Il tema di questa conversazione ci dovrebbe toccare dal vivo, perché ci immerge in qualcosa che respiriamo, cioè la cultura del nostro tempo. Quando si è cominciato a parlare delle due culture, la cultura umanistica e la cultura scientifica, in quel libretto dello Snoope che ha avuto molto successo, io ho riflettuto che le vere due culture, oggi, non sono la cultura umanistica e la cultura scientifica, bensì la cultura iconico-orale delle immagini, delle sensazioni, dei messaggi audiovisivi, che si rivolgono al sensoriale, all’emotivo, al viscerale che è in noi, e la cultura rigorosa formale e formalizzata, corticalizzata, della scienza e della scientificità, la quale investe oggi anche le scienze umane e le discipline umanistiche.
Quindi, non c’è tanto contrasto tra la scientificità e l’umanesimo, quanto fra un tipo di linguaggio – che i nostri bambini pare ascoltino in media più di quattro o cinque ore al giorno, stando davanti al televisore, e che tutti noi in qualche modo ascoltiamo – linguaggio che io chiamo iconico-orale (cioè dell’immagine e del suono), e il linguaggio della riflessione, il linguaggio della preparazione rigorosa, delle procedure esatte. Nel mio Paradosso di Icaro dicevo che il grande problema dell’educazione è quello dell’anticipazione frustrata: i nostri giovani, i nostri ragazzi sono subito immersi nella realtà, nella presentazione spettacolare di quello che avviene ogni giorno, del più terribile o magari del più solenne. Essi entrano in un mondo che è di dimensioni planetarie, quello della informazione generale, e nei problemi della società del nostro tempo, nelle immagini di questi problemi, di questi eventi spesso così spaventosi, e tutto questo certamente può influire sulla psicologia del bambino. Nella mia infanzia, di cose di questo genere, fossero anche successe, se ne sentiva solo parlare; ma altro è il vedere immediatamente, il percepire immediatamente.
La situazione informativa in cui noi ci troviamo é una situazione di immediatezza: viviamo dentro ad un mondo di notizie, di messaggi, di suggestioni, di persuasioni occulte, per cui ci formiamo tutto un nostro modo di pensare e di sentire che, specialmente nei giovani, è anticipato rispetto all’esperienza che ciascuno dovrà fare della realtà. Si anticipa con l’immagine o comunque con i messaggi della cultura iconico-orale, una partecipazione che in fondo è fittizia, spettacolosa, irreale. Noi ci abituiamo a vedere il fungo atomico in una fotografia o nella pellicola di un film, ma sappiamo benissimo che se fossimo lì, in presenza di questo spaventoso fenomeno, la reazione sarebbe diversa.
Le nuove generazioni entrano nello spettacolo degli eventi e dei problemi molto prima di quanto esigerebbe la riflessione su questi fatti per darne un giudizio corretto. Ecco l’anticipazione frustrata, per cui si vedono nei giovani profondi cambiamenti in confronto alle precedenti generazioni. Profondi cambiamenti perché, per un verso, sono buttati nella corrente della vita, della società, per l’altro verso, perché il tipo di società in cui viviamo è sempre più fondata nelle istituzioni del lavoro, nelle istituzioni operative – quelle efficaci ed efficienti -, è sempre più fondata sulla scientificità. Il lavoro oggi non si inventa, si esegue in base a schemi, a progetti, a calcoli, per cui si acquisisce veramente un patrimonio scientifico, che esige luoghi, tempi di preparazione; ecco lo scarto tra la cultura audiovisiva iconico-orale e la cultura scientifica. Scarto che determina quello che io chiamo il “paradosso di Icaro”: Icaro voleva volare, con ali sostenute da giunture di cera verso il sole, verso l’alto; il giovane oggi si sente portato ad entrare ed operare nella società e nella corrente della vita, ha esigenze precise, ma ha ali tenute da giunture di cera, perché non ha la preparazione riflessiva, scientifica, critica, che consenta al suo operare di essere efficace e soprattutto non frustrato, né dannoso per sé e per gli altri. Il paradosso di Icaro è quindi il paradosso dell’anticipazione frustrata.
Possiamo fare questa premessa parlando di quella che qui chiamo la cultura informativa. Stanno avvenendo cambiamenti profondi anche nell’ambito dell’informazione; io direi che la parola stessa “informazione” si presta all’equivoco. In base a quanto ho detto fino ad ora, c’è una informazione iconico-orale, di carattere sensoriale e viscerale, e c’è una informazione che sorge da quella che è stata chiamata la “rivoluzione informativa”; quest’ultima è formata tutta dall’ambito delle procedure analitico-formali di queste tecniche informatiche.
