Giornale di Brescia, 6 novembre 2022
Sul millesimo appuntamento della Cooperativa cattolico-democratica di cultura di Brescia, costituita nell’aprile 1976, ospitiamo un contributo dell’attuale presidente del sodalizio, Filippo Perrini.
Mille iniziative. Un dato significativo, che in qualche misura merita una riflessione sulle ragioni di una proposta culturale che trova pochi riscontri per l’intensità e la continuità che l’hanno caratterizzata.
Innanzitutto la stessa forma giuridica cooperativa traduce bene il carattere associativo dell’iniziativa, sin dalle origini concepita come momento di incontro di un gruppo di persone, animate dal desiderio di riflettere insieme sulle coordinate fondamentali dell’esistenza e del vivere sociale in piena e totale autonomia rispetto ad organizzazioni e movimenti di qualsiasi estrazione. Una autonomia orgogliosamente esibita ma che ha voluto coniugarsi nella fattiva collaborazione con moltissimi enti su iniziative concrete, tanto che dei mille incontri effettuati la grande maggioranza si è realizzata con questa modalità.
In oltre quarantacinque anni le finalità per cui la CCDC era sorta hanno richiesto una continua ridefinizione, fermo restando il valore della testimonianza culturale e di fede degli inizi. Oggi, considerata anche la proliferazione delle iniziative di molti gruppi culturali a Brescia e in provincia, la presenza culturale della CCDC si vuole caratterizzare per l’alto livello delle proposte e per le finalità che si intendono perseguire.
Innanzitutto il valore della consapevolezza, facendo propria l’affermazione che Platone mette in bocca a Socrate nell’Apologia: “una vita senza l’esame del pro e del contro non è degna per l’uomo di essere vissuta”. Qualsiasi cosa una persona faccia, deve sempre chiederne il perché, qual è il senso. Questa è cultura, ovvero una continua creazione di consapevolezza, che è anche un grande antidoto al populismo.
In questa direzione vorremmo favorire una riflessione critica sulla tendenza prevalente nel mondo moderno ad avere uno sguardo astratto e riduttivo sulla realtà, che si identifica con quello tecno-scientifico. Il punto non è rifiutare l’astrazione e tantomeno la scienza. Piuttosto, si tratta di riconoscere cosa accade nel momento in cui essa diventa l’unico modo di indagare la realtà, separandoci da ciò che ci circonda: dalla natura, dalle relazioni, da noi stessi.
La grande sfida culturale è allora dimostrare che distinzione non vuol dire separazione, tenendo insieme ciò che la modernità separa e che invece è complesso, multidimensionale, carico di connessioni. È imparare – come Blaise Pascal e Romano Guardini ci hanno insegnato – a non risolvere le contraddizioni abitando “la tensione tra il mondano e il divino, il personale e il comunitario, lo spirituale e il corporale, la riflessione e la prassi, il bello e il funzionale, la potenza e l’impotenza, l’io e il noi” (Chiara Giaccardi e Mauro Magatti). Contrastare dunque l’assolutizzazione della tecnologia in nome del desiderio più profondo della persona, conservando una pluralità di proiezioni funzionalmente non economiche: l’arte, la politica, la religione. Intese come un fatto sociale e non come un fatto privato.