Non nascondo una certa emozione nel parlare in questa bella sala della Pace: mi ricorda tanti amici, amici carissimi, che non ci sono più e con i quali ho vissuto momenti e imprese politiche e culturali importanti, già ricordate da Beppe Tognon, al quale sono grato per aver voluto condividere con me l’avventura di questo piccolo ma intenso libro intervista, che ha suscitato e continua a suscitare molti dibattiti e il cui successo ci ha perfino stupiti
Gli interventi che mi hanno preceduto hanno posto molte questioni; anche nelle parole del direttore di Repubblica, Ezio Mauro, al quale sono molto grato per la sua presenza qui, non mancano problemi e interrogativi. Tenterò di rispondere il più brevemente possibile e in maniera unitaria perché in fondo le domande convergono su di un tema fondamentale del nostro libro che è il rapporto tra Chiesa e democrazia.
Vi è un vuoto di moralità nella vita pubblica che ci mette di fronte ad una constatazione – la ricordiamo nel libro – fatta da Norberto Bobbio già nel 1984:la democrazia non è capace di autoriprodursi nelle sue riserve etiche, nei suoi valori costitutivi; l’unica promessa che la democrazia non ha potuto mantenere è quella del suo autoriprodursi spontaneamente. La democrazia consuma riserve etiche che spontaneamente non riproduce e questo pone un grande problema che è un problema italiano, ma che è anche un problema di tutte le democrazie dei paesi industrializzati, dei paesi avanzati. Sono i problemi che nascono dalla società dei due terzi, dal fatto cioè che la democrazia funziona in paesi in cui la maggioranza è abbiente, mentre è nata quando la maggioranza era di poveri e di derelitti e il numero serviva di compenso alla debolezza economica; viceversa oggi la democrazia rischia di funzionare come garanzia degli interessi costituiti. C’è quindi una crisi generale della democrazia, che tuttavia in Italia assume, lo avvertiamo tutti, particolare rilievo e particolare visibilità per il senso di stanchezza, di sfiducia che contrassegna il nostro Paese oggi. Un Paese che ha avuto sempre tanta fiducia in se stesso –pensiamo alla Ricostruzione dopo il Fascismo –oggi è un Paese stagnante, un Paese in cui non c’è speranza.
Che contributo può dare la Chiesa? Facciamo attenzione quando usiamo la parola Chiesa. C’è una Chiesa intesa nel senso gerarchico, nel senso istituzionale, delle autorità che la rappresentano, e c’è una realtà di popolo. Fra le due realtà c’è tutto un ricco tessuto associativo che rende ancora più articolata l’immagine di Chiesa.
La Chiesa nel suo complesso può dare un ricco contributo a far crescere il senso etico comune, a trasformare la secolarizzazione così come noi l’abbiamo sperimentata, in un nuovo tessuto etico civile. Da noi la secolarizzazione ha rappresentato un abbandono di valori tradizionali – già Pasolini lo aveva intuito -, che non è approdato a un’etica civile alternativa. In Francia in fondo c’è stato l’approdo a un’etica laica e anche senza apprezzare il modello francese di laicità, io ne sono un critico, non c’è dubbio che in Francia c’è stato un compiuto processo di laicizzazione, di secolarizzazione e al tempo stesso di crescita di un’etica alternativa. Da noi, per una serie di ragioni la secolarizzazione ha piuttosto portato a quel vuoto etico intuito da Pasolini. Come si può riempire questo vuoto?