Noi tutti oggi abbiamo a disposizione le esecuzioni delle migliori orchestre del mondo, le grandi opere teatrali, si verifica un arricchimento dei contenuti della nostra cultura; da questo punto di vista, siamo quindi in una situazione estremamente privilegiata. Ma a cosa serve l’informazione, se non si accompagna ad una adeguata capacità di pensiero critico, o a cosa serve l’opera d’arte, per chi non sa ascoltare o vedere? Quel bel libro di una volta, Il saper vedere di Marangoni, insegnava com’è possibile vedere veramente le cose. Il carattere specifico della informazione iconico-orale fa sì che essa sia sempre in anticipo per l’immediatezza del suo linguaggio sineslesico, partecipativo, spettacolare. All’estrema rapidità dell’informazione audiovisiva si contrappone l’esigenza di tempi sempre più lunghi per l’acquisizione dei contenuti della cultura scientifica.
Si pensi a come si allungano i tempi dell’educazione di base, che fino a quarant’anni fa era giunta al massimo degli undici anni, mentre oggi nei paesi civilizzati si arriva ai sedici, diciotto anni. Inoltre, è sempre più avvertita la necessità del recupero degli analfabeti di ritorno, perché si dimentica molto facilmente: di qui la necessità degli aggiornamenti, delle revisioni e così via. Quindi, all’estrema rapidità e varietà dell’informazione audiovisiva, si contrappone l’esigenza di tempi sempre più lunghi o comunque di periodici aggiornamenti per tutta la durata della vita lavorativa, per la preparazione tecnico-scientifica nei diversi campi di attività. Ecco, dunque, la spinta ad operare, anticipata e frustrata.
Per quanto riguarda la rivoluzione elettronica, è prevedibile che essa possa abbreviare questo intervallo pericoloso fra la valanga di suggestioni, in cui l’educando è sommerso, e la sua maturazione scientifica e professionale? L’uso personale del calcolatore, che si prevede sempre più generalizzato nella scuola del prossimo futuro, consentirà in tempi rapidi di rivestire fatti e problemi con significati che derivino ad essi da un inquadramento razionalmente controllabile, piuttosto che dalle inconfessabili intenzioni dei persuasori occulti? L’informatica verrà a costituire uno strumento critico di elaborazione di concetti, di elaborazione di “pensiero calcolante”, come direbbe Heidegger?
L’informatica studia le leggi e i metodi che regolano l’acquisizione, la verifica e la trasmissione dell’informazione, mediante la sua elaborazione automatica nel calcolatore, che si finalizza al raggiungimento di obiettivi precisi. Abbiamo proprio il contrario dell’informazione viscerale audiovisiva; qui abbiamo un tipo di strumentazione del modo di acquisire informazione che è analitica, critica, programmatica. Non l’informazione selvaggia, dunque, come potrebbe essere quella dei mass-media; l’informatica promette la possibilità dell’accrescimento massimo dell’informazione sulle vie veloci e sicure dell’intelligenza artificiale. Badate, “intelligenza artificiale” è espressione di cui si confonde spesso il significato; si pensa all’intelligenza artificiale come se fosse il cosiddetto cervello elettronico, mentre indica una disciplina, che studia certi modi propri dell’informatica.
In effetti, come la rivoluzione industriale ha trasformato profondamente la condotta lavorativa dell’uomo programmandone le prestazioni fisiche (fin dal tempo del principio di Ford), la rivoluzione informatica sta trasformando le condotte mentali dell’uomo, industrializzando, ossia riducendo al puro esempio analitico e funzionale, le sue attività intellettuali o una gran parte di esse. La cibernetica è stata la prima apparizione dell’informatica: non è nata dall’intento di sostituire l’uomo, cioè di costruire dei sosia dell’uomo; nessuno è così truce da ritenere che, quando si parla di “macchine pensanti”, si intenda davvero che le macchine pensino.
Quando si parla di cervello elettronico, di macchine personali, eccetera, si parla sempre di pratiche linguistiche dell’uomo: è l’uomo che utilizza determinate pratiche linguistiche, servendosi di uno strumento. Come è uno strumento l’apparato glottologico per cui noi parliamo, così la strumentalizzazione informatica è lo strumento di una certa pratica linguistica dell’uomo. Nessuno deve convincersi che la macchina possa pensare: è l’uomo che costruisce la macchina, che la programma ad essere programmatrice, che arriva a straordinari progetti di prestazione delle macchine; è sempre l’uomo che costruisce il linguaggio.
