Nel 1981 nacque, in entrambi gli Stati tedeschi, un movimento pacifista per protestare contro il riarmo missilistico da parte americana: i tedeschi dimostravano per la pace a centinaia di migliaia, uniti in catene umane di parecchi chilometri.
Nello stesso anno si costituivano in molte comunità cristiane all’Ovest e all’Est i gruppi di pace. Il movimento pacifista invitava a servire la pace senza usare la violenza, richiamandosi al Sermone della montagna, ed erano in molti ad imporsi di vivere “senza riarmo”. Importanti quotidiani tedesco-federali riproducevano il testo del Sermone della montagna in seconda pagina, mentre i leader politici tentavano di limitare la rilevanza di questo discorso di Gesù alla vita privata, per poter continuare a fare Real politik alla tedesca.
A quel tempo nacque nella DDR un movimento pacifista autonomo, che scelse come simbolo la statua russa dinanzi al palazzo delle Nazioni Unite con il motto del profeta Michea: “Da spade ad aratri”. Esso fu proibito, ma non estinto. Fu accolto in molte chiese evangeliche che aprivano le loro porte ai raduni di questi gruppi della pace: poiché erano le Chiese ad agire così, lo Stato non vi si oppose. Perciò, spettava alle Chiese, nello Stato ateista, trasformarsi in zone franche per liberi raduni democratici. Il grande raduno dell’aprile 1989 a Dresda per “Giustizia – Pace – Conservazione del Creato” fu un segnale, che fu percepito anche ufficialmente.
A Lipsia, nella chiesa di San Nicola, un parroco aveva invitato i credenti fin dal 1981 ogni lunedì sera a una preghiera per la pace. Per otto anni si trattò di un piccolo raduno ignorato dai più; poi, nell’autunno del 1989, la scintilla si sprigionò. Venivano a migliaia a pregare per la pace nelle chiese di Lipsia. Durante ogni Messa fu recitato il Sermone della montagna. L’impegno comune era: “Beati sono i pacifici”.
In seguito, i dimostranti poterono formare i loro cortei con una nuova coscienza e un riconquistato rispetto di se stessi: “Siamo noi il popolo” divenne il loro motto. Dopo che la gente, per sette settimane successive, aveva dimostrato con questo grido, cadde – come una volta Gerico – il 9 novembre 1989 il muro di Berlino.
Accadde esattamente dopo quarant’anni di traversata del deserto del socialismo stalinista. La stessa parte, sostenuta dalla Chiesa cattolica per la libertà del popolo polacco, fu sostenuta dai cristiani evangelici per la libertà del popolo della DDR.
Purtroppo ora questo ricordo della prima “rivoluzione non violenta” in Germania è diventato, nel frattempo, un “ricordo pericoloso”. Altre forze, essendosi arrogate la liberazione, ora si arrogano anche il merito di tutto questo.
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La caduta non violenta della dittatura socialista nella Germania Orientale era un miracolo ai nostri occhi per parecchi aspetti:
1. era la prima rivoluzione democratica riuscita dei tedeschi;
2. essa ebbe inizio nelle preghiere per la pace della Chiesa evangelica di Lipsia;
3. dopo dodici anni di dittatura hitleriana e quaranta di dittatura socialista fu un popolo maturo, consapevole della propria responsabilità e maggiorenne quello che si sollevò ed affermò il proprio potere al grido: “Siamo noi il popolo”.
Nessuno si era aspettato questo risveglio democratico: nessuno l’aveva predetto, soltanto pochi avevano creduto il popolo tedesco capace di qualche cosa del genere. Nei mesi dì ottobre e novembre 1989 la storia ha battuto sul tempo in Germania e negli altri paesi dell’Est così inaspettatamente e improvvisamente ogni aspettativa umana, che in fondo non riusciamo ancora a comprendere cosa ci sia accaduto. Il mondo europeo è mutato, ora preme comprenderlo.