Credo che proprio la Chiesa abbia grandi possibilità, grandi spazi, purché sia presente alla base del Paese, purché esca dall’illusione che ponendo soltanto questioni e domande ai vertici dello Stato, al legislatore, si possa risolvere il problema della tenuta etica nel Paese. Se nella Chiesa non matura la consapevolezza che non è a livello di vertice che tali problemi possono essere risolti, si andrà incontro a nuove disillusioni. Non c’è più infatti, oggi, una Chiesa che si contrappone a uno Stato laico, a un potere costituito che sostiene tesi alternative, ma c’è una secolarizzazione diffusa, molecolare, tenace, che investe i comportamenti quotidiani. Di fronte a questo non serve a nulla invocare leggi o tentare operazioni di potere. Occorre viceversa essere presenti nella società: se la Chiesa promuovesse con vigore una nuova stagione pastorale, offrisse con la sua presenza capillare una risposta a molti bisogni etici e spirituali primari, ascoltasse con maggiore attenzione le domande del suo popolo, ne trarrebbe un grande beneficio per la religiosità del nostro Paese e favorirebbe un rafforzamento del tessuto etico del Paese.
Non tutto spetta al clero e alle gerarchie:ci sono naturalmente i cattolici, c’è la presenza del laicato; e qui si pone non solo un problema pastorale ma anche un problema politico.Mi limito solo a qualche accenno di fronte a questioni molto complesse. Stiamo attenti: da noi il cattolicesimo politico non ha avuto le stesse caratteristiche che ha avuto in Germania o in Francia. Quando si fanno confronti, soprattutto da parte di alcuni esponenti della sinistra, con un bipolarismo come quello sviluppatosi in Germania o come quello nato in Francia, non si tiene conto della storia. La situazione italiana non è comparabile con quella di altri paesi.In Germania il bipolarismo è nato spontaneamente sulla base di una scelta di Adenauer -ne parliamo nel libro- che ha potuto compierla avendo già la garanzia dell’esistenza di un’alternativa democratica offerta da un Partito socialdemocratico che era nel solco della Costituzione, senza riserve, sulla base di una scelta che poi è stata consacrata nel 1959, con la svolta di Bad Godesberg; con un partito comunista che era addirittura un altro Stato al di la della cortina di ferro, mentre nella Germania federale era una minoranza irrilevante. Per questo Adenauer, nel momento stesso in cui è stato investito del compito di cancelliere, ha potuto teorizzare il bipolarismo, dando al suo partito il ruolo di un partito conservatore. Ma anche qui bisogna distinguere: agli inizi quel partito è “moderato” ma è cristiano sociale; poi, negli anni successivi, assistiamo ad una deriva di segno più conservatore e liberale.
Per quanto riguarda la Francia, va osservato che il cattolicesimo ha avuto una grandissima ricchezza culturale, religiosa e profetica, dal 1830 fino alla metà del Novecento, ma non ha avuto lo spessore politico che viceversa ha avuto in Italia grazie ad alcuni uomini come Luigi Sturzo e Alcide De Gasperi, per fare i due nomi più significativi. La concezione che Sturzo propone del partito è la più moderna concezione di partito nei primi decenni del secolo scorso:più moderna rispetto alla tradizione liberale da un lato e alla tradizione socialista per non parlare della concezione di Sorel che negava il partito.
De Gasperi realizza, di fatto, quello che Tocqueville auspicava già quando scriveva La democrazia in America: “l’istituzione della democrazia nel mondo cristiano”; la realizza con un operazione politica di alto profilo. Un’operazione politica, non una profezia, che De Gasperi attuacon un realismo che è ben espresso in una sua affermazione contenuta nel suo unico discorso sulla Costituzione, a proposito del famoso artico 7 sui rapporti fra lo Stato e la Chiesa. Dossetti si era arrampicato sugli specchi per dimostrare che nella costituzione non c’era nessun elemento di contrasto con le norme contenute nel Concordato. Invece elementi di contrasto, come Calamandrei aveva sostenuto, c’erano e gravi; basti pensare al famoso articolo cinque, che vietava ai preti colpiti da censura di svolgere funzione pubbliche. De Gasperi prende allora la parola, fa un richiamo al mistero di Cristo presente nella storia, cita Dostojevskj e poi fa un salto radicale: legge la formula del Concordato relativa al giuramento dei vescovi, quella formula che nel concordato del 1984 non c’è più e chiede a tutti i costituenti: «Amici, oggi nella situazione in cui siamo, possiamo forse rinunciare a questo giuramento di fedeltà alla Repubblica?». Ecco la sfida, l’atto politico con il quale trasformò un limite in una opportunità per la democrazia italiana.
