Voglio offrirvi riflessioni su san Francesco d’Assisi, che nacque ottocento anni fa, nel 1182. Tre cose che lo riguardano sono di particolare rilievo per il nostro tempo.
In primo luogo, egli è importante in quanto predicatore, poeta e amante della Povertà. Per lui la Povertà, – cioè l’accontentarsi di poco – era una meravigliosa signora di cui era innamorato. Da questo punto di vista egli era completamente diverso da quei cristiani che vivono ora nelle “società del benessere” e considerano l’alto tenore di vita la cosa più importante.
In secondo luogo, pur potendo noi chiamare san Francesco un asceta, egli non era uno di quegli asceti per i quali questo mondo è un luogo indegno di ogni fiducia, un luogo malvagio. Il suo Cantico delle Creature è una opera notevole proprio come slancio lirico di preghiera e di gratitudine a Dio per la bellezza varia della sua creazione naturale in ogni suo aspetto, inclusa, forse sorprendentemente, “sora nostra morte corporale”. Vari atteggiamenti sono possibili nei confronti della morte: pochi di noi trovano naturale ringraziare Dio per essa.
In terzo luogo, come Chesterton osserva nel suo eccellente libro su san Francesco, egli sembra essere stato, fatto piuttosto raro, un uomo felice. Questo non significa che tutto, anche nella sua povertà e gratitudine, gli andasse bene: la grande confraternita che egli fondò perse presto di vista i suoi ideali, anche durante la sua stessa vita, ed egli ebbe perciò dei motivi di delusione. Ma tali sviluppi non sembrano averlo amareggiato assolutamente: egli morì felice.
E’ sulla seconda di queste tre osservazioni che io propongo di concentrare a nostra attenzione, almeno inizialmente. Non dovremmo mai dimenticare quanto può sembrare anomalo per un uomo religioso, un cristiano ed un cattolico, rispondere alla creazione visibile di Dio con una tale gratitudine celebratoria. Non è Satana “il principe di questo mondo”? Non si suppone che noi siamo degli esseri spirituali? Non includiamo “il mondo”, insieme alla carne ed al diavolo fra le cose che noi dobbiamo ripudiare?
Tali sentimenti di rifiuto del mondo corrispondono a qualcosa di assai profondo nella natura umana intesa nei suoi aspetti migliori, non peggiori. Attraverso tutta la storia religiosa e secolare, possiamo scoprire la presenza e l’influenza di un’idea che, se espressa con estrema generalità, assumerebbe questa forma: “il reale è male: solo l’ideale, anche nel senso di immaginario, è buono”; se si sviluppa quest’idea in una direzione psicologica, si arriva a vari tipi di fuga nella fantasia; se la si sviluppa in senso politico, si otterrà la sinistra politica; se in senso teologico, si otterranno varie versioni del concetto che la materia è male e che solo lo Spirito è buono (cioè che quello che i cristiani chiamano “creazione” fu un disastro originale, una specie di caduta).
A mio modo di vedere quest’idea governa praticamente tutto il pensiero religioso che si è sviluppato al di fuori della tradizione ebraico-cristiana. E, alla base di tutto il monismo orientale, specialmente nelle forme avanzate come il Vedànta. Il bene è l’Uno, solo l’Uno è buono: tutta la molteplicità, tutta la differenziazione in oggetti, esseri e vite separate è maya: nel caso migliore, illusione; un vero male, nel peggiore. In Europa questa credenza, così immensamente plausibile ed attraente, ha generato correnti molto diverse: gnosticismo, manicheismo, catarismo, albigesimo e simili. Nel periodo della patristica sembra aver infettato una gran quantità di pensiero cristiano altrimenti di prima classe, un po’ come fa oggi il marxismo, e nell’Europa cattolica del tempo di San Francesco sembrava essere la tendenza dominante del pensiero teologico, l’onda del futuro.
