Sebbene siano stati compiuti grandi progressi nell’attirare l’attenzione della gente e dei governi dei diversi paesi del mondo sulla miserevole condizione di centinaia di milioni di persone affamate nei paesi poveri, vi è ancora una certa confusione riguardo agli elementi fondamentali che caratterizzano la fame, la malnutrizione e la povertà assoluta. Chi sono i veri affamati, i veri malnutriti e coloro che vivono nella povertà assoluta? Come quantificarli e descriverli, quali le strategie per eliminare tali fenomeni?
Mancando un accordo a questo livello di indagine, ogni sforzo di pianificazione e di organizzazione di programmi per alleviare la fame, eliminare la malnutrizione ed innalzare i livelli di vita sopra il limite della povertà, pecca fortemente di mancanza di realismo e genera non poche delusioni con i suoi magri risultati a fronte di tanta buona volontà e di tanta generosità. Occorre quindi ridefinire tali fenomeni in modo da capire le realtà che rappresentano, analizzare nuovamente le cause dei loro persistere ed operare una seria valutazione, delle strategie e degli sforzi realizzati per trasformare la vita di quanti soffrono di simili calamità.
Sin dal 1980, nel suo WORLD DEVELOPMENT REPORT, la Banca Mondiale a Washington ha tentato di fornire una definizione chiara della povertà assoluta e di valutarne le dimensioni a livello mondiale. Secondo tale Rapporto, la povertà assoluta va definita come «una condizione di vita a tal punto caratterizzata dalla malnutrizione, dall’analfabetismo e dalla malattia da trovarsi al di sotto del livello di qualsiasi ragionevole definizione della dignità umana».
Questa è senz’altro una definizione della povertà, nel senso di uno stato di miseria assoluto, che può essere applicata efficacemente in qualsiasi parte dei mondo abitata da una comunità umana. La fame è nel contempo il marchio e il segno di tale assoluto abbandono soprattutto allorchè si verifica in forma continua e duratura per un lungo periodo di tempo.
Tuttavia, e il Rapporto lo rileva, «all’interno di ogni particolare società e per ogni epoca, la povertà viene spesso (e per molte ragioni dovrebbe essere) definita relativamente agli standard di vita medi. Sarebbe ad esempio errato usare lo stesso livello di povertà per valutare una politica in Argentina o, poniamo, nel Bangladesh. La povertà relativa è un concetto importante anche per la profonda influenza che la distribuzione delle proprietà, dei redditi e dei potere esercita sulle prospettive di riduzione della povertà assoluta».
Il Rapporto inoltre ammette la difficoltà di misurarne le dimensioni. In primo luogo la povertà assoluta non è soltanto sinonimo di basso reddito, sia esso familiare o personale; essa include anche la malnutrizione, la cattiva salute, l’analfabetismo. Non tutti i poveri sono colpiti in egual misura dalle carenze or ora elencate. Perciò, dove va messa la linea di demarcazione tra i poveri ed il resto della comunità? Inoltre, come calcolare e paragonare i redditi e gli standard di vita in tempi e luoghi diversi con metodo sufficientemente adeguato, in grado di fornire un quadro soddisfacente della reale situazione?
Uno studio congiunto FAO/WHO, pubblicato nel 1973, fornì le seguenti raccomandazioni basate su misurazioni dell’assunzione di energia eseguite su soggetti attivi e sani, corrispondenti al fabbisogno di un individuo di riferimento, vale a dire di un adulto maschio sano ed in attività, fra i 20 e i 40 anni, impegnato in un’attività lavorativa moderata e con 65 kg di peso. Per tale individuo, si calcolò che una media di 2700 – 3000 calorie giornaliere, sarebbero state sufficienti. Allo stesso modo, per una donna di riferimento, dei peso di 55 kg, vennero prescritte 2000 – 2200 calorie e cosi si calcolarono :i fabbisogni calorici per i bambini e gli adolescenti, sia maschi che femmine. Mettendo insieme tali misure per una famiglia, il fabbisogno calorico complessivo venne usato per determinare il livello base della linea della povertà e quindi per misurare l’incidenza della povertà e della fame nel mondo. Basandosi su questi ed altri studi consimili, la Banca Mondiale ha stimato che il numero di persone che vivono in assoluta povertà nei paesi in via di sviluppo (escludendo la Cina e le altre economie a pianificazione centralizzata) si aggira intorno ai 780 milioni (1979-80). Da altre fonti si era inoltre a conoscenza che nel 1975, vi erano circa 600 milioni di adulti analfabeti nei paesi in via di sviluppo, e che nel 1978, 550 milioni di persone vivevano in paesi con una speranza media di vita sotto i 50 anni, e 400 milioni in paesi con un tasso annuo di mortalità fra il primo e il quarto anno di più dei 20 per 1000, venti volte quello dei paesi industrializzati.