Il cattolicesimo democratico italiano è ricco di atti politici forti ed è per questo che ha avuto un suo ruolo particolare, originalissimo, e non è potuto diventare puramente, semplicemente, nel momento in cui è entrato in funzione il bipolarismo – seppur imperfetto – il partito conservatore italiano. Certo, una gran parte dell’elettorato democristiano è andato a destra, ma il partito nel suo insieme non poteva svolgere questo ruolo perché era un’altra cosa, aveva un’altra storia e non era nato per essere un partito conservatore.
Ma torno alla questione di fondo: che contributo può ancora dare il cattolicesimo politico? Ho già accennato al contributo che non solo la Chiesa gerarchica ma il popolo cristiano possono dare a sostegno di un’etica pubblica. In questo Paese abbiamo certamente bisogno di senso civico, di moralità e di rispetto delle regole. Ma il cattolicesimo politico ha anche il dovere di continuare a fornire un contributo di cultura politica cattolico-democratica che in Italia non ha alternative. Nessuna altra forza politica ha messo in circolazione l’europeismo come lo ha messo in circolazione De Gasperi e il suo partito: al loro fianco c’erano solo alcuni della cultura laica. Tutta la sinistra non c’era o era contro: Giorgio Napolitano nelle sue memorie oggi riconosce che quella scelta è stata un colpo di genio di De Gasperi, ma perché allora nessuno osò seguirlo? La scelta europeista è una scelta di grande contenuto, di grande significato politico, ed è un orientamento fondamentale per quel “partito nuovo” di cui tutti auspichiamo la nascita, e che per essere veramente nuovo non può essere indifferente alla presenza di questa tradizione cattolico democratica, al contributo che essa ha dato e ancora può dare.
Penso ad esempio all’articolo 49 della Costituzione, all’emendamento Mortati. Quell’emendamento stabiliva che il metodo democratico dovesse valere anche all’interno dei partiti, mentre oggi l’articolo della Costituzione prevede che il metodo democratico vale soltanto per i rapporti fra i partiti. Mortati saggiamente lo ritirò quando si rese conto che avrebbe complicato irrimediabilmente il cammino della costituzione. Avrebbe significato la rottura della possibilità di arrivare ad un patto costituzionale, perché il modello leninista non consentiva quel vincolo.Oggi per fortunanon c’è più il modello leninista, non c’è più l’Unione Sovietica, e addirittura lo Stato finanzia i partiti. Non è forse giunto il momento perché l’istanza di una democrazia interna ai partiti, venga recuperata, affinché il partito Democratico, il partito nuovo, non sia un’operazione di vertici che si mettono d’accordo e si spartiscono fette di potere, ma sia una realtà che nasce dal basso e coinvolge realtà popolari? Le primarie non sono state forse il segno di questa domanda che è tutta legata alla tradizione di partecipazione di base, di partecipazione popolare? Ci rendiamo conto di quanto è insufficiente la risposta alla crisi attuale a livello morale, culturale e politico e quanto sarebbe importante richiamarci a questi valori, a queste intuizioni che sono caratteristiche della tradizione culturale cattolico democratica? Non la si può emarginare, altrimenti non si fa una cosa nuova ma si torna a fare una cosa vecchia.
Un’altra domanda è emersa con grande evidenza: quali sono stati i momenti alti in cui la Chiesa ha dato un contributo significativo alla democrazia italiana?