Cosa avviene quando si usa uno strumento elettronico, un calcolatore? Avviene che si cambia il comportamento mentale dell’uomo sul modello di macchine logicamente quasi perfette per una specie di ribaltamento della logica della macchina sulla mente stessa dell’uomo. Le cosiddette “macchine pensanti” o le macchine che sono utilizzate nella scuola come macchine che insegnano o come macchine che imparano, derivano da questo proposito: se si riesce ad introdurre nella macchina ciò che in termini biologici è un riflesso condizionato, che serve come base per l’apprendimento, la macchina potrà pervenire ad operazioni e risultati imprevedibili dal suo stesso costruttore.
E’ proprio il concetto di intelligenza. Infatti diciamo che qualcuno opera intelligentemente non quando esegue ciò che gli diciamo di fare e niente di più, ma quando esegue qualcosa che non prevediamo possa raggiungere. E’ questo quello che si consegue o che si può conseguire quando si procede nell’informazione da quella cosiddetta pura robotizzazione delle procedure a quella che si chiama intelligenza artificiale. Quello che chiamiamo un comportamento intelligente consiste nello staccarsi dal comportamento totalmente prevedibile implicato nel calcolo, proseguendo così l’ipotesi o piuttosto la grande utopia della “macchina universale” con la maiuscola, immaginata da un matematico morto nel ’59 molto giovane: Alan Turing. L’intelligenza artificiale attraverso i computers che oggi si chiamano della “quinta generazione” (sono stati inventati dai giapponesi) e forse anche con computers più perfetti, tende ad essere in grado di compiere vere e proprie operazioni euristiche, cioè inventive, senza sequenze predeterminate e fuori da ogni programmazione imperativa.
Ecco quali straordinari strumenti si stanno inventando dopo la rivoluzione informatrice! Questa è anche la via che conduce alla educazione funzionale, un aspetto dell’educazione che non può essere trascurato perché rende capaci di svolgere quelle mansioni che la società chiederà al cittadino di domani. La via che si apre a questo tipo di educazione, che non esaurisce tutto il processo educativo, ma ne è certamente un momento necessario, offre un nuovo campo ad importanti sviluppi, attraverso l’uso didattico e auto-didattico delle tecniche informatiche. Si è perso il rapporto intersoggettivo, cioè privato, tra educatore e discepolo, per un impianto puramente impersonale della educazione. Ora si ritorna al rapporto personale, ma autopersonale, cioè gestito dall’educando stesso. Il giocattolo informatico prepara a questa forma nuova di autosviluppo della informazione e di autocorrezione. La deficienza critica che deriva dalla pioggia di messaggi della cultura selvaggia, sembra che possa avere un rimedio proprio attraverso la rivoluzione informatica, che fornisce questi strumenti nuovi, per mezzo dei quali la massa cessa di essere l’oggetto di occultazione – brutta parola che usano i sociologi – e potrebbe diventare, attraverso la formazione all’uso intelligente degli strumenti informatici, soggetto di cultura. Si passa dalla acculturizzazione alla soggettività riflessiva, possessiva, di possesso.
Non si tratta di mettere in concorrenza l’intelligenza artificiale con l’intelligenza umana, perché entrambe sono pratiche linguistiche dell’uomo. Il problema, che investe dall’interno la cultura informatica, è il seguente: uno strumento non può mai prescindere da chi l’ha costruito e da come viene usato. Quando un calcolatore fosse realizzato al livello massimo della sua indipendenza dall’uomo, ossia in maniera tale da poter redigere un proprio programma, sulla base di alcuni elementi che gli fossero dati e usando livelli sempre più alti di astrazione, sarebbe sottoposto in ogni caso alla regola della propria costruzione: chi l’ha costruito in quel modo non è il calcolatore stesso, e dunque non potrebbe il calcolatore parlare della opzione che ha deciso di costruirlo in quel modo e non in un altro, secondo queste regole e non secondo altre. Si potrebbe dire con un gioco di parole che il cervello elettronico, al livello massimo possibile della propria indipendenza dall’uomo, è programmato ad essere programmatore, ma è programmato ad esserlo.
