A più di mezzo secolo dalla Enciclica “Pascendi Dominici Gregis” (8 settembre 1907), non sono mancati pregevoli tentativi intesi a far considerare al di là dell’eresia modernista i problemi reali di cui tutto un movimento degli spiriti ha preso le mosse. Si può dire che oggi sia divenuta convinzione comune il lungimirante giudizio che mons. Bonomelli scriveva nell’anno cruciale 1908 al Cardinale Rampolla, ormai estraneo ad ogni partecipazione attiva alla direzione della Chiesa: «È fuori di dubbio che nel modernismo vi sono errori manifestati e fondamentali, che si vogliono combattere; ma mi pare che, nel combatterli, si trasmodi e con le dottrine riprovevoli si confondano le buone e le tollerabili, e troppo si respinga la libertà onesta degli studiosi e dei dotti»; e ancor più chiaramente in altra lettera: «Il modernismo è un’eresia, ma non in ogni cosa».
Da che cosa fu preparata, alla fine dell’800, la crisi culturale e religiosa modernista? Quale fu e rimane l’anima di vero da salvare nel modernismo? Nella dimensione europea di quel movimento di idee, quali caratteristiche ebbe il modernismo italiano? Per dare a questi come ad altri interrogativi una risposta meno inadeguata e più aderente ai fatti, era ed è doveroso affrontare in maniera sistematica lo studio della storia religiosa dell’Italia contemporanea ed è sulla linea di questa esigenza che si muove l’ottima indagine di Pietro Scoppola, “Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia” (Bologna, Il Mulino, 1962, pp. 404).
L’aspirazione ad una più ricca vita culturale
Questo tentativo di ricostruzione critica di un fenomeno spirituale così complesso ripropone, con ampiezza di documentazione, essenzialmente tre temi di grande rilievo: a) quali aspetti presentava la situazione culturale del mondo cattolico italiano alla fine dell’800 (premessa, sfondo in cui va collocata la crisi modernista); b) se vi fu un legame del modernismo con la superstite tradizione cattolico liberale; c) se vi fu un rapporto di stretta connessione, o addirittura di interdipendenza, tra il modernismo e quella democrazia cristiana che si sviluppò proprio negli anni della incipiente polemica modernista.
L’enciclica “Aeterni Patris”, promuovendo la rinascita del tomismo, risollevò la cultura cattolica dalla deteriore moda dell’eclettismo introdotta perfino negli studi filosofici e teologici. In campo filosofico vi furono personalità di rilievo come il Billot, il Mazzella, il Talamo, ma non pochi alla restaurazione tomista apportarono più buona volontà e zelo partigiano che competenza ed abito scientifico. L’esigenza di ripensare la teologia in una prospettiva storica era sempre più sentita dai cattolici e Leone XIII, aprendo agli studiosi gli archivi vaticani, contribuì a creare in questo campo un’atmosfera di fiducia e di ottimismo: Battifol, Duchense, Lagrange e i nostri G. B. De Rossi e Toniolo onorarono, ciascuno nel proprio campo, gli studi storici e iniziarono pubblicazioni specializzate ad alto livello scientifico. Malgrado questi ed altri segni di promettente ripresa, nel suo insieme e negli studi ecclesiastici in particolare, la situazione culturale dei cattolici e del clero era arretrata. Lo Scoppola ce ne dà una convincente spiegazione. «La questione romana ha monopolizzato l’attenzione dei cattolici, li ha distolti da altri campi. Ciò vale in certa misura per gli intransigenti come per i conciliatoristi. È indubbio però che il prevalere nel campo del cattolicesimo militante italiano dell’atteggiamento intransigente ha ulteriormente accentuato questi inconvenienti. L’atteggiamento intransigente di fronte alla questione romana ha fatto sì che il mondo cattolico si rinchiudesse in se stesso su posizioni di difesa, isolandosi dalla cultura del tempo; ha fatto sì che in certi ambienti cattolici si sviluppasse una sorta di settarismo controrivoluzionario che rendeva ben difficili i rapporti con ogni corrente di cultura, anche non anticlericale, che si legasse al mondo nazionale statale».