Ancora una volta:la Chiesa. Ma la Chiesa non è solo la gerarchia.I Donati, quelli che sono andati in esilio durante il fascismo, hanno dato un contributo alto. Sturzo restò vent’anni di esilio, e le sue grandi opere sono state un contributo altissimo. Il Vaticano gli ha fornito il passaporto per andare all’estero, quando aveva compiuto in qualche modo la scelta di privilegiare il rapporto con il nuovo regime; anche qui, dunque, la Chiesa. Ma, ancora una volta, che cos’è la Chiesa? È una realtà sempre così complessa che è difficile da rinchiudere in un giudizio.
Ci sono però dei momenti in cui la Chiesa è coinvolta nel suo insieme e uno di questi momenti – lo sottolineiamo nel libro, anche in risposta ad una tesi storiografica revisionista degli anni Novanta che a mio avviso ha fatto molto male alla cultura del nostro Paese -è quello della Resistenza. La Chiesa ha dato un contributo decisivo alla salvaguardia delle condizioni di convivenza nel Paese negli della lacerazione provocata dalla guerra. La Resistenza non va più letta solo come resistenza armata, come guerra partigiana: la Resistenza è un fenomeno molto più ampio che coinvolge profondamente la presenza cattolica. Il Presidente Ciampi ha avuto il merito di ampliare il concetto della Resistenza; se non altro ha recuperato la Resistenza dei militari, di quelli che erano chiamati “i badogliani” dai comunisti e dagli azionisti. La fedeltà al giuramento al re va recuperata come un dato della nostra storia dal quale non si può prescindere. Oggi fa sorridere immaginare un giuramento al re; ma allora, per quegli uomini, per quei militari, il giuramento al re aveva un valore morale e quel valore morale è stato speso nella Resistenza e deve essere pur ricuperato come un elemento positivo dell’esperienza collettiva di questo popolo. C’è stata poi la resistenza passiva, la resistenza delle donne, la resistenza di tutto un popolo. Se della Resistenza si ha questa concezione ampia, la Chiesa è presente, è molecolarmente presente, se non altro perché ha insegnato tenacemente, durante il fascismo e durante la guerra, che l’odio non era un modello, che l’odio al nemico predicato nelle adunanze dei balilla e degli avanguardisti non era un modello di comportamento.
La Chiesa durante la guerra ha rifiutato l’ideologia della guerra e il fatto di aver rifiutato l’idea della violenza come ideologia unificante di un paese è un merito storico altissimo, perché è quello che ha reso possibile di ritrovarsi poi insieme su basi pacifiche, di convivenza fra diversi. Questo è stato un merito importantissimo; il circuito della violenza è perverso: l’estremizzazione della violenza da una parte portava e porta all’estremizzazione della violenza dall’altra parte. Il problema delle rappresaglie è un problema che oggi gli storici studiano con rinnovata attenzione, con rinnovato senso di responsabilità. Ricordo su questo punto i discorsi che mi hanno fatto Giuseppe Dossetti o Ermanno Gorrieri, due uomini che hanno fatto la Resistenza: essi si ponevamo il problema fondamentale di evitare le rappresaglie sui civili. Non è così di tante altre formazioni partigiane che non si ponevano lo stesso problema.
Un altro momento molto alto è stato quello legato al rapporto, ma questo nel libro è ampiamente spiegato, De Gasperi-Montini, che ha permesso di marginalizzare le manovre del “partito romano”, così denominato, in un suo libro, da Andrea Piccardi: un gruppo di potere che aveva aderenze nella massoneria. Da una parte Monsignor Ronca, il rettore dell’Ateneo lateranense, dall’altra parte Padre Martegani, direttore della Civiltà Cattolica, brigavano contro De Gasperi per creare le condizioni di un’alternativa, nel senso di un ritorno al vecchio modello giolittiano di un liberale moderato al governo con cui trattare. In un secondo momento hanno operato contro De Gasperi e contro la sua politica centrista, per spingere, con la cosiddetta “operazione Sturzo”, verso un’apertura incondizionata a destra della Democrazia Cristiana. Una linea, quella del centrismo, che De Gasperi ha sempre difeso e che poi i suoi eredi hanno sviluppato: il centrismo è la premessa del centro sinistra e, successivamente, del tentativo di Aldo Moro per la solidarietà nazionale. Questi sono momenti alti della politica italiana che vedono protagonisti uomini intelligenti, illuminati, che hanno avuto un senso della politica alto, che era sì necessariamente mediazione ma che era anche cultura, pensiero, riflessione.