In quali paesi dei mondo in via di sviluppo si concentrano questi poveri? La metà vive nell’Asia del Sud, soprattutto in India e in Bangladesh. Un sesto vive nell’Est e nel Sud – est asiatico, soprattutto in Indonesia. Un altro sesto nell’Africa subsahariana. Il resto, vale a dire 100 milioni di persone circa, sono divisi fra l’America Latina, il Nord Africa e il Medio Oriente. La grande maggioranza dei poveri abita nelle campagne, dipende totalmente dall’agricoltura, ed è in gran parte costituita da braccianti agricoli. Alcuni gruppi minoritari come ad esempio gli Indiani in America Latina e certe caste in India sono sovrarappresentati fra i poveri. Ed è stato inoltre osservato che la povertà tende a permanere in determinate zone ed in certe famiglie e certi gruppi sociali protraendosi di generazione in generazione.
I poveri sono costretti a sopravvivere con un livello di assunzione di cibo che non consente di arrivare alle 2250-2400 calorie giornaliere. Questa è solo una media grezza e solleva il problema di chi rappresenti veramente il cosiddetto uomo di riferimento e come sia possibile calcolare il minimo fabbisogno calorico.
E’ noto che le raccomandazioni FAO/WHO erano basate su misurazioni del livello di assunzione di energia effettuate su individui sani ed attivi. E’ parimenti noto che il valore di 2250 calorie rappresenta una misura media dell’assunzione di calorie. Naturalmente ad una media si giunge mettendo insieme i risultati di un gran numero di cifre diverse. Se la curva è normale, ciò significa che metà delle persone ha consumi di livello inferiore alla media, e che l’altra metà consuma invece più della media. Nel nostro caso però, nella scelta del livello di assunzione calorica, il valor medio deve essere rigettato; per determinare a che livello va tracciata la linea della povertà bisogna invece scegliere l’assunzione minima.
Va sottolineato il fatto che la metodologia usata dalla FAO per misurare le dimensioni mondiali della denutrizione ed identificare i denutriti, differisce da quella della Banca Mondiale. La FAO attribuiva una maggiore importanza ai Fogli di Bilancio Alimentare, approntati da un gran numero di paesi e che rivelano a livello nazionale l’impatto dei trends di crescita della produzione alimentare ed agricola e della popolazione sulle forniture alimentari pro capite in termini di calorie, proteine e grassi. Essi forniscono inoltre dei dati per ciascun alimento, sulla produzione familiare complessiva, sulle importazioni di derrate alimentari, sulle variazioni delle scorte alimentari, ecc. Rivelano infine come viene usato l’approvvigionamento di derrate alimentari, vale a dire quantità esportate, destinate al bestiame, usate come sementi, inviate alla produzione, perdute durante il trasporto e lo stoccaggio, e quelle disponibili al dettaglio per l’alimentazione umana.
A partire da tutti questi dati, è possibile calcolare la quantità pro capite disponibile per ogni alimento, dividendo la quantità complessiva destinata al consumo umano per l’ammontare di una data popolazione, ed esprimendola in termini di calorie, di proteine e di grassi in essa contenuti. E’ sulla base di tali calcoli nel contempo globali e dettagliati eseguiti sui fogli di bilancio alimentare che sono state predisposte delle tavole statistiche. Ma è altrettanto chiaro che siffatte tavole ben poco possono dire sulla reale distribuzione delle forniture alimentari all’interno dei vari paesi. Esse consentono esclusivamente di formulare ipotesi di massima sullo stato del deficit calorico. Ma ciò significherebbe che il fabbisogno calorico pro capite è già stato calcolato. Ed è proprio la differenza tra le forniture alimentari pro capite ed il fabbisogno alimentare pro capite a misurare il deficit calorico.
Nella tavola presentata alla Conferenza Biennale FAO nel novembre 1981 la FAO ha preso per base un fabbisogno nutrizionale medio fra le 2100 e le 2600 calorie giornaliere per persona, tale cifra variando a seconda dei vari paesi, con un massimo per l’Argentina (2.650 calorie) ed un minimo per l’Indonesia (2.160 calorie).
La FAO commenta questa tavola dicendo che essa presenta il quadro di un progresso non uniforme nell’ambito della campagna per il conseguimento degli standard nutrizionali in tutti i paesi ed in tutte le popolazioni. Confrontando il triennio 1978-80 col precedente triennio 1975-77 risulta chiaro che 29 nazioni hanno migliorato la propria posizione e che solo 11 presentano una situazione peggiorata. Si può inoltre affermare, nello stesso periodo di confronto, che il numero dei paesi al di sotto dello standard nutrizionale medio è caduto da 23 nei 1975-77 a 18 nel 1978-80. Prendendo un periodo ancor più lungo, vale a dire effettuando il confronto tra il triennio 1978-80 ed il triennio 1969-71, si può notare un miglioramento per 28 paesi ed un peggioramento per 13 (Etiopia, Ghana, Costa d’Avorio, Kenia, Mozambico, Tanzania, Uganda, Zaire, Perù, Bangladesh, Nepal, Sri Lanka e Tailandia). Di queste 13 nazioni, 8 sono Africane, il che mostra come il continente africano sia stato il più duramente colpito dalla scarsità delle derrate alimentari.
Infatti, delle 11 nazioni che mostravano un peggioramento nella lotta per il conseguimento degli standard calorici tra il 1978-80 ed ili 1975-77, nove erano Africane. Inoltre, dei 14 paesi Africani inclusi nella tavola, solo 5 avevano migliorato la propria posizione, mentre 9 l’avevano peggiorata. Per contro 8 nazioni su 10 in America Latina e 6 su 8 in Medio Oriente avevano migliorato la loro posizione, mentre 3 delle 4 restanti nazioni erano rimaste allo stesso livello di consumo alimentare.
Un’ulteriore analisi della tavola rivela che il 40% dei paesi possedeva una fornitura media di derrate pro capite inferiore ai fabbisogni medi pro capite a livello energetico o nutrizionale. Inoltre in 10 delle 18 nazioni in cui le forniture energetiche del regime alimentare erano inferiori agli standard richiesti, la carenza superava il 10%. Queste nazioni erano l’Etiopia, il Ghana, il Kenia. il Mozambico, la Tanzania, l’Uganda, il Bangladesh, il Nepal, la Bolivia ed il Perù. Per contro, solo un paese Africano, e più precisamente la Costa d’Avorio, era incluso nei 10 paesi le cui forniture complessive eccedevano dei 110% i minimi standard nutrizionali richiesti.
Disgraziatamente, paesi come il Vietnam il Laos e la Cambogia nei quali il problema della fame è acutissimo, così come l’intera Regione dei Sahel e dei Ciad non sono stati inclusi nella lista.
Tuttavia, oltre agli sforzi per ottenere informazioni sulle disponibilità delle forniture alimentari e sui deficit calorici nazionali, l’analisi è stata successivamente estesa a scoprire i fabbisogni nutrizionali di ogni individuo, in modo da riuscire finalmente ad identificare i denutriti. A tale scopo è stato determinato un cosiddetto “limite critico” al di sotto del quale non si dovrebbe mai cadere. Esso deriva dagli studi effettuati sulla richiesta energetica di base del corpo umano. In altri termini, il corpo umano è simile ad una macchina che utilizza l’energia chimica contenuta negli alimenti ingeriti. Ora, dato che tale processo è continuo, vi è una continua dipendenza dai consumi alimentari, per sostituire alcune parti che lo compongono, per sintetizzare nuove sostanze organiche in un continuo processo di “manutenzione”. Anche quando il corpo è allo stato di riposo vi è una certa richiesta energetica, nota come metabolismo basale. Nel 1973 un Comitato di Esperti FAO/WHO ha calcolato il numero minimo di calