica prima nelle dichiarazioni di governo del 23 marzo 1933 e poi sottoscrivendo il concordato il 20 luglio 1933. La Chiesa cattolica tedesca si augurò che ai patti solennemente sanciti seguissero atteggiamenti coerenti, ma essa era del pari consapevole del suo mandato di annunciare il Vangelo in una situazione sempre più difficile e angosciante. La Chiesa era obbligata a non disarmare e insieme ad agire con cautela. Si trattava di lottare su piani diversi, ma convergenti, nella difesa onorevole di quei diritti che le erano riconosciuti dal concordato, cercando di vincolare il regime nazista all’osservanza di quelle leggi che esso stesso aveva sottoscritto. In un regime dittatoriale non si può lasciar cadere nessuna possibilità, per debole che sia, per infrenare l’arbitrio e per non abbandonare in balìa dell’avversario, e di un avversario così spietato, la vita e la felicità di milioni di credenti .
La resistenza della Chiesa cattolica tedesca si espresse in stretta unione col Papa, in dichiarazioni pubbliche ben finalizzate, e in atti di coraggiosa denuncia non solo collettivi, come nelle conferenze episcopali di Fulda, ma anche da parte di singoli alti esponenti della gerarchia ecclesiastica, disposti a rischiare di persona piuttosto che mandare allo sbaraglio collaboratori e fedeli.
Isolatamente e collettivamente i vescovi non tralasciarono di protestare contro le manifestazioni neo-pagane che assumevano il carattere di provocazione o di vero e proprio reato.
Tuttavia il nazismo, mentre scatenava le campagne di stampa contro i Vescovi e intentava squallidi processi contro il clero con le solite accuse, che fan sempre colpo sulla platea, di traffico di valuta estera e di omosessualità, colpiva spietatamente i giornali cattolici, le organizzazioni giovanili, le associazioni economiche e sociali del laicato cattolico. Ogiemann ricorda, in particolare, l’impari, disperata lotta del «Fronte giovanile cattolico», che ebbe nel giovane Johannes Maassen un capo lungimirante e pronto al sacrificio. Malgrado sequestri e vessazioni d’ogni genere, il settimanale del «Fronte giovanile cattolico», fieramente antinazista, raggiunse le trecentomila copie prima di essere messo a tacere per sempre nel gennaio del ’36, a un anno appena di distanza dalla firma del concordato, il capo dell’Azione Cattolica, Erich Klausener, il dirigente delle associazioni sportive cattoliche, Adalbert Probst, e il pubblicista cattolico Fritz Michael Gerlich. Era giunto anche troppo presto il tempo in cui chiamarsi cristiani e cattolici e mantenere questa professione al cospetto di minacce brutali esigeva l’accettazione quotidiana di un rischio, spesso gravissimo. La Chiesa non si disperse e non si arrese. Essa poté contare sempre, anche nei momenti del trionfo militare nazista, sulla discreta compattezza, dietro l’episcopato, di ciò che nel senso buono si può definire popolo cattolico. I ceti in cui la presenza cattolica era più forte, la campagna e la borghesia colta, rimasero sostanzialmente impermeabili alla martellante propaganda nazista. Furono quelli gli anni in cui la protesta ufficiale, ad alta voce, dei Vescovi si avvalse della finzione di una relazione legale con lo stato, dominato ormai dall’«orda bruna», come l’ultima trincea per costringere l’avversario a scoprirsi e a recedere dal crimine. L’intransigenza cattolica antinazista – che sin dal ’33 aveva avuto un campione nel gesuita padre Friedrich Muckermann e un’espressione di splendida arditezza nella rivista clandestina “Der deutsche Weg” («La via tedesca») – divenne, a poco a poco, lo stato d’animo e l’imperativo di quelle piccole comunità, appoggiate da sacerdoti di sincera vita interiore, che parteciparono al movimento liturgico e al movimento biblico tra il 1935 e il ’45. Quelle comunità sentirono la Chiesa cattolica come il centro attorno al quale poteva formarsi e conservarsi una fraternità perseguitata. L’impegno a vivere un’esistenza cristiana consapevole aiutò i sacerdoti e i giovani collegati al moto di rinascita religiosa a individuare nel nazismo il neopaganesimo per antonomasia, la potenza nemica più incombente da cui non si poteva attendere altro che persecuzione e morte . La gravità della situazione in Germania, stretta connessione tra l’episcopato tedesco e la Santa Sede, il coraggio di Pio XI portarono ad uno sbocco clamoroso: la pubblicazione in data 14 marzo 1937 dell’enciclica “Mit Brennender Sorge” («Con bruciante preoccupazione»), che precede quella sul comunismo ateo, la “Divini Redemptoris”. Con l’enciclica papale di condanna del mito sanguinario e guerrafondaio della razza, della boria nazionalistica, della politica di forza, della sopraffazione totalitaria della vita religiosa e delle istituzioni cattoliche, la protesta cristiana raggiunse la sua più alta intensità e risonanza. Roma avallava la resistenza antinazista della Chiesa tedesca in tutte le sue componenti – vescovo, clero e fedeli. «Noi ringraziamo, Venerabili fratelli, Voi, i Vostri sacerdoti e tutti i fedeli, che nella difesa dei diritti della divina Maestà contro un neopaganesimo aggressivo, avete adempiuto e adempite al Vostro compito di cristiani. Questo ringraziamento – proseguiva il Papa – è particolarmente intimo e unito ad una riconoscente ammirazione per coloro che nel compimento di questo loro dovere, si sono resi degni di sopportare per la causa di Dio sacrifici e dolori»