Ritorno tuttavia alla questione fondamentale: Chiesa e democrazia. La Chiesa arriva tardi alla democrazia. Praticamente nel Concilio Vaticano II quando accoglie la democrazia non più come una delle legittime forme di governo, ma come l’unico in cui si può esprimere compiutamente la dignità della persona umana. Con il Vaticano II la Chiesa ha offerto alla democrazia il suo prestigio secolare.
Ma resta insoluto il problema del rapporto tra democrazia e verità, che riemerge negli interventi dell’attuale pontefice. Benedetto XVI è particolarmente sensibile a questo tema: la maggioranza non garantisce la verità. La democrazia non nasce neppure, se non ci sono alcuni fondamenti di verità, se non c’è il senso della dignità della persona umana. Se non ci sono alcuni valori legati a certe verità fondamentali sull’uomo la democrazia non nasce: non si impone la democrazia, tanto meno con le armi, se non ci sono condizioni minime di un tessuto culturale in cui certi elementi di verità sono fondamentali. La dignità della persona umana è il fondamento dell’esperienza democratica, ma nelle scelte concrete, quotidiane, la democrazia non garantisce la verità; la democrazia garantisce alla verità la possibilità di essere proposta, di essere proclamata, di essere dichiarata, di essere predicata; garantisce alla verità la possibilità di crescere attraverso un lavoro – e una testimonianza – rivolta alle coscienze. Viene approvata una legge non conforme ad una certa visione cattolica? La democrazia consente di creare correnti di opinioni alternative che possono in un futuro portare ad una legislazione diversa ma la democrazia non garantisce automaticamente nessun esito e questo rischio va accettato. Lo ha riconosciuto lo stesso cardinale Ruini nell’apertura di un importante convegno che si è tenuto a Roma nel mese di dicembre (2005), nel quadro del Progetto culturale della Conferenza episcopale italiana.
Rimane aperto anche un secondo problema che interessa un po’ meno i laici, ma interessa molto i cattolici: a chi tocca gestire le iniziative pubbliche e politiche che devono servire a modificare dalla base le condizioni del rapporto verità-democrazia? Tocca direttamente alla gerarchia, come sta avvenendo in Italia oggi, oppure tocca molto di più ad un laicato responsabile, nelle forme libere che di volta in volta storicamente è chiamato a darsi (siano le forme partito che forme diverse: non è detto che soltanto la forma partito rappresenti lo strumento di partecipazione alla vita pubblica)? Noi oggi ci troviamo in una situazione atipica, anormale, che rappresenta un passo indietro rispetto al Concilio; chi legge il capitolo IV della seconda parte della Gaudium et spes si rende conto che oggi qualche cosa non funziona se e quando l’episcopato italiano interviene direttamente nel dire non come si deve valutare una certa situazione, ma come si deve votare o non votare per ottenere un determinato risultato. Se e quando interviene addirittura sulla valutazione tecnica dell’espressione del voto o del non voto in un referendum per non far scattare il quorum. Nella nuova versione del Concordato non c’è più nessun limite e l’episcopato può dire quello che vuole. Bene, ne siamo lieti, è una cosa giusta, ma noi ci chiediamo se è legittimo dal punto di vista ecclesiale questo corto circuito fra autorità e scelta politica singola, concreta; è un po’ la conseguenza -dobbiamo ragionare su queste cose con coraggio e con lealtà – del grande pontificato che si è concluso. Giovanni Paolo II ha dominato la scena a livello mondiale, ma forse ha finito per schiacciare le Chiese locali, ha ridotto gli spazi del laicato, si è creato una identificazione: Chiesa uguale Papa. Quella del Papa è diventata l’unica voce, le chiese locali, i laici sono stati ridotti al silenzio.Ora bisogna uscire da questa situazione di silenzio delle Chiese locali, bisogna ritrovare il gusto del dialogo, del dibattito, del confronto anche dentro la Chiesa.
