1. Per un approccio educativo al problema
Il problema della fame, per essere impostato in maniera radicale, rinvia a quello dello sviluppo. La domanda che non si deve eludere è quindi: come concepire umanisticamente, come aiutare lo sviluppo dei paesi poveri? I mali del sottosviluppo, sia dei paesi industrializzati che dei paesi del terzo mondo, sono attribuibili essenzialmente a cause strutturali dei sistemi sociali occidentali. Se i mali si affrontano alle radici, alle cause “primarie”, le azioni danno dei risultati positivi; se, invece, come di fatto ancora avviene, i mali vengono leniti con azioni anestetiche di copertura, allora i processi di trasformazione sociale rimangono bloccati.
L’approccio “assistenziale” – che finora è stato prevalente – stabilisce che esistono nel terzo mondo dei gravi problemi: le persone, che vengono considerate vittime delle condizioni ambientali, della “loro” ignoranza, e, ormai lo riconoscono tutti, dello sfruttamento degli altri popoli, devono essere aiutate. La dicotomia appare inevitabile: da una parte ci sono gli artefici del progresso, dall’altra i poveri e gli oppressi che attendono di essere salvati e, tramite il transfert tecnico, portati a livelli più alti. Insomma, nel vasto quadro delle costellazioni delle popolazioni, esiste una civiltà che ha il diritto di continuare ad espandersi e proporsi come modello “egemone”. La civiltà ha una sola dimensione e tocca agli altri, s’intende con opportune spinte, collaborare e adeguarsi alle consolidate matrici di sviluppo. All’approccio assistenziale si ispirano alcune forme di intervento, riconducibili a due categorie. Una predilige il settore formativo e agisce sui singoli individui, l’altra cerca di condizionare direttamente le economie e le politiche nazionali e agisce sulle macro-strutture.
La prima, di origine per così dire idealista, pensa che i conflitti o le ingiustizie si risolvano facendo leva esclusivamente sulle condizioni personali; l’altra, invece, agisce direttamente nelle strutture produttive, e, senza alcun rispetto per i “valori” delle culture locali, trapianta modelli di altre civiltà. La prima, molto spesso, si risolve nelle campagne di alfabetizzazione e la seconda nell’imposizione di strutture burocratiche extravertite. Queste terapie del sottosviluppo graffiano i sintomi, ma non risalgono alle cause e sono esse stesse due malattie: la prima è frutto di un’errata generosità, e la seconda di un persistente pregiudizio di superiorità di potenza e di intelligenza. Comune ad entrambi è il mito dell’avere, del dare, ma in un’unica direzione: si dà quello che si sa (da una parte la cultura e dall’altra l’ignoranza) e quello che si ha in sovrabbondanza (da una parte il ricco e dall’altra il povero), a patto però che le fila dei processi di sviluppo vengano comunque controllate dai paesi “donatori”. L’idea dello scambio, dell’interdipendenza, la coscienza dell’essere rimangono a livelli di esortazioni e di principi poiché il fine reale è ricondurre tutti e tutto all’immagine dell’unica civiltà. All’approccio assistenziale manca l’autentica dimensione dell’uomo, che è quella dell’integralità del suo sviluppo, manca il senso storico della vita, manca la fiducia negli altri, manca la dialettica dei rapporti uomo-mondo. L’uomo non è solo individuo, non è solo coscienza e non è solo la risultante dei rapporti economici e produttivi; l’uomo è un essere storico che umanizza il mondo, produce cultura e, con tutti i suoi simili presenti sul pianeta, lavora per il futuro delle società.
Il superamento dell’approccio assistenziale avviene quando, contemporaneamente, si analizzano e si esplicitano tutte le dinamiche dello sviluppo e del sottosviluppo e si costruiscono delle strutture di cooperazione fondandosi sul valore della persona e del bere comune, locale e universale.
Tale approccio non può che definirsi “educativo”, in quanto ha per obiettivo essenziale, partendo dalle fattualità che governano la storia dell’oggi, la promozione plenaria del genere umano. Il problema non è il terzo mondo, ma è il mondo, a cominciare dal nostro, che deve cambiare radicalmente certe proprie strutture se si vogliono eliminare i disastrosi squilibri sociali. L’approccio educativo non si riduce all’estensione che pure è assolutamente necessaria dei processi di scolarizzazione. L’educatore e le popolazioni, invece, si coscientizzano reciprocamente grazie al movimento dialettico tra la teoria e la pratica, tra la riflessione e l’azione, tra un progetto operativo e la sua realizzazione.