Cos’è successo e come è successo? Iniziamo dalle cause esterne che indussero al risveglio democratico. Sul piano economico i Paesi si mossero sino dal 1973. La crisi petrolifera, dando origine allo sviluppo di nuove tecnologie nelle società industriali dell’Occidente, provocò la terza rivoluzione industriale. Alla meccanizzazione della produzione seguì la sua computerizzazione. Di conseguenza i prodotti industriali socialisti si dimostrarono sempre meno adatti ad affermarsi sul mercato mondiale.
Il crollo dell’economia nei Paesi socialisti dell’Europa orientale rese evidenti anche i disastri ecologici arrecati da quelle industrie antiquate. A Lipsia o a Katowice, nella Foresta Boema o nella Baia di Danzica, dovunque si guardi, la natura sta morendo. I danni sono immensi e irreparabili. E dove muore la foresta, muore alla fine anche l’uomo.
Il crollo dell’economia socialista rendeva anche evidente che i governi dell’Est avevano vissuto per quarant’anni di quanto era stato costruito prima della guerra, sciupando tutto irrimediabilmente, poiché nessuno se ne sentiva responsabile.
Il socialismo stalinista ha impiegato quarant’anni per distruggere durevolmente non soltanto le industrie, ma anche le fiorenti agricolture dell’Europa orientale. Quei Paesi si ridussero al livello di Paesi del Terzo Mondo. La gente faceva la fame perché mal approvvigionata di viveri.
Nel contempo nacquero in Occidente il Mercato Comune e la Comunità Europea. Le quote di crescita dell’industria tedesco-federale come degli altri Stati dell’Europa occidentale erano in continuo aumento. Benché non calasse il numero dei disoccupati, continuava ad aumentare il numero degli occupati ed il fabbisogno di forze lavoratrici qualificate. Credo sia stata la previsione della Comunità Economica Europea per il 1992 a seminare il panico nei Paesi dell’Europa orientale. La bancarotta economica del socialismo stalinista è stata il push-factor l’ascesa economica della Comunità Europea il pull factor.
La prima a scuotersi fu la Polonia con il conflitto tra il partito e il popolo, i cui portavoce e organizzatori erano Solidarnosc e la Chiesa cattolica. Non appena le truppe sovietiche cessarono di appoggiare il partito, esonerandolo dalla necessità di guardare a Mosca, il popolo polacco prese il potere. Può darsi che la presenza di un papa polacco a Roma abbia inciso indirettamente.
Spetta indubbiamente all’Ungheria essere nominata come seconda. Quando, a causa dell’incombente bancarotta socialista e del risucchio dell’economia fiorente dell’Occidente, crebbe sempre più il fenomeno dell’emigrazione dalla DDR nella Germania occidentale e un numero sempre maggiore di persone prese a rifugiarsi nelle ambasciate tedesco-occidentali a Budapest, Praga e Varsavia, l’Ungheria fu il primo fra i paesi socialisti a permettere ai fuggiaschi l’esodo verso l’Occidente ad abbattere, il 2 maggio 1989, la rete di recinzione al confine con l’Austria.
L’11 settembre, l’Ungheria apri i suoi confini all’Ovest. Ebbe inizio la fuga in massa di decine di migliaia di persone dalla DDR attraverso l’Ungheria e l’Austria nella Germania occidentale. Dopodiché non vi fu più freno che li trattenesse. Anche attraverso Praga e la CSSR decine di migliaia di persone giunsero ogni giorno in Occidente.
Il fronte unitario dei paesi socialisti si era infranto e i russi lasciavano che accadesse. Essi non erano più disposti ad appoggiare con le armi un qualunque governo comunista contro il proprio popolo, come era successo nel 1953 a Berlino, nel 1956 in Ungheria e nel 1968 a Praga.
Era la fine per i capi comunisti. Essi sapevano che senza l’Armata Rossa non sarebbero stati più in grado di mantenere il potere. Nella DDR l’ironia della sorte voleva che la loro fine coincidesse con il quarantesimo anniversario della Repubblica Democratica da festeggiarsi il 6, 7 e 8 ottobre 1989.