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Nel dramma della Chiesa cattolica tedesca si inserisce, in modo emblematico, quello del prevosto del duomo di Berlino. Lichtenberg era una vecchia conoscenza per i capi del nazionalsocialismo. Egli, infatti, era sulle barricate contro il nazismo ancor prima che quel movimento afferrasse il potere. Presidente della Lega della pace dei cattolici tedeschi, poi allargatasi in Comunità di lavoro delle confessioni cristiane per la pace, fu additata al linciaggio da Goebbels per aver fatto proiettare nel giugno del ’31 un film girato sulla trama del libro di E. M. Remarque “Niente di nuovo sul fronte occidentale”. Lichtenberg non si lasciò impressionare e passò al contrattacco, denunciando Goebbels per diffamazione. Nessuna meraviglia, quindi, se dopo la presa del potere, i nazisti incominciarono a praticare perquisizioni domiciliari e intimidazioni. Nel ’34 attaccò duramente dal pulpito l’ideologo del regime, Rosenberg, e l’anno seguente, venuto a conoscere da un rapporto segreto quel che accadeva nel campo di concentramento di Esterwegen, richiese immediatamente per telefono un colloquio con Göring, allora capo della Gestapo, e si recò di persona a consegnargli, in rappresentanza ufficiale della Chiesa berlinese, il testo del rapporto assumendo su di sé la responsabilità di quanto si affermava in esso.
Il 26 giugno del ’41 nella lettera pastorale collettiva dei vescovi tedeschi si leva solenne la protesta della coscienza cattolica contro la «eutanasia di stato». «Vi sono obblighi sacri di coscienza da cui nessuno può dispensare, che noi dobbiamo adempiere, ci costasse la vita stessa: mai, in nessun caso, l’uomo può uccidere un innocente» (p. 65). Il 3 agosto il vescovo di Münster, von Galen, scendeva in campo pubblicamente contro l’assassinio delle cosiddette «persone inette a vivere» e «improduttive». Il 28 agosto Lichtenberg indirizzava al medico capo del Reich una vibrata protesta. «Se i dieci comandamenti – egli scrive – sono pubblicamente ignorati, il codice penale del Reich ha ancora valore legale. Orbene l’articolo 221 commina la pena di morte a chi uccide con premeditazione e l’articolo 139 fa obbligo a chi viene a conoscenza, da fonte attendibile, del progetto di un delitto contro la vita, di sporgerne denuncia a tempo debito all’autorità o al minacciato». La conclusione di Lichtenberg non fa una grinza: «Come cittadino tedesco che obbedisce alle leggi e come sacerdote, per la conoscenza che ho dei fatti e per l’ufficio che ricopro, ho il dovere di parlare» (p. 74).
Lichtenberg si era spinto più volte troppo oltre nel cammino verso il grande rischio. Pure egli sarà catturato, processato, condannato, «riarrestato» dalla Gestapo ancor prima di essere rilasciato,e infine avviato a Dachau soprattutto a causa del suo amore per gli ebrei. I nazisti temevano tanto il coraggio di quell’uomo pacifico che il giorno successivo alla nefanda «notte dei cristalli», il 10 dicembre del ’38, accerchiarono la cattedrale per garantirsi da un’eventuale azione di forza del prevosto. Tuttavia, Lichtenberg, alla preghiera serale osò dire ad alta voce: «Ciò che è stato ieri, lo sappiamo. Ciò che sarà domani, non lo sappiamo. Ma ciò che è avvenuto oggi, l’abbiamo vissuto: là fuori brucia la sinagoga: anche essa è una casa di Dio» (p. 83). E quella sera, sotto gli occhi e gli orecchi delle spie, cominciò la preghiera pubblica per gli ebrei perseguitati, per i quali organizzò l’Opera di soccorso presso l’ordinariato vescovile di Berlino. Nell’autunno del ’41 l’offensiva antiebraica toccò il culmine. Dal 15 settembre tutti gli ebrei dovettero portare la stella di David e la scritta «giudeo» e questo faceva di loro una selvaggina di libera caccia. Era il preludio alle deportazioni in massa e all’annientamento. Un ignobile volantino anonimo, ma fatto stilare da Goebbels, incitava all’odio dell’ebreo, alla delazione, alla sua «eliminazione». Lichtenberg non aveva mai taciuto, non aveva mai subìto il trionfo del disumano passivamente.
