Non v’è dubbio che l’interpellanza della fame si fa sempre più drammatica. Se consideriamo i dati del problema, non possiamo rimanere indifferenti. Non foss’altro perché un mondo così spaccato in due dalla violenza, dall’ingiustizia e dalla miseria non ha futuro e, anzi, ingigantisce ogni giorno di più la collera dei poveri, con conseguenze imprevedibili, come ricordava nel marzo del 1967 papa Montini con acuta analisi nello storico documento sullo sviluppo dei popoli. A questa interpellanza va data una risposta: pertanto la domanda “che cosa fare?”, posta dagli organizzatori dell’incontro a stimolare la nostra responsabile attenzione, assume un’importanza fondamentale. Sta a dimostrare che siamo convinti che la fame degli altri è affar nostro, è cosa che ci riguarda da vicino. E non è poco!
Occorre però essere consapevoli che il dramma della fame nel mondo è un problema complesso. Sono numerosi i fattori che lo determinano e, conseguentemente, la sua soluzione, alla radice, presuppone l’organico ed armonico compenetrarsi di tutte le varie componenti: economiche, politiche, tecniche, sociali, religiose, culturali. Non esiste, quindi, una risposta univoca, bensì varie possibili risposte; e queste per essere vere, efficaci, “umane” devono inevitabilmente presupporre sia l’ascolto dei bisogni primari che l’apprezzamento, la stima dei valori fondamentali dei popoli della fame. L’ascolto, però, esige conoscenza: una conoscenza ricca di simpatia, di profondo rispetto, di umile approccio all’anima di quei popoli la cui sorte ci sta a cuore. Conoscere significa sempre stimare, condividere, non presupporre, non pregiudicare secondo gli schemi mentali d’uso corrente. Conoscere vuol dire mettere in valore ed insieme pensare su misura di fatti e situazioni concrete. L’ignoranza della realtà umana dei nostri interlocutori e delle loro effettive condizioni è, invece, molto diffusa a tutti i livelli, persino tra quei politici che pure sono animati di rette intenzioni.
E’ questo, dunque, l’impegno preliminare cui dobbiamo sentirci vincolati: conoscere e far conoscere la realtà della sofferenza nel mondo, nonché le ricchezze spirituali dei popoli che soffrono la fame. Lo dico a ragion veduta, con l’esperienza di Mani Tese, che opera da decenni con una sua metodologia contro la fame e per lo sviluppo dei popoli. Si parte sempre dall’informazione, dalla sensibilizzazione, dalla coscientizzazione delle persone; allora soltanto si può operare con intelletto d’amore nei paesi economicamente più poveri del mondo, con interventi diretti, con progetti integrati di promozione umana e con l’invio di volontari appositamente preparati. In vent’anni sono ormai oltre mille le “microrealizzazioni” a cui abbiamo dato vita e per un valore superiore ai venti miliardi di lire: cifra messa insieme – ed è la cosa più stupefacente – da centinaia di migliaia di persone che hanno dato una risposta immediata, secondo le proprie possibilità, all’inquietante interrogativo “che cosa fare?” riproposto alla nostra attenzione.
Se il nostro impegno nel conoscere e far conoscere la realtà della sofferenza e della fame nel mondo è veramente serio, onesto, obiettivo e costante, ci rendiamo subito conta di una verità incontrovertibile: volendo concretamente ed efficacemente essere solidali coi popoli della fame, non possiamo restare noi quelli che siamo. La fame degli altri è la controfigura della nostra sazietà. La fame nel mondo è l’altra faccia del nostro spreco, la conseguenza di un benessere le cui radici da secoli affondano nella miseria dei paesi poveri. Lo ricordava proprio qui a Brescia pochi giorni fa, nella sala del Palazzo Loggia straripante di giovani, Helder Camara: “Senza cambiamenti di mentalità e di linee operative nei vostri paesi ricchi, i necessari ed urgenti cambiamenti nei nostri paesi poveri non serviranno a nulla!”.
L’interpellanza dei popoli della fame deve spingerci a verificare criticamente e a condannare aspetti vergognosi e inquietanti del nostro progresso, a mettere in discussione il nostro livello di vita, a ripensare la difesa e la salvaguardia dei nostri cosiddetti “diritti acquisiti”; e, fra questi, non possiamo certo conservare il diritto di rapina, imposto da quei meccanismi diabolici che rendono i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Occorre chiederci “da dove” vengono le materie prime con le quali ci alimentiamo, ci vestiamo, lavoriamo. Noi godiamo di tante comodità ed essendo lì, a nostra disposizione, non sospettiamo neppure che il superfluo degli uni nasce dall’indigenza degli altri. Basti dire che alimentiamo i nostri animali col 50% dei cereali prodotti nel mondo. E così le malattie del benessere passano dagli uomini ai loro animali, mentre milioni di uomini muoiono di fame e di sete. Danni ecologici spaventosi sono stati provocati, ad esempio, nella zona del Sahel: si sono eliminati quasi 3.000.000 di ettari di bosco per far posto alla coltivazione del cotone e delle arachidi, che servono a noi, ma l’equilibrio ecologico è stato rovinato provocando l’attuale siccità, che porta con sé lo strazio della fame e della morte.
Due sono i versanti dell’azione a cui siamo chiamati. Poiché si deve far subito tutto ciò che va fatto, occorre moltiplicare e razionalizzare le “microrealizzazioni”, non rinviare le risposte urgenti e immediate che ciascuno di noi a livello personale, di famiglia, di gruppo, di comunità ecclesiale e civile può e deve dare. Ma è altrettanto urgente un’azione a livello politico, di denuncia, di pressione morale ed economica, perché l’attuale disordine nei rapporti fra i popoli ceda il posto gradualmente ad un nuovo assetto democratico mondiale basato sulla solidarietà, sulla giustizia, sul rispetto dei diritti dei popoli.
Da questa soluzione dipende l’avvenire, lo sviluppo, la pace per tutta l’umanità. Ma questo cambiamento non sarà indolore. Bisogna che ne siamo convinti e preparati. Anche per facilitare questa nuova educazione alla mondialità alcune associazioni dell’area cattolica (e Mani Tese e la FOCSIV sono tra queste) hanno dato vita ad un “Comitato ecclesiale di opinione contro la fame nel mondo”. Il primo messaggio che stiamo diffondendo è proprio in questa prospettiva: contro la fame, cambia la vita. Occorre umanizzare la vita individuale, personale di ciascuno, come i rapporti internazionali, se vogliamo veramente che il nostro ascolto della drammatica interpellanza che sale dai popoli della fame sia senza menzogna. Credenti e non credenti dobbiamo mutar vita e rinunciare a privilegi intollerabili, che calpestano i diritti dei popoli sfruttati e sempre più ci murano nel nostro egoismo.
La coscienza civile e politica deve incontrarsi su questo grande tema con la coscienza morale e religiosa; occorre unire e moltiplicare gli sforzi di tutti se vogliamo consegnare ai nostri figli, alle soglie del terzo millennio dell’era cristiana, un mondo più giusto e più umano, per tutti.
Non possiamo rassegnarci al più vergognoso scandalo del nostro tempo: la morte per miseria e per fame di tanti milioni di persone. L’umanità dispone di mezzi sufficienti sia a cancellare la vita dal nostro pianeta, sia a eliminare da esso la miseria. Se la prima possibilità è l’ipotesi proibita, la seconda è l’impresa comune, il grande compito collettivo da portare a termine. E al più presto.
NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 9.11.1984 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.