Roger Shauk, dell’università di Yale, dice che il computer è il perfetto esemplare di quella tabula rasa della mente vergine da ogni imput, su cui si basa tutta l’ipotesi classica della conoscenza. Anche Tommaso d’Aquino afferma che la nostra mente, prima di conoscere, “est tamquam tabula rasa” o, come diceva Locke, dobbiamo supporre che la nostra mente sia priva di qualunque mezzo per sapere cos’è la conoscenza. Bisogna subito precisare che questa è l’ipotesi empirista, propriamente lockiana, dell’origine della conoscenza. Quando Locke diceva: “Supponiamo che la mente sia come un foglio bianco privo di ogni carattere, senza alcuna idea” (Saggio sull’intelletto umano, II, cap. I), il Manzoni, gli obiettava: “Che cos’è la mente in cui non è scritto nulla? Perché diciamo che si tratta di una mente se non c’è scritto nulla, se non ha nessun contenuto?”. Si comincia – dice il Manzoni – col porre il problema della conoscenza, con una ipotesi che non ha senso, perché di fatto la conoscenza si iscrive in un linguaggio che già esiste, non iniziamo mai a conoscere ex novo, a costruire ex novo i linguaggi. E’ la famosa scoperta del Vico, di Herder, dello Hamann, quando quest’ultimo scriveva a Jacobi: “Mi sono accorto che la ragione è linguaggio e vorrei, se fossi come Demostene, dirlo in pura voce sulle rive del mare, che noi siamo linguaggio, nasciamo da un linguaggio, siamo parola, siamo logos”.
Cultura informatica, cultura audiovisiva, cultura scientifica, cultura che abbia in noi il suo soggetto: noi siamo già nell’ambito del linguaggio, siamo animali simbolici – come diceva Cassirer – siamo dentro la parola e la nostra cultura dovrà servire a farci arrestare di fronte a quel tipo di linguaggio, che non può essere calato tutto nel linguaggio di cui stiamo parlando.
Che differenza c’è tra cervello elettronico e cervello neuronico?
Il cervello elettronico non potrà mai, per quanto superi i livelli più alti di astrazione e di prestazione mentale, rendersi conto del linguaggio di colui che l’ha costruito, conoscere l’opzione di colui che ha deciso di costruirlo in quel modo. Anche il nostro cervello biologico, neuronico si è formato attraverso l’evoluzione della specie, attraverso la storia dell’uomo. Si è formato con una costruzione tale per cui giustamente Chomsky diceva che se c’è una grammatica innata in noi è la grammatica cartesiana, una grammatica innata nei funzionamenti delle nostre strutture neuroniche, cerebrali, per cui noi siamo iscritti in un linguaggio di cui non possiamo parlare, perché non lo costruiamo noi. Come il linguaggio elettronico ad un certo punto si ferma perché non può parlare del linguaggio che sta alla base della sua costruzione, così il nostro cervello biologico, lo strumento del nostro pensare, si iscrive nel mistero della impossibilità di un linguaggio assoluto. Io lo chiamo il paradosso del metalinguaggio: un linguaggio che parla di un altro linguaggio.
Un metalinguaggio deve avere strutture logiche superiori al linguaggio di cui parla. Un linguaggio che fosse assoluto sarebbe tale che noi non ne potremmo parlare proprio perché è il metalinguaggio assoluto, ma se è assoluto e noi ne parliamo, allora non è vero. Se è vero non è assoluto, se è assoluto non è vero.
Ciò significa che è impossibile un linguaggio che abbia in sé la totalità del suo senso. La differenza tra una macchina elettronica e il cervello biologico sta nel fatto che la macchina non tace, resta muta; noi tacciamo, noi stiamo in silenzio perché ci rendiamo conto di non sapere.
Qui sta la differenza tra linguaggio calcolante della macchina elettronica e linguaggio calcolante del funzionamento cerebrale dell’uomo: il linguaggio calcolante della macchina elettronica dà prestazioni massime, ma non può arrivare a risolvere in sé la totalità del suo senso. Noi costruiamo il nostro linguaggio e ci rendiamo conto che una infinità di sensi oltrepassa quelli sui quali noi ci muoviamo. Il cervello elettronico resta muto, noi tacciamo! Ma il tacere non è l’essere muto, è l’accorgerci che non sappiamo. Il linguaggio proprio dell’uomo è questa endiadi di costruzione e silenzio. Il silenzio è ciò che ci distingue da qualunque essere meccanico o biologico che non sia umano. L’uomo è colui che sa tacere perché sa di non sapere: il linguaggio dell’uomo è allora l’esercizio del pensiero umano e non si esaurisce nell’esercizio del calcolatore, nella costruzione delle infinite costruzioni della tecnica moderna, ma è il linguaggio di colui che sa tacere e, dunque, ascoltare. Posso ascoltare ciò che è verificabile, che è correggibile, che è smentibile, posso esercitare l’ascolto là dove si oltrepassa la misura del fare, del calcolare, del costruire umano.
