Un aspetto sconcertante della vita sul nostra pianeta è che, per vivere, tutti gli animali che lo popolano hanno bisogno di cibo, e che l trovano divorandosi a vicenda. Mors tua vita mea, sembra essere la crudele legge dell’intero ecosistema. Tutti hanno fame, tutti hanno bisogno di mangiare e, di conseguenza, il più forte trasforma il più debole in cibo per sé.
Ci sono dei documentari, su questo tema, che mettono i brividi: animali predatori che inseguono la vittima predestinata, la raggiungono, l’afferrano, la sgozzano e poi se la mangiano con tranquilla voracità, triturandola coi loro denti aguzzi, fatti apposta per questa funzione.
Neanche l’uomo sfugge a questa inesorabile necessità: pensiamo all’enorme quantità di carne di cui si è cibato, nel corso della sua vita, un settantenne, un ottantenne…
Ora, il problema è questo: un Dio onnipotente e buono come può aver pensato e voluto un mondo così spietato? Non poteva crearne un altro in cui gli esseri viventi potessero campare senza mangiarsi a vicenda? Non poteva creare una persona umana che potesse pensare, decidere, pregare, senza aver bisogno, per tutto questo, di fare sterminio di esseri viventi?
Ma lascerò in sospeso questo vero e proprio enigma. Forse bisognerebbe non antropomorfizzare troppo il mondo animale, attribuendogli caratteristiche prettamente umane, quali la coscienza di sé, la consapevolezza di esistere, di soffrire e di morire…
Forse va ricordato proprio qui il discorso di S. Paolo sul creato che soffre e geme in attesa della sua redenzione (cfr. Rm 8, 19-25).
Ma preferisco passare ad altre considerazioni, sempre restando sul tema della fame e del cibo. Ricordo sempre a questo proposito una suggestiva pagina di J. Rivière, che ho trovato citata in un piccolo, prezioso libro di R. Plus sulla Messa.
Ecco quanto narra lo scrittore francese.
Si trovava, nel 1915, prigioniero di guerra a Königsberg, in un lager dove la fame regnava.
Una mattina esce dalla sua baracca e, dal basso poggiolo, guarda giù verso il grande spianale dove i suoi compagni di sventura stanno radunandosi per l’appello. Improvvisamente, essi gli fanno una grande compassione: li vede scarnificati, macilenti, sfiniti, rassegnati… A questo punto ecco che cosa scrive il Rivière: «Ho provato in me d’un lampo il sentimento che deve aver ispirato a Gesù questo dono di sé nella Comunione […] Ora posso immaginare il bisogno assillante di diventare qualche cosa che si possa mangiare, che possa dare forza a chi soffre. Quando si suppone un Essere divino in preda alla carità, questo diventa la sua tendenza più naturale. Dio bisogna considerarlo come sofferente di un amore infinito, che ricorre quasi obbligatoriamente alla Eucaristia, come mezzo per sbarazzarsi di sé, sfuggire al peso dell’amore e confortare gli altri».
Partendo da questo nuovo sentimento di partecipazione, avvertito questa volta con una più profonda intensità, J. Rivière si apre alla fede. Dall’ Eucaristia, nutrimento del mistero, egli passa al Dio così grande nell’amore da farsi, proprio lui, nutrimento per tutti.
Un sentimento del tutto simile aveva già avvertito in sé Paolo di Tarso: «Noi pure, per l’ardente affetto verso di voi , avremmo voluto comunicarvi non solo la buona novella di Dio, ma anche la nostra stessa vita, tanto ci eravate cari» (1 Ts 2, 8).
Donandosi a noi come cibo, Gesù sembra quasi proporci una nuova massima di vita, che rovescia nel suo opposto la dura legge della sopravvivenza stampata nella natura. Non più, infatti, «mors tua vita mea», ma al contrario «mors mea vita tua». Gesù infatti ci nutre con il suo corpo dato sulla croce e ci disseta con il sangue sparso in sacrificio per noi. Egli muore della nostra morte e ci nutre della sua vita divina ed eterna.
«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna» (Gv 6, 4).
Ci potremmo anche chiedere: per quale ragione è eterna la vitacee Gesù ci comunica con la santa Eucaristia? È eterna, perché nell’Eucaristia noi veniamo alimentati da un corpo risorto, già passato attraverso la morte, ed ora immortale, sul quale «la morte non ha più alcun potere» (Rm 6, 9).
E così la vita eterna la stessa di Cristo in noi, una vita che comincia già fin d’ora nel tempo presente. È la vita che il cristiano riceve nel Battesimo, che diventa consapevole di sé nella fede, e che si manifesta nel passaggio dall’indifferenza all’amore.
«Sappiamo che siamo passati da morte a vita perché amiamo i fratelli» (1 Gv 3, 14).
Queste virtù teologali – fede, speranza, carità – nel loro dinamismo di crescita ci consentono di esclamare: «Non sono più io che vivo, ma Cristo che vive in me» (Gal 2, 20).
Questo tema della continuità tra presente (storico) e futuro (escatologico) è fondamentale per l’impostazione cristiana della vita e dovrà essere ripreso più avanti. Il futuro infatti non deve oscurare il presente e la vita eterna non deve renderci noncuranti delle esigenze terrene.
Prima del suo fondamentale discorso sul pane di vita eterna, Gesù aveva sfamato cinquemila persone, moltiplicando per essa pochi pani e pochi pesci messi nelle sue mani.
Così quando ci cibiamo di Cristo, quando cioè ascoltiamo la sua Parola e assumiamo il suo corpo e sangue, riascoltando il comandamento «fate questo in memoria di me», ci rendiamo conto che il Cristo ci domanda di diventare a nostra volta e a tutti i livelli un cibo per gli altri, per i più deboli di noi.
Invitati a sperare, Morcelliana, Brescia 1996, pp.59-63.