Il 18 ottobre l’anziano capo di partito, il vecchio Erich Honecker, in carica da diciotto anni, fu sostituito mediante una rivoluzione di palazzo con Egon Krenz, il giovane capo della “Gioventù Tedesca” (FDJ). Era già troppo tardi e Krenz non era assolutamente Gorbaciov.
Il 23 ottobre si radunarono a Lipsia, dopo le preghiere per la pace nelle chiese evangeliche, trecentomila persone per una dimostrazione non violenta lungo il viale nel centro di Lipsia (Leipziger Ringstrasse) al grido: “Siamo noi il popolo”. Erano stati schierati i carri armati dell’esercito e i gruppi di picchiatori dei custodi della sicurezza dello Stato. Gli ospedali furono approntati per accogliere i feriti negli scontri per le strade. Si era alle soglie di una guerra civile.
Per opera di un gruppo di cittadini e parroci guidati dal maestro concertista Masur, i dimostranti si sentirono in dovere di rinunciare alla violenza. Anche in seguito all’intervento di alcuni ufficiali russi, l’esercito e i custodi della sicurezza non intervennero – come, invece, accadde più tardi in Romania – ma furono ritirati. Così il dado era tratto. Il 4 novembre più di un milione di persone dimostrò a Berlino per ottenere riforme democratiche. Il 7 novembre si dimise il governo. Il 9 novembre cadde il muro che per ventotto anni aveva diviso Berlino. Piuttosto casualmente, come per sbaglio, un membro dell’Ufficio Politico del Partito (Politbüro) annunciò in un’intervista televisiva l’abolizione dei controlli al confine tra le due Berlino.
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Quali possibilità per un’Europa nuova si delineano? Inizio dalle possibilità ed esperienze tedesche: non c’è riunificazione, non nascerà un altro Deutsche Reich. Ci sarà una federazione delle regioni tedesche: unità nella molteplicità.
Il sorprendente crollo del socialismo reale nell’Europa orientale non consisteva solo nel crollo del socialismo, bensì nel crollo del centralismo politico e ideologico con la sua sorveglianza totale sulla popolazione e la sua immobile, irresponsabile economia pianificata e comandata. Al suo posto dovrebbe installarsi una democrazia federalista a struttura comunicativa decentralizzata, aperta a molte iniziative regionali, locali e private Così, neppure Berlino dovrà diventare di nuovo Reichs-hauptstadt, capitale dell’impero tedesco. Le regioni tedesche unificate potranno formare uno Stato commerciale forte e democratico, mai però una potenza militarista, che si baserebbe sull'”autarchia economica”.
Lo stesso vale anche per la Comunità Europea: la molteplicità delle culture europee e le peculiarità nazionali, il rispetto per se stessi escludono ogni centralismo – anche a Bruxelles. Le confederazioni dipendono dalla reciproca armonizzazione degli interessi e dal formarsi di una volontà comune.
Non sarebbe pensabile diversamente neppure un’unificazione di Paesi dell’Ovest e dell’Est d’Europa La repubblica federale decentralizzata sembra essere la forma migliore per realizzare nuove possibilità per l’Europa.
Il centralismo, però, non esiste soltanto come struttura esterna, ma anche come mentalità interna. Con l’eliminazione del centralismo politico non si superano di rettamente lo spirito di sudditanza e la mentalità previdenziale nell’animo dei singoli cittadini. Dopo quarant’anni di assistenza paternalistica da parte del partito-Stato, molti si ritrovano privi del proprio spirito di iniziativa. Le dittature assistenziali generano spesso uno stato letargico.
Perciò, soltanto superando i sotterfugi più o meno gravi di fronte alla libertà e annullando questo spirito di sudditanza, potremo cogliere le nuove prospettive per l’Europa. Abbiamo bisogno innanzitutto di una nuova cultura della coscienza: poi potremo pensare a Stato, Chiesa, Popolo. “Bisogna obbedire più a Dio che all’uomo”.