Negli anni Settanta c’era un dibattito molto più vivace dentro il mondo cattolico; oggi è silenzio. Questo è un problema delle nuove generazioni. Il cattolicesimo è sì obbedienza, ma è obbedienza in piedi, è obbedienza attiva, è obbedienza lucida e critica che richiede razionalità, che richiede confronto, richiede dialogo. Se il laicato non svolge questo ruolo, alla fine la Chiesa scivola e non resiste alla deriva verso il rapporto di scambio in politica. La destra italiana in questi anni ha favorito il rapporto di scambio (consenso contro determinati favori): ma è un rapporto che non giova né alla religione né, tanto meno, alla laicità dello Stato. Se non c’è una reazione a tutto questo, nel mondo cattolico, nella cultura cattolica che trovi nel mondo laico attenzione e sensibilità se non c’è questo lavoro comune,su che cosa si costruisce il partito nuovo?
Un’ultima osservazione sul relativismo. C’è un aspetto del relativismo che giustamente il Papa rifiuta: l’idea che le affermazioni siano tutte uguali, che non ci sia una differenza fra verità ed errore; su questo siamo d’accordo. Ma se il relativismo è, come lo è oggi nella cultura moderna e nella scienza moderna, il senso del limite, se è il superamento dell’illusione positivistica della scienza che diventa religione alternativa, perché non rendersi conto che gli spazi dell’esperienza religiosa non sono sacrificati ma sono esaltati da una relativizzazione delle certezze umane? Lo diconel libro e mi fa piacere che questo spunto sia stato raccolto anche da autorevoli e colti amici non credenti. Sul senso del limite della scienza e delle certezze umane cresce l’idea di un cristianesimo inteso non come adesione aduna dottrina definitiva, organica, ma come scelta di un evento, che ha toccato la storia degli uomini, un evento che è la presenza della figura di Cristo nella storia;il misurarsi con questo mistero ha segnato la storia umana e l’ha trasformata, l’ha condizionata profondamente. A me sembra che si aprano su questa via prospettive immense alla Chiesa e alla testimonianza cristiana che possono essere molto interessanti anche per il pensiero laico. Si può allora andare ad recupero profondo dell’espressione crociana sul “perché non possiamo non dirci cristiani”, che probabilmente fu dettata a Croce, come mi disse una volta Eugenio Garin, più da preoccupazioni politiche che non da una profonda convinzione culturale.
Perché questa idea del dialogo e della testimonianza fiduciosa si è indebolita, si è infiacchita, è stanca? E’ innegabile che l’unità politica dei cattolici, utilizzata politicamente per un obiettivo positivo come è stato quello di un’opposizione democratica al comunismo, abbia avuto dei costi religiosi e culturali molti alti, di cui ora paghiamo le conseguenze: si sono preferiti la politica e il potere alla cultura; si è sacrificata l’autonomia di giudizio, e la maturità del credente. Bisogna riaprire un discorso culturale su ampia scala, uscire dal silenzio. Il cattolicesimo italiano ha bisogno di cultura, ha bisogno di un dibattito, di un confronto aperto. Questa credo sia la condizione anche per favorire un progresso della politica.
[1] Pietro Scoppola ha pubblicato per le edizioni Laterza nel 2005 il libro “La democrazia dei cristiani. Il cattolicesimo politico nell’Italia unita”.
Intervista a cura di Giuseppe Tognon.
NOTA: testo rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 5.12.2005 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.