Ma ora egli sente di dover «professare» a viso aperto, in maniera solenne ed esplicita, il rifiuto del razzismo e il dovere dell’amore cristiano per gli ebrei minacciati di genocidio. Conosceva gli avversari e quindi anche il pericolo. Stilò in appena otto righe un «avvertimento» ai fedeli perché non si lasciassero sviare da un orientamento anticristiano venendo meno al comandamento supremo dell’«amerai il prossimo tuo come te stesso». Ma non poté nemmeno leggerlo, come aveva deciso, nella festa di Cristo Re, la domenica successiva alla distribuzione del volantino, perché il giovedì fu tratto in arresto.
Due studentesse fanatizzate, non berlinesi, entrate per curiosità nel duomo, avevano ascoltato dal prevosto le sue accorate invocazioni «per gli ebrei, per i prigionieri nei campi di concentramento, per i milioni di profughi senza nome e senza patria, per i soldati dell’una e dell’altra parte, per le città bombardate in paese amico o nemico» (p. 106) e lo avevano denunciato alla Gestapo. A questo punto la narrazione di Otto Ogiermann si fa sobrio commento alla lunga, scrupolosa riproduzione dei verbali degli interrogatori della polizia e degli atti processuali e carcerari. In quei documenti è la più sconcertante e involontaria apologia di un martire cristiano del nostro tempo. Nelle sue risposte taglienti, senza attenuanti di sorta, la grandezza incomparabile del messaggio evangelico trova una testimonianza non adulterata da compiacenze intellettualistiche e da strumentalizzazioni politiche.
Il lungo verbale dell’interrogatorio del 30 ottobre 1941 va segnalato come documento di chiarezza interiore, di coraggio, di acume critico e dovrebbe entrare in ogni antologia della resistenza europea. Lichtenberg è chiamato a spiegare, ad una ad una, le annotazioni a margine da lui scritte al “Mein Kampf” del Führer. Le spiegazioni mettono a nudo, in modo implacabile ed estremamente esplicito, l’essenza mistificatoria e oppressiva del nazismo. «Se il popolo tedesco deve venir portato alla convinzione d’essere incondizionatamente superiore agli altri popoli, gli altri popoli non se lo lasceranno imporre e si verrà alle guerre» (p. 112). «Poiché nelle sedute del Reichstag risulta che parla solo il Führer e poi la riunione si scioglie, si deve dire che in realtà in Germania domina solo un cervello» (p. 114). Alla esaltazione hitleriana dell’«assemblea di massa», il prevosto obietta: «Le persone che si sentono sicure solo nel branco, non agiscono secondo il principio: "l’uomo è se stesso, la sua personalità". Ritengo molto problematico il valore di tali assemblee di massa». L’aggressività di chi è nel branco cela spesso la viltà effettiva del singolo, quando è solo con se stesso (p. 115). «Non v’è possibilità di interporre un qualche strumento giuridico contro una disposizione della polizia segreta di stato. È mia intima convinzione, fondata su esperienza personale, che noi oggi viviamo spesso in una situazione di arbitrio» (p. 116). «Io mi stupisco della quantità e gravità delle affermazioni [di Hitler]» (p. 119). «Gli odierni detentori del potere dovrebbero farsi la seria domanda se si facciano amico Dio con l’eliminazione del cristianesimo, e se non sarebbe forse meglio per la nostra patria se avesse più amici anche nel mondo» (p. 119). Dopo aver definito un mero «gioco di fantasia» le pseudo-profezie di Hitler, il sorprendente Lichtenberg tira nel modo più esplicito possibile la conclusione della lunga serie di contestazioni e di risposte: «Per finire vorrei osservare che le annotazioni a margine da me fatte nel libro “Mein Kampf” dimostrano che non mi sono accontentato di una lettura superficiale di quest’opera. Riassumendo, constato che lo studio intensivo di questo libro mi ha confermato nella convinzione che la Weltanschauung nazionalsocialista è inconciliabile con la dottrina e i precetti della Chiesa cattolica» (p. 121). L’estensore del «Rapporto finale» del 2 novembre scrive testualmente: «Lichtenberg è un oppositore attivo dello Stato, che ha la volontà di non nascondere il suo atteggiamento nemmeno in predica dal pulpito. Tra l’altro egli dichiara: Poiché il libro “Mein Kampf” è il fondamento della Weltanschauung nazionalsocialista, io come sacerdote cattolico devo respingere questa Weltanschauung, e anche di fatto la respingo» (p. 123).