Questo fatto dovrebbe avvertirci di considerare con cautela tutte le tendenze dominanti nel pensiero teologico. Ma non dimentichiamo mai quanto siano plausibili ed attraenti tali idee per persone di notevole levatura mentale, specialmente quando vengono sviluppate in forma dì dualismo tra uno spirito demiurgico o malvagio, responsabile del mondo visibile e del corpo umano, da una parte, e le nostre anime, completamente innocenti e persino divine dall’altra.
Questo trova un grande senso nel mistero del male, mistero elle altrimenti ci confonde; esso ci esime anche dalla lotta morale, dicendo che noi non abbiamo bisogno di pentirci, ma solo di essere illuminati, di ottenere la gnosis; e in materia di sesso, ci lascia liberi di scegliere fra i piaceri di ciò che noi chiamiamo “permissivismo” e i differenti piaceri dell’ascetismo, di una castità totalmente fraintesa. Noi non siamo peccatori che hanno usato male un mondo buono, inclusi i nostri corpi e le nostre personalità: noi siamo scintille o particelle della Divinità, intrappolati sfortunatamente in un mondo cattivo, bisognosi solo di gnosis, liberazione, fuga.
Molto del pensiero più profondamente spirituale dell’umanità ha preso vari spunti da questo modello. Ma nelle prime parole della Bibbia e nelle prime parole delle varie forme del nostro credo troviamo qualcosa di completamente diverso: noi leggiamo che questo mondo ed ogni cosa che esso contiene è l’opera amata da un Dio infinitamente potente e buono. Tutto ciò che è creato, come tale, è buono: esiste solo in quanto condivide l’essere e la bontà del suo Creatore, sebbene in un proprio modo, derivato e secondario. Le difficoltà sono ovvie. Un uomo che sta morendo di cancro potrebbe sentirsi disposto a dire che il suo tumore è reale – non è un prodotto della sua fantasia – e che la sua bontà è lontana dall’essere ovvia. Questo è un caso estremo, ma non certo raro; e ci sono sempre state molte persone che hanno affermato che il problema della teodicea è irrisolvibile – che il fatto di un male anche molto limitato rende assurda l’idea che il Creatore di questo mondo possa essere perfetto sia nella potenza che nella benevolenza. Tali argomentazioni sono, a mio parere, sbagliate: esse dipendono da un certo antropomorfismo nascosto, da una certa tendenza ad attribuire a Dio un linguaggio, che ha senso solo se applicato all’uomo. Potrei andare oltre e dire che è un problema di categoria parlare del “problema del male”. L’esistenza del male non è un “problema” – cioè qualcosa che si può sperare di risolvere con i mezzi dì una tecnica: è un mistero – cioè qualcosa che si arriva a capire con la contemplazione, soprattutto, contemplando la Croce.
Non mi propongo di sviluppare questo antico argomento, ma solo di mettere in rilievo la sua importanza centrale. E’ il grande problema: quello che è alla base di tutti gli ulteriori problemi, anche di quelli che possono sembrare meramente etici e non affatto religiosi. La Croce è il polo intorno a cui ruota tutta la discussione sull’aborto o l’eutanasia, sul controllo delle nascite, o sull’uso delle armi nucleari contro l’oppressore, o sull’importanza dello sviluppo economico nelle nostre nazioni o nel terzo mondo.
Dietro tali argomenti particolari sta l’interrogativo fondamentale se la esistenza umana sia buona per sé o solo in circostanze favorevoli dal punto di vista economico, politico e sanitario.
Nei tempi recenti, siamo vissuti in circostanze economicamente davvero favorevoli: abbiamo goduto di un tenore di vita così alto che avrebbe sbalordito persino i nostri antenati ricchi. Abbiamo avuto un rapporto sentimentale con Donna Ricchezza. Voglio fare due osservazioni su questo stato di cose.
In primo luogo esso è stato reso possibile dalle conseguenze a lungo termine della rivoluzione industriale, aiutata dagli immensi progressi tecnologici stimolati da due guerre mondiali e dalla preparazione per una terza.