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Cosa ci si aspetta dalle Chiese? Quali sono i compiti che i cristiani dovranno affrontare nella nuova Europa?
Con lo sfacelo del socialismo reale, di questo dio, che tale non era, anche altre alternative socialiste alla società di mercato capitalista sono cadute in discredito. D’altro lato, anche il sistema capitalista comporta gravi problemi nella gestione dell’organismo statale. Ne può nascere, infatti, una crescente disuguaglianza sociale, che rende più difficile la democrazia e, alla lunga, impossibile la molteplicità culturale. Il libero mercato chiede e promuove l’iniziativa individuale, ma non si cura di coloro che devono assumersi i costi.
Ritengo che spetti alle grandi Chiese farsi pubblicamente carico della critica del capitalismo a nome di queste vittime del sistema dell’economia di mercato. La dottrina sociale dei cattolici racchiude, dall’enciclica Rerum Novarum del 1891 fino alla Laborem Exercens del 1981 e alla Centesimus Annus del 1991, proprio quel potenziale dirompente di cui questa critica, che è indispensabile, necessita. Non inferiore è la forza dei movimenti religioso-sociali nella cristianità evangelica, la diaconia sociale e politica. “La libera concorrenza ha inferto il colpo mortale a se stessa: l’economia del mercato libero è stata rilevata dalla dittatura economica”. Questo giudizio non è di Karl Marx, ma di Pio XI (Quadragesimo Anno 1931, n. 109).
Con lo sfacelo del socialismo reale nel vecchio blocco orientale si è frantumato anche il cosiddetto «Secondo Mondo”. Ora esistono soltanto il Primo e il Terzo Mondo e i Paesi del Terzo devono ormai rassegnarsi a perdere l’alternativa del Secondo al Primo, e a non poter più approfittare del conflitto tra Oriente e Occidente. Nel Terzo Mondo cresce comprensibilmente il timore di subire danni per questo continuo rafforzarsi ed ingrandirsi dell’Europa. Il Mercato Comune è un vantaggio per i Paesi che vi rientrano, ma non per gli esclusi.
Le grandi Chiese sono politicamente classificate come nongovernmental universal organizations. In queste il sentimento comunitario cattolico ed ecumenico per i fratelli e sorelle del Terzo Mondo è difatti talmente accresciuto, che per molti di noi la solidarietà ecumenica sta al di sopra della lealtà nazionale.
Alle Chiese dell’Europa nuova si imporrà presto perciò, il compito di farsi avvocato difensore del popolo impoverito del Terzo Mondo e di far in modo che la Comunità Europea non viva a carico, ma a favore di questo. Senza giustizia fra il Primo e il Terzo Mondo non ci sarà pace né tra gli uomini, né tra questi ultimi e l’ambiente.
Gli aiuti ecclesiastici allo sviluppo sono risultati particolarmente efficaci poiché le Chiese sono presenti sul posto e all’interno degli stessi popoli. Anche in questo caso la dottrina sociale cristiana è stata al passo coi tempi, dall’enciclica Populorum Progressio del 1967 fino all’enciclica Sollicitudo Rei Socialis del 1987, nel processo conciliare dal concilio ecumenico di Vancouver del 1983 fino a quello di Seoul nel 1990 per “Giustizia, Pace e Conservazione del Creato”.
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Sono in grado le Chiese cristiane di svolgere il loro compito nell’Europa nuova?