Tale approccio comporta l’accettazione consapevole che i problemi drammatici del nostro tempo non si affrontano con i ripiegamenti “conviviali”, con le “immagini bucoliche di società artigianali” (Kende), né con l’immersione nel quotidiano della nostra esistenza che ci fa sfociare in atteggiamenti fatalisti e cinici, né con le vuote esercitazioni di una pseudo-cultura che soffoca la parola e incrementa il silenzio mutilante (Frejre). Sottosviluppo e sviluppo, terzo mondo e “nostro” mondo sono, con le loro accentuazioni, s’intende, dovunque presenti. Il terzo mondo ha al suo interno isole del primo mondo e il primo mondo ha largamente diffuso, in particolare nelle periferie delle città, il terzo mondo. La separazione netta, la divisione, i confini non hanno ormai alcun senso: l’umanità è una, i problemi sono di tutti ed è assurdo continuare a segmentare gli interventi e a farli calare dall’alto o dall’esterno. L’approccio educativo è quindi una risposta complessiva: dalla conoscenza delle cause della povertà, dalla volontà politica di cambiamento, si passa alle diverse modalità d’intervento appropriate alle situazioni locali.
2. Dal progresso economico allo sviluppo integrale
Il programma del primo decennio delle Nazioni Unite per lo sviluppo era centrato sulle dimensioni economiche che si traducevano, per i singoli paesi, nell’aumento dei tassi di crescita. I termini di “progresso”, “crescita”, “sviluppo economico”, “modernizzazione”, “sviluppo integrato” erano utilizzati indifferentemente in tutti i contesti, tutti orientati però verso l’unico parametro del prodotto nazionale lordo. Sviluppo era così sinonimo di efficienza, di produttività, di aumento dei consumi, di “civiltà industriale”, di mercati in espansione, che, simbolizzati in grafici e statistiche, davano gli indici del benessere collettivo.
Dal quadro rimanevano fuori altri problemi che oggi programmaticamente dobbiamo affrontare: il rapporto tra la crescita economica e la “crescita” delle singole persone e delle popolazioni; il rispetto dei valori e delle identità culturali; l’imposizione delle tecnologie con fenomeni di alienazione e disadattamento; la distruzione di prodotti alimentari per esigenze di mercato; la continua dipendenza e marginalità dei paesi poveri; l’aumento della disoccupazione; l’aumento dell’analfabetismo; la grave situazione igienico-sanitaria; lo scandalo delle persone che muoiono di fame; la distruzione dell’ambiente e la scarsa o nulla partecipazione delle persone alle scelte decisionali.
Dalla prospettiva economicistica si escludeva l’uomo e si affermava l’istanza del profitto e della libera concorrenza, a vantaggio dei più forti che sono sempre alla ricerca di spazi da conquistare. Oggi, dopo i fallimenti delle politiche di aiuto, dopo le condanne degli imperialismi, dei capitalismi privati e pubblici, dopo le rivoluzioni fallimentari e le ubriacature ideologiche che hanno solo alimentato illusioni e nuovi, feroci dispotismi, si avverte la necessità di uscire dalla fase della “denuncia” per avviarsi verso processi propositivi di costruzione.
Oggi nessun impegno può essere assunto seriamente, nessuna liberazione dalla schiavitù sociale e dall’ignoranza, dal bisogno e dalla paura, è effettiva, se non sono o non tendono ad essere estese fino ai confini della terra. Lo sviluppo è allora sintesi dell’orizzonte vicino e lontano: il lontano è indice dell’universalità, è riconoscere che esiste un’unica famiglia umana articolata in diversi sotto-insiemi interdipendenti; il vicino è l’immediato, la concretezza, l’impegno quotidiano ancorato alle azioni degli altri uomini che vivono insieme a noi. Lo sviluppo non è compito di qualche persona o di alcune organizzazioni internazionali, o dei cosiddetti paesi ricchi, ma riguarda tutti indistintamente, sia pure con compiti e responsabilità diverse. Non è né rivoluzione, né adattamento a modelli già sperimentati, né produzione di nuovi miti; è trasformazione della società e degli uomini, è mobilitazione di tutte le risorse umane, è valorizzazione del potenziale creativo di tutte le popolazioni, è lotta contro la miseria e la fame, è liberazione da ciò che limita la piena realizzazione dell’uomo, è impegno di giustizia sociale. Per noi lo sviluppo deve avere nell’uomo l’elemento centrale e il fine ultimo, l’agente e il “beneficiario”, dev’essere endogeno, saper utilizzare le risorse naturali ed umane dell’ambiente nel rispetto delle tradizioni, delle attitudini, delle aspirazioni, dei valori sociali e culturali e delle caratteristiche ecologiche; suppone, infine, la riorganizzazione e la trasformazione delle strutture sociali ed economiche che ostacolano le scelte di autonomia.
In sintesi: l’aiuto più proficuo e della più alta qualità umana è quello che tende con tutte le sue forze a suscitare dei partner e non a perpetuare l’assistenza. Lo sviluppo è finalizzato alla crescita di autonomia.
NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 9.11.1984 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.