Come si può porre oggi il problema della cultura informatica? Io credo che dobbiamo persuaderci che l’informatica è un’enorme apertura agli sviluppi umani e soprattutto dobbiamo capire quell’abisso che si è venuto formando tra la cultura selvaggia dei mezzi audiovisivi e la cultura critico-analitica. La cultura informatica può entrare a diventare cultura che mette in esercizio la capacità, l’esercizio critico, propriamente scientifico, può diventare il soggetto del progredire della tecnica. Non possiamo tornare indietro, tutti i nemici della tecnica che vogliono tornare all’artigianato, appartengono a un’era arcaica.
Cosa si apre di nuovo nel rapporto cultura selvaggia e cultura informatica? La possibilità che ritroviamo noi stessi nella zona del silenzio; la zona in cui vive il poeta, l’artista, l’uomo religioso, l’inventore di nuove forme di vita morale; la zona del silenzio in cui tacciamo perché non sono risolti i problemi del bisogno. Il bisogno è appunto la mancanza di qualcosa, è ciò che stimola le procedure affinché si consegua ciò di cui si è privi. Ciò di cui si è privi è a sua volta necessario per la vita, per il benessere, per l’incremento della vita sulla terra. Questa è la procedura del bisogno, questa è la procedura a cui può rispondere la cultura scientifica analitica, strumentalizzata nella strumentazione informatica.
La cultura scientifica, il linguaggio costruito non possono però rispondere a quelle aperture che io chiamo “del desiderio”, il quale non è il bisogno gratuito, come dicono certi sociologi. Il desiderio non è il rapporto tra ciò che non si ha e ciò che si vuole avere, ma è la fruizione delle nostre scelte di essere, è ciò che ci costituisce nel fondo della nostra realtà umana come esseri che accettano di essere ciò che desiderano e vogliono essere. Esseri che dicono di sì all’essere o che potrebbero dire di no. Ad esempio il drogato dice di no all’essere: è inutile dirgli che nuoce alla sua vita se si droga, perché ha già detto di no all’essere.
Il desiderio è quella struttura profonda della nostra umanità, per cui noi viviamo perché accettiamo di essere, perché diciamo di sì all’essere. L’uomo è l’unico essere che può dire di no all’essere. Gli animali praticano delle procedure di anticipo della propria morte, ma l’uomo è l’unico essere che possa davvero scegliere di morire. Ecco il concetto dell’uomo come vero uomo.
Pensate a San Francesco, nel famoso racconto dei Fioretti, in cui dice a frate Leone quale è la vera letizia:
“Arriva un messaggero e dice che tutti i maestri di Parigi sono venuti all’Ordine: scrivi, non è vera letizia. Ancora, che tutti i prelati d’oltre alpe, arcivescovi e vescovi, ed anche il re di Francia ed anche il re d’Inghilterra: scrivi, non è vera letizia. Ancora, che i miei frati vennero tra gl’infedeli e li convertirono tutti alla fede”, e così via. Qual è dunque la vera letizia?, chiede frate Leone. “Ritorno da Perugia e, nella notte profonda, vengo qui, ed è tempo d’inverno, fangoso e così freddo che mi si formano i ghiaccioli sull’orlo della tonaca e mi battono nelle gambe e scorre sangue dalle ferite, e tutto nel fango e nel freddo e nel ghiaccio vengo alla porta e, dopo aver picchiato molto e chiamato, viene il frate e domanda: – Chi sei tu? Io rispondo: – Frate Francesco., ed esso dice: – Vattene, non è questa l’ora di viaggiare, non entrerai. E di nuovo insistendo io, risponde: – Vattene, tu sei semplice e idiota, ora non vieni tra noi; noi siamo tanti e tali e non abbiamo bisogno di te”. Il racconto continua con le richieste di Francesco e i dinieghi del frate e così si conclude: “Ti dico che, se avrò avuto pazienza e non mi sarò conturbato, in questo è vera letizia e vera virtù e salute di anima”.
San Francesco aveva fatto un grande esperimento metafisico dicendo questa cosa, perché aveva saputo distinguere il desiderio dal bisogno. Il desiderio consiste nel capire ciò che merita di essere veramente voluto: merito di essere, merito di volere di essere.