Oggi, prima di porre questa domanda, dobbiamo tornare alla storia. Le tre grandi Chiese – la Chiesa ortodossa, quella romano-cattolica e le Chiese protestanti forgiarono l’Europa, ognuna a suo tempo e a suo modo, spiritualmente e politicamente.
a) La storia cristiana dell’Europa prende avvio dallo sviluppo della dottrina imperiale da parte dell’imperatore Costantino, nel tardo Impero romano. Questa ideologia culminava nella enunciazione della funzione dell’imperatore come monarca nel senso letterale della parola, cioè nel suo essere contemporaneamente re e sacerdote. Il monoteismo cristiano contribuì potentemente a rafforzare e precisare l’idea che, così come esisteva un solo Dio in cielo, vi doveva essere un solo monarca sulla terra. Il motto della ideologia imperiale divenne: “Un Dio, un Impero, una Chiesa”, per cui si può legittimamente parlare di una teologia imperiale.
La religione cristiana, a partire dal 312 d.C., venne ammessa nell’Impero e per opera dell’imperatore Teodosio, nel 380, fu dichiarata religione di Stato. Pur con alterne vicende questa ideologia imperiale di Stato perdurò a Bisanzio fino alla sua caduta nel 1453. In seguito essa si spostò a Mosca, dove l’autocrazia dello zar dava riparo all’Ortodossia.
Ortodossia, autocrazia e nazionalità costituirono il dogma di Stato panslavista fino al 1917. Le Chiese ortodosse in Russia, Bulgaria e Romania ancora oggi fanno fatica a staccarsi da questa idea di Regno cristiano.
b) Con il decreto imperiale del 380 si rendeva necessario un fondamento dottrinale della autorità politica che la Chiesa di Roma in particolar modo rivendicava e in parte già effettivamente esercitava.
Il periodo del pontificato di Leone I (440-461) può essere considerato il periodo di gestazione delle idee che animavano la funzione di istituto politico esercitata dalla Chiesa. Queste idee si riassumevano – in modo coerente con la concezione teocentrica – nella elevazione del pontefice alla posizione di monarca. La tesi di papa Leone culminava con la giustificazione della funzione monarchica del pontefice: questi era da considerare il successore legittimo dei poteri e delle funzioni conferite da Gesù Cristo a san Pietro. Secondo papa Leone il pontefice continuava ad esercitare quegli stessi poteri che Gesù aveva originariamente conferito a san Pietro. I conflitti medioevali tra imperatore e papa portarono ad una distinzione tra potere spirituale e poteri politico.
Queste idee guidarono l’Occidente cristiano in seguito allo scisma ecclesiastico del 1054, mentre fu l’idea bizantina dello Stato a dare l’impronta all’Oriente cristiano fino al 1917.
Il conflitto tra Oriente e Occidente nel dopoguerra coincideva in larga misura con lo scisma della cristianità in Chiesa orientale e occidentale, con le loro concezioni di Stato così diverse. Lo scisma ecclesiastico – Roma contro Bisanzio e Mosca – lasciò tracce nella cultura e nella politica molto più profonde di quanto pensiamo. Se vogliamo che l’Europa orientale si unisca quella occidentale, questa loro differenza andrà assorbita e superata.
c) Sarebbe stata la Riforma occidentale a coinvolgere la cristianità nel successivo grande conflitto. Ne conseguì lo scisma delle Chiese occidentali e da quest’ultimo derivarono le guerre di religione del XVII e XVIII secolo, dalle quali scaturirono la secolarizzazione della cultura e lo Stato costituzionale confessionalmente tollerante.
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L’Europa ha un passato al plurale, non avrà futuro, però, che al singolare, ossia in una nuova comunità, poiché soltanto nell’ambito comune l’Europa potrà diventare il soggetto della propria storia. Per arrivare a questo punto sembrano imporsi due compiti prioritari:
1. la sincronizzazione dei diversi passati attuali;
2. la comunicazione culturale e il superamento delle crisi d’identità che ne possono risultare.
Dal punto di vista della storia della culture, infatti, l’Europa non vive soltanto in spazi suddivisi geograficamente per nazionalità, ma anche in periodi diversi della storia. Lo dimostrano chiaramente le riforme e scissioni della cristianità: coesistono forme di vita premedioevali e medioevali, preriformiste e riformiste, prerivoluzionarie e rivoluzionarie. Individui che vivono in periodi diversi, dato il diverso evolversi delle loro tradizioni, come potranno scoprire la comunità di una sola attualità? Questo è appunto il compito della sincronizzazione dei passati europei.