Nel dibattimento al Tribunale speciale, Lichtenberg non cerca e non offre alcuna chance né a se stesso né all’avversario. Richiesto su che cosa avesse da replicare, Lichtenberg rispose: «Signor procuratore dello stato, ciò che lei ha detto su leggi e paragrafi e cose del genere, io non lo comprendo del tutto e nemmeno mi interessa. Ma vorrei ringraziarla per una cosa sola: lei ha riconosciuto che non mi debbono essere concesse circostanze attenuanti non potendo assolutamente contare su un cambiamento di sentimenti dell’imputato. Ciò è puntualmente esatto e io di ciò la ringrazio» (pp. 163-164).
Lichtenberg ringrazia per la motivazione della sentenza, che accerta la «incorreggibilità» della sua scelta. Ma lo fa senza iattanza, anzi accompagnandola con una confessione della propria vulnerabilità, d’una grandezza che scuote e commuove: «Signori, in questi mesi dall’ottobre 1941 ho sperimentato molte cose e debbo dire: è stato un periodo ricco di grazie dietro le mura del carcere. Ringrazio Dio per tutte le grazie della mia vita, ma specialmente per questa, che negli ultimi mesi non sono stato costretto a soccombere alla disperazione. Vi sono infatti ore in cui anche un prete è tentato a disperare» (p. 154).
Nella cella 367 di Berlino-Moabit egli aveva, dunque, sofferto e molto; ma aveva anche pregato e lavorato molto: «2000 ore all’incirca», scrive in una lettera dell’8 maggio 1942, per tradurre 147 inni e stendere 153 schemi di prediche per i suoi parrocchiani. Dopo la condanna, Lichtenberg entra nel carcere penale di Berlino-Tegel con l’animo del «novizio certosino», con lo slancio e l’umiltà del principiante che cerca ormai il rapporto assoluto con l’Assoluto in una donazione totale di sé a Dio e ai fratelli. La fame, il freddo, l’altalena tra lazzaretto e carcere, l’aggravarsi di malattie renali e cardiache, le orribili torture debilitarono il corpo, ma non l’anima di quel prete deciso «a far tutto per amore e tutto sopportare con amore, a vivere ancora vent’anni e a morire subito» (p. 201).
Due settimane prima di abbandonare il carcere di Berlino-Tegel, il vescovo Preysing poté riabbracciare il suo fedele amico. Lichtenberg aveva fatta la sua parte, ora occorreva trarlo di prigione e permettergli, se si fosse ancora in tempo, di riacquistare la salute. C’era però una condizione della Gestapo: di non predicare per il periodo di guerra. La risposta di Lichtenberg commosse Preysing: non era affatto disposto a tacere mentre infuriava l’oppressione. «Se noi preti tacciamo – aveva detto tempo prima a suor Stephana – la gente perde del tutto la bussola e non sa più dove si trova» (p. 201). Prima della scadenza della pena, la Gestapo provvide al «riarresto» per avviarlo al campo di concentramento di Dachau. L’indomito prevosto fu aggregato a un contingente di ebrei, in marcia verso Dachau, e accomunato in tutto al destino di quei fratelli perseguitati, come egli stesso aveva più volte chiesto (pp. 104-202). Nel campo di lavoro di Berlino-Wuhlheide conobbe ancora bestiali bastonature e insulti. Ultima stazione la prigionia e l’ospedale di Hof. Qui ebbe fine il suo martirio.
Pio XII, che invano si era adoperato per la scarcerazione di Lichtenberg e che aveva fatto comunicare dal Vescovo di Berlino all’eroico prete la sua riconoscenza e l’affettuosa partecipazione alle sue sofferenze, scrisse di averne appreso la morte «con profonda mestizia, ma anche con un senso di intimo conforto» (p. 224). Lichtenberg era infatti caduto per tutto ciò che doveva allora e deve sempre essere difeso da un cristiano. E come lui, il francescano Maximilian Kolbe, il gesuita Alfred Delp, la carmelitana ebrea Edith Stein, gli obiettori di coscienza cattolici padre Paul Metzer e il contadino Franz Jägerstätter, i fratelli Scholl e i giovani della Weisse Rose e i molti altri, il cui sacrificio costituisce uno degli ultimi capitoli di quegli «Atti dei martiri», che, ad ogni svolta della storia, accompagnano e autenticano il cammino della Chiesa nel mondo.
Humanitas, n 1 – gennaio 1975. Il testo completo, corredato da note, si può scaricare dal file allegato.