Quando gli stoici parlavano dell’apatia, del rifiuto dei beni, così come il vero Epicuro, individuavano l’esclusione di ciò che non è necessario per arrivare a quella forma di serenità interiore, di accettazione di ciò che è essenziale, del vero essere, del proprio essere. Questo è il desiderio.
Mentre l’informatica, il pensiero scientifico, calcolante, è tutto quanto mira a soddisfare i bisogni, a procurarmi procedure per risolverli, chi educa il desiderio? Chi ci porta a questa essenza di noi stessi, per cui noi diventiamo veramente coloro che dicono di sì all’essere, che arrivano a questa estrema forma di saggezza e di estrema sintesi dei valori.
Gli psicologi diranno di accettare se stessi, gli psichiatri raccomanderanno serenità con se stessi o faranno altre proposte di saggezza. Ecco, questo è il silenzio, questo è ciò che emerge nel silenzio: non è la procedura del sapere, calcolante, costruente, è la procedura della saggezza, che non è solo morale, è la procedura dei valori che valgono indipendentemente dalla soddisfazione dei bisogni. Forse che quando andate ad un concerto, se davvero volevate andarci, non vi dovete mettere in silenzio interiore per ascoltare la musica? Il silenzio interiore per ascoltare la musica è anche il silenzio interiore del creatore della musica, o quello del poeta. Il poeta non costruisce, il poeta è colui che ascolta: se fosse solo un costruttore di parole, sarebbe un versaiolo, non sarebbe più un poeta. L’uomo religioso è colui che sa ascoltare, che parla di una esperienza che è l’esperienza del mistico, del silenzio. Ecco l’educazione del profondo, ecco la cultura del profondo.
Io credo che la cultura informatica nel suo svolgersi e nel suo svilupparsi al massimo delle sue possibilità – come ancora non è avvenuto – ci consentirà di eliminare l’intervallo tra il selvaggio e il civile, tra le due culture di cui ho parlato, e si aprirà nel suo modo più autentico, nel senso più profondo della cultura, che è anche il senso più profondo dell’educazione. La scuola non deve educare solo ad essere ottimi esecutori e ottimi funzionari in tutti i sensi, la scuola deve formare degli uomini, come diceva Pier Capponi: la cultura fa degli uomini in quanto fa esseri che sanno essere soggetti nel silenzio. Una delle formule più profonde del pensiero del nostro tempo è stata presentata in una maniera che molti hanno inteso come se fosse una specie di inibizione, di proibizione, una specie di antimetafisica: è la formula di Wittgenstein, che nel Tractatus logicus-philosophicus ha scritto: “Ciò di cui non possiamo parlare dobbiamo tacere”. Egli ha messo in guardia gli infiniti chiaccheroni di ciò di cui non possiamo parlare, chiaccheroni poiché ne parlano in maniera impropria, perché ne parlano come se ne potesse parlare con le procedure del linguaggio calcolatore.
E’ stata questa la formula che ha aperto all’uomo il senso della sua trascendenza sul mondo delle macchine, sul mondo degli strumenti, delle funzioni, dei calcoli. “L’uomo è quell’unico essere che noi conosciamo sulla terra il quale è al di là della sua somma – come diceva Paul Valery – al di là del suo calcolabile, perché è quell’unico essere che sa tacere”. Ciò è molto importante perché questa formula è stata presentata come se fosse la chiusura dell’uomo nell’isola del suo mondo puramente fattuale, empirico, mentre non mostrava i confini dell’isola, del linguaggio calcolante, del linguaggio positivo, ma le spiagge aperte sull’oceano, sull’infinito.
La filosofia critica ci conduce a riconoscere che il senso dell’uomo e della vita lo possiamo trovare nel mondo, in questo mondo dove appaiono i grandi messaggi dell’arte, della religione, della ideologia morale e così via. Quindi, la Chiesa oggi dovrebbe trovarsi a suo pieno agio nella cultura informatica. Che cosa è, infatti, la Chiesa, se non rivelazione di un messaggio divino: nulla può interessare una comunità cristiana più che la trasmissione di un messaggio che non è costruito, ma rivelato, cioè ascoltato, fatto per l’ascolto. Quindi la Chiesa nel mondo della tecnica può autenticare il senso del suo messaggio, perché è il messaggio che parla nel silenzio e, quindi, non deve essere costruito o fondato sul linguaggio calcolante. La tecnologia diventa così l’autenticazione del sacro.
NOTA: testo, rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 17.4.1989 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.