Dall’evoluzione separata della Chiesa in Oriente e in Occidente, delle Chiese di Stato e delle Chiese indipendenti, deriva il fatto che, dovunque un documento ecumenico cerchi di risolvere queste separazioni, esso s’imbatte nelle crisi d’identità che lo stesso suo intervento suscita in ortodossi, cattolici, protestanti e altri. Il timore di perdere un’identità propria può essere superato soltanto attraverso la futura apertura ad un’identità cristiana più ampia e migliore. Il movimento ecumenico vive della visione di una sola, santa, comune Chiesa cristiana.
S’imbatterà in simili crisi e paure chiunque si proponga di realizzare contemporaneamente il diritto alla comunicazione culturale e quello all’identità delle culture.
Considerando il rapporto tra religione e cultura all’insegna della sincronizzazione e comunicazione, non si trovano soltanto diversità, ma anche certune conquiste e sviluppi ormai acquisiti. Non si può riuscire a sincronizzare le diverse tradizioni se non facendole entrare in questa evoluzione e traducendole in questa nuova situazione. Per poter delineare prospettive e direzioni future è inevitabile uno sguardo al passato.
a. Le guerre di religione provocate dallo scisma riformista – controriformista della Chiesa potevano essere sedate soltanto per opera della “terza forza” dell’Umanesimo e dell’Illuminismo. Da questa forza nacquero le prime formulazioni dei diritti umani. Il diritto alla libertà di religione, il diritto alla libertà di coscienza e i diritti delle minoranze non possono più essere aboliti. Le Chiese devono disporsi verso l'”uomo maggiorenne” il quale crede non perché spinto da un’autorità, ma dalla propria coscienza. Esse devono disporsi verso l’uomo responsabile il quale decide le questioni etiche secondo la propria coscienza. Una nuova cultura europea non potrà concedere alle Chiese altro che diritti che siano in accordo con quelli fondamentali dell’individuo.
L'”Europa” non esiste se non sulla base delle dichiarazioni dei diritti dell’uomo. Le Chiese europee devono accettare di esistere nel quadro di tali diritti.
b. La scissione dei cristiani orientali da quelli occidentali avvenne nell’ambito della storia europea. Purtroppo è una frattura troppo spesso accettata come irrimediabile. Ma l’Europa non può affatto essere unificata secondo l’idea dell'”Occidente cristiano”, poiché in tal caso l'”Oriente cristiano” ne rimarrebbe escluso.
Le Chiese ortodosse sono membri del Consiglio Ecumenico delle Chiese da molti anni: le Chiese cristiane dell’Occidente non possono accontentarsi di alcuna concezione dell’Europa, sia essa politica o culturale, che escluda le Chiese dell’Europa meridionale e orientale e i loro popoli perché ortodossi. La nuova cultura dell’Europa andrà edificata con tale apertura da invitare ad entrarvi anche i popoli e le culture evolutesi all’insegna della Chiesa orientale.
Purtroppo, fino dal primo Medioevo, l’Europa venne troppo spesso concepita e unificata soltanto all’insegna della Chiesa occidentale. Oggi non è più possibile. Il Consiglio Ecumenico e la Conferenza Europea delle Chiese dovranno garantire che la tradizione delle Chiese orientali trovi posto nell’Europa del futuro.
c. Alle spalle di questa scissione in Chiesa orientale e occidentale si delinea perfino nell’Europa attuale, almeno sui suoi margini, un altro conflitto religioso. La grande alternativa al Cristianesimo è data infatti dall’Islam, rappresentato nell’Europa odierna dalla Turchia, da alcuni dei popoli balcanici e da molti Gastarbeiter (lavoratori stranieri).