Per sé le motivazioni della rivoluzione non erano militari, erano capitalistiche. In Inghilterra non abbiamo ferrovie perché alcuni altruisti vollero dare mobilità alla gente: le abbiamo perché dei ricchi le videro come un mezzo per diventare più ricchi. Naturalmente l’invenzione della forza a vapore fu fondamentale e così lo fu la legalizzazione delle compagnie a responsabilità limitata. Ma a quell’epoca ancora più determinante fu il fatto che in Inghilterra esistesse una grande massa di proletari senza proprietà e sicurezza – gente contenta di lavorare per le ferrovie in cambio di un salario modesto ma sicuro.
Fu così nell’intero panorama dello sviluppo industriale, e i capitalisti ingrassarono. La lotta contro la loro grassezza, – quando gli altri erano così magri – fu abbracciata da molti, non solo da Marx, e fu e rimane ancora un argomento morale estremamente potente. Sindacati forti e alta produttività sono tra i fattori che ora hanno livellato molte cose. Ma hanno raggiunto ciò ad un prezzo: con quei fattori, uniti ad altri, l’economia del mio Paese – e forse anche dell’Italia – è in un permanente stato di crisi e quasi di disgregazione. Man mano che le condizioni oggettive diventano meno favorevoli all’intraprendenza capitalistica, l’attività economica di tipo prettamente moderno tende a restringersi, se non a crollare; nel mentre dovrebbe ormai essere evidente che la risposta comunista a tali problemi conduce tanto alla povertà quanto alla tirannide.
Non intendo offrire alcuna difesa del capitalismo inteso come il sistema dei “Grandi Affari”: la mia opzione sarebbe sempre per la piccola proprietà, per una proprietà produttiva ed ampiamente distributiva, per le forme cooperative laddove i singoli non sono in grado di operare individualmente. Voglio invece osservare che un elevato livello di vita, come inteso comunemente, è essenzialmente tipico dei capitalismo, ed è reso possibile dal servizio incondizionato e dall’adorazione di “Dorma Ricchezza”, che fu sempre in un certo senso una prostituta. Se non ci piacciono né i “Grandi Affari” né il comunismo, forse abbiamo bisogno di seguire S. Francesco e riscoprire il fascino di “Donna Povertà”.
Ora ciò che mi preoccupa è il limite al quale tante persone trovano intollerabile una simile prospettiva. Durante varie conversazioni ho spesso suggerito che i giorni del benessere potrebbero essere contati; che l’attuale declino economico dell’Occidente potrebbe rivelarsi come incurabile, permanente e progressivo; che una vita molto più semplice e più povera ci attende tutti, indipendentemente da ciò che i politici possono fare. E sempre c’è qualcuno che esclama con orrore: “Ma allora a che serve andare avanti?”.
E’ piacevole essere ricchi. Ma qual è la condizione psicologica e soprattutto religiosa dell’uomo che non vede alcun significato nel vivere se non con la garanzia di una sempre crescente ricchezza? Uno spazio, questo, di lavoro per la Chiesa e per S. Francesco. La ricchezza ha assai poco a che spartire con la felicità, anche se l’esser ricco può a suo modo sembrare bello. Gli Stati Uniti, ad esempio, sono un paese molto ricco: eppure nessuno tra quelli che lo conoscono a fondo lo definirebbe un paese felice. I persistenti livelli di “stress” ed ansietà che l’affliggono sono appena tollerabili senza il rapporto degli alcoolici o di altre droghe.
Ma c’è una seconda osservazione che vorrei fare circa il tipo di attività che ci ha dato questa società altamente industrializzata, urbanizzata e dove la ricchezza è distribuita in modo diseguale. Se nelle sue motivazioni e nelle peculiari condizioni di funzionamento essa è tipicamente capitalistica, è nello stesso tempo manichea nella misura in cui presuppone un atteggiamento da avversario nei confronti del mondo, della Natura, e del nostro ambiente creato. Quando vogliamo riassumere i contenuti della rivoluzione industriale e della rivoluzione scientifica che l’ha resa possibile, parliamo con facilità della “Conquista della Natura da parte dell’Uomo” come se la Natura fosse un nemico da conquistare e sconfiggere per poterlo quindi saccheggiare e derubare a piacimento. Ciò che, in questo contesto, sempre se si dimentica è il significato cruciale della nostra appartenenza alla Natura, per cui se essa viene conquistata noi stessi finiremo per trovarci dalla parte perdente.