La consapevolezza dell’insufficienza della cultura ecclesiastica radica nei novatori la convinzione che lo spirito della libera ricerca debba esser posto alla base del rinnovamento spirituale e religioso del proprio tempo: «Io vorrei – scrive in una lettera il P. Semeria a Umberto Zanotti Bianco – una scienza e una critica che nascessero da un grande e tenace amore di verità e dalla convinzione che la verità è anch’essa divina, quanto la Bontà, e che quindi ogni verità conquistata ci avvicina a Dio come ogni buona azione che noi abbiamo fatta… Là dove l’ardore scientifico manca, la verità diviene una faccenda burocratica, un quid di maggioranze».
Nonostante lo spirito anticattolico dominante nella cultura del tempo, questi uomini avvertono che per influire efficacemente sulla vita spirituale del Paese la via maestra non è quella dell’isolamento, del creare proprie scuole ed istituti, né basta organizzare i cattolici sul piano sociale e politico: i destini del cattolicesimo nella vita italiana sono anzitutto affidati alla sua presenza nella cultura del tempo. Monito che conserva, oggi assai più di ieri, la sua attualità in una situazione storica in cui i cattolici democratici svolgono un ruolo di primaria importanza nella vita politica e sociale del paese.
Complessità del moto riformatore
Pure fu proprio negli stessi anni in cui nuove tendenze si delineano nella cultura cattolica e danno luogo a vivaci contrasti, che il campo dell’azione politico-sociale dei cattolici fu pervaso da fermenti rinnovatori. Nel seno dell’Opera dei Congressi sorge la Democrazia Cristiana, che tende a creare le condizioni per una rinnovata presenza della Chiesa nella società moderna, fondata sull’appoggio delle masse popolari. Discepolo di Padre Billot e di Antonio Labriola, il leader della Democrazia Cristiana italiana, don Romolo Murri, congiunse una convinta adesione al tomismo con una conoscenza approfondita del materialismo storico. L’iniziale guelfismo sociale di Murri, uomo colto ma frettoloso, spirito più ardente che illuminato, intese inquadrare il compito della Democrazia cristiana in una più vasta opera di rinnovamento religioso. Numerosi furono i punti di contatto fra gli esponenti dei due movimenti, quello sociale e quello religioso, sotto forma di collaborazione alle stesse riviste e amicizie personali. Nel prete marchigiano gli orientamenti culturali e spirituali risentivano, purtroppo, dei contraccolpi delle vicende dell’azione ed ebbero, pertanto, sempre «qualcosa che rispecchia la sua abitudine di polemista e di uomo di azione più che di studioso».
L’atteggiamento di fronte al modernismo degli ultimi vescovi conciliatoristi – lo Scalabrini (morto però nel 1905), il Bonomelli, il Capecelatro ed altri – fu di lucida prudenza e, quasi, di benevola attesa, ma sostanzialmente lontano dalla problematica modernista. Ben diversa la posizione di quel gruppo di giovani e colti cattolici dell’aristocrazia lombarda (Alfieri, Casati, Gallarati Scotti, Iacini) che nel 1907 dette vita alla rivista di cultura “Rinnovamento”. La rivista milanese, coraggiosa senza iattanza, «rivista laica, non confessionale», programmaticamente impegnata a «lavorare ad una generale innovazione della vita nel Cristianesimo», fu cosa seria ed ebbe la collaborazione degli esponenti più noti del movimento riformatore e dei nomi più significativi della cultura italiana del primo ‘900. Con il Rinnovamento il movimento culturale cattolico si arricchì del collegamento con le aspirazioni e i maestri del cattolicesimo risorgimentale – Capponi, Lambruschini, Rosmini, Gioberti – e si inserì con autorevolezza e senso di misura nel dibattito culturale in corso.