Quanto spesso, sin dalle crociate, dalle guerre contro i mori e i turchi, è stata la lotta contro l’Islam a unificare l’Europa! In una futura Europa anche quest’ultimo conflitto andrà comunque risolto: l’Europa non potrà essere unificata dalle sole idee cristiane.
L’Islam costituisce l’altra grande “religione escatologica” accanto al Cristianesimo. Come potrà essere superata la concorrenza, in passato spesso micidiale, tra le due religioni? Esistono comunanze tra Cristianesimo e Islam?
d. E chi, percependo la presenza dell’Islam nell’Europa attuale, pretendesse che fosse quella nuova Europa a risolvere pure questo storico conflitto dovrebbe, inesorabilmente, fare un altro passo: riconoscere nell’Ebraismo dell’antichità la comune radice di Cristianesimo e Islam. Entrambi trassero le visioni e le forze delle proprie speranze dagli scritti biblici. Israele-Chiesa-Islam colmarono i popoli, ognuno a modo proprio, di spirito messianico. In quale altro luogo potrà essere perciò rintracciata la più significativa radice religiosa dell’Europa, se non nella tradizione e nell’esistenza dell’Ebraismo?
L’Europa moderna non è concepibile senza gli ebrei e la loro storia. Ciò significa per le Chiese cristiane in Europa che, sia nei propri sforzi ecumenici, sia nei loro scambi religiosi con l’Islam, dovranno tornare ogni volta a puntare sul dialogo con l’Ebraismo. Per una nuova cultura europea ciò significa che essa dovrà considerare la tradizione peculiare e l’esistenza particolare dell’Ebraismo una radice e una forza persistente dello spirito europeo. L’Europa abbisogna di una neo-formazione del Cristianesimo.
Giovanni Paolo II ha annunciato una grande campagna per la neo-evangelizzazione dell’Europa. Sarebbe un’idea cattiva se con ciò intendesse la “ricattolicizzazione” dell’Europa. Il compito cristiano delle Chiese nell’Europa nuova è ecumemico: nuove liti confessionali provocherebbero una nuova ondata di secolarizzazione e ateismo come trecento anni fa.
Se l’Europa nuova assumerà forme federaliste e democratiche, una Chiesa centralista non potrà essere di esempio, né contribuire in nulla alla convivenza nuova.
Se l’Europa nuova assumerà forme umanitario – democratiche – e non vi è alternativa -, Chiese senza strutture tolleranti verso la democrazia le sbarrerebbero soltanto la strada. Così come le dittature assistenziali religiose interdirebbero l’uomo, cullandolo nelle speranze in sussidi e in una previdenza deresponsabilizzante.
Se l’Europa nuova vorrà scoprire la propria responsabilità nei confronti del genere umano e porre i suoi rapporti con i Paesi del Terzo Mondo su una base più giusta, Chiese protestanti ristrette alla propria provincia o nazione non saranno di alcun aiuto. La “religione della libertà”, ossia quella protestante, dovrà essere traslata nell’evo umanitario, se la si vuole rilevante e valida non soltanto per un paio di popoli e classi sociali elevate. Il protestantesimo dovrà superare il suo intimo fondamentalismo e farsi ecumenicamente aperto e rivolto al mondo. Esso dovrà superare il proprio individualismo e antropocentrismo se vuole davvero percepire i nuovi orizzonti umanitari ed ecologici.
Tutte e tre le tradizioni cristiane che forgiarono l’Europa, ognuna a modo proprio, dovranno attingere la forza del rinnovamento dalla loro origine cristiana comune. Questa non è l’ora del trionfo sul “comunismo senza Dio”. Questa è l’ora di evadere dalle ristrettezze della propria confessione e di tornare nella sconfinatezza comune.
NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 9.12.1991 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.
Jürgen Moltmann, nato ad Amburgo nel 1926, teologo evangelico, docente di teologia presso l’Università di Tubinga, è autore di opere universalmente note, tradotte in molte lingue. Pratica una teologia dialogica, che pensa in modo ecumenico tutti i grandi temi della tradizione cristiana.