Non c’è bisogno di sottolineare che grazie alla “Conquista della Natura da parte dell’Uomo” la razza umana potrebbe un giorno essere cancellata da uno o due vecchi, ciascuno un caso geriatrico e ciascuno in preda a qualche paranoica fantasia ideologica.
Ma ci sono anche molti altri modi meno eclatanti attraverso i quali, mentre accusiamo i potenti, ci rendiamo vittime. L’Uomo Prometeico cerca la propria condanna, tutto sfugge al controllo dell’Apprendista Stregone: dominiamo ogni cosa, ma ogni cosa va distruggendosi. Quale genitore può oggi sperare, con un certo realismo, che i suoi figli potranno vivere un’esistenza pacifica, ordinata e felice? Può darsi che abbiano bisogno di conoscere tecniche di programmazione dei micro-computers: è però assai più probabile che troveranno più utile conoscere le modalità basilari per sopravvivere, e non solo se sceglieranno di vivere nella grande città con la sua disperazione.
Cos’ha dunque S. Francesco da direi? Anzitutto io credo che i manichei del nostro tempo hanno torto tanto quanto quelli dei suo tempo. La Natura non è un nemico da conquistare e depauperare: è piuttosto una Madre che dev’essere amata e curata. Ed inoltre benché io sia la persona meno indicata per affermarlo, penso che S. Francesco ci direbbe che “Donna Povertà” è davvero adorabile.
Come sanno bene i buddisti, la felicità non si trova quando colmiamo tutti i nostri desideri, ma quando li sappiamo limitare insieme a “bisogni” assurdamente esagerati. Essa si trova infatti nello spirito di gratuità, che capisce e si dona anche se in termini economici può valere molto poco. Voglio allora proclamare una saggezza pericolosa, perché un uomo ricco è spinto a vivere in modo scorretto e velenoso ed io stesso, in riferimento ai livelli di vita nel mondo potrei definirmi ricco.
“Che i poveri siano felici del poco che hanno: che apprezzino la bontà, la santità che sono nel pane e nell’acqua!” – come potrei dire ciò io che apprezzo con sentimenti di gratitudine la mia bella bistecca e la mia bottiglia di Barolo o Bourgogne? In verità, penso che si dovrà forse temere il giudizio del Signore in questo campo. Uno degli ironici giudizi di Dio sul mio conto potrebbe essere proprio che, se non trovo più gusto nel pane e nell’acqua, anche la bistecca e il vino perderanno al pari il loro sapore. Guardate d’altronde come spesso i ricchi siano scontenti ed infelici!
In ogni modo, che io sia dannato o meno per questo, resta assolutamente essenziale per la felicità – ed anche per la salvezza che riscopriamo cori un atteggiamento di apprezzamento e gratitudine le cose limitate, familiari, quotidiane, semplici. D’altro canto, è sempre più probabile che troveremo proprio questo.
Vorrei chiudere con un appello alla gratitudine. L’Inghilterra è diventata sempre più ricca durante la mia vita, e particolarmente per ciò che concerne i lavoratori. Eppure la gratitudine e la soddisfazione sembrano scomparire: dovunque le voci che sentiamo esprimono solo indignazione, lamentela, autocommiserazione. E in Italia e nel resto del mondo occidentale non deve dirsi le stesse cose?
Speriamo, lavoriamo e preghiamo in favore di una Rivoluzione Francescana.
Il suo vero nemico è il grande manicheismo dominante nel nostro tempo, e la sua dottrina primaria, la bontà di tutto ciò che esiste: il Cantico delle Creature è il suo inno.
I predicatori di questa via dovrebbero quindi andarci piano con le bistecche e il barolo. Il manicheo medievale fu molto aiutato dal fatto che il clero era generalmente piuttosto grasso. Dal mio punto di vista c’è uno spazio anche per i preti grassi – per i preti moderatamente grassi. Ma abbiamo bisogno soprattutto di preti magri, in particolare per questo compito.
NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 12.1.1982 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.