È indubbio che nel risveglio di vita culturale e religioso promosso dal movimento riformatore una parte determinante l’ebbe l’influsso della cultura d’oltralpe; ma la reazione del mondo cattolico italiano rispecchiò ed accentuò i caratteri italiani dei comuni problemi. Se alle origini del movimento riformatore, vi fu l’aspirazione ad una più ricca vita intellettuale, legati a questa aspirazione erano i problemi sorti – e non solo in Italia, s’intende – dall’incontro dei cattolici con la democrazia, assunta qui nel suo significato più ampio e comprensivo; problemi di ordine culturale e psicologico non meno gravi di quelli posti dallo sviluppo della scienza moderna e della critica storica: si trattava da un lato di determinare da un punto di vista religioso e cristiano il valore di quel moto di ascesa delle classi popolari che trovava la sua espressione più significativa nella crescente affermazione del socialismo; dall’altro si trattava di ripensare il tema dei rapporti fra autorità e libertà, in un nuovo clima storico che chiamava non più solo le ristrette élites del liberalismo ottocentesco, ma un numero sempre più ampio di cittadini alla responsabilità della partecipazione della vita pubblica.
Fu una vera disgrazia che nel moto riformatore le correnti più significative furono ben presto sopravvanzate da quelle estremiste, più facilmente tentate di esteriorità rumorosa, di insofferenza verso l’autorità ecclesiastica, di avidità del nuovo senza un sufficiente sforzo di discernimento critico. Il movimento nel suo complesso si fa più torbido man mano che dilaga. D’altra parte, la spinta alla radicalizzazione delle correnti novatrici fu esasperata anche dalla violenza intollerante della polemica antimodernista, incapace di separare il loglio dal grano in quel vasto ribollimento di errori e verità, parimenti fondamentali. Il 16 settembre 1907 comparve l’Enciclica “Pascendi”.
L’Enciclica fu un «portrair» e una «caricatura» del modernismo? In realtà l’Enciclica per il suo carattere di documento dottrinale non si preoccupò tanto di descrivere il fenomeno nella sua multilatere fisionomia, quanto di delineare quegli orientamenti di pensiero incompatibili con l’ortodossia.
Murri, in piena sincerità, fu con Pio X perché la sua consapevolezza filosofica lo immunizzava, malgrado tutto, dalla illusione propria dei modernisti di una scienza storica pienamente autosufficiente e capace di spiegare da sé sola il valore ed il significato ultimo di un fatto storico come il Cristianesimo. La rottura del Murri con la Chiesa (non definitiva, come è risaputo) fu disciplinare nella sostanza; le deviazioni dottrinali verranno dopo, come conseguenza esasperata della ribellione. Il Rinnovamento si attestò su posizioni di rispettosa resistenza, con la solita dignità e finezza.
L’estremismo ribellistico e i «novatori ortodossi»
Si pone allora in forte evidenza, anche se completamente isolata rispetto alle altre correnti del moto innovatore, la posizione del Bonaiuti. Un giudice non sospetto, il Tyrrel, osservò, a ragione, che il Bonaiuti poneva a fulcro del suo pragmatismo religioso e del suo messianesimo sociale «un punto di vista così terreno da rendere l’intera questione banale e volgare». La fisionomia immanentistica delle Lettere di un prete modernista è evidente. In quel libro si giustappone l’interpretazione pragmatista del fatto religioso alla concezione escatologica del Cristianesimo del Loisy e si afferma l’identità del messaggio cristiano col messianismo socialista. La gravità delle confusioni seminate e dei pericoli corsi fu eccezionale; la reazione antimodernista travolse gli errori bene individuati, ma gettò il sospetto su tutto un complesso di ricerche e testimonianze generose di spiriti profondamente religiosi. «Ci dogliamo assai – osò scrivere in una pastorale, nel marzo 1908, il Cardinal Ferrari, arcivescovo di Milano – che taluni, anche pubblicamente, sostenendo la loro parte contro il modernismo, giungano a tali eccessi da vedere il modernismo quasi dappertutto, o quanto meno da gettare sospetti di modernismo sopra delle persone che ne sono ben lontane».
I «novatori ortodossi», per parte loro, affrontarono la prova, confidando nella fecondità spirituale del sacrificio momentaneo di talune convinzioni. La Chiesa fu amata con più intensa dedizione e le tentazioni ribellistiche tacquero nella serena speranza di aver servito il progresso della coscienza cattolica, gettando a piene mani semi che avrebbero trovato in futuro il loro naturale, organico ordinato sviluppo. I «novatori ortodossi» avevano per sé l’avvenire. La loro esperienza conserva ancor oggi per noi un’alta carica di suggestione.
Il Cittadino, 18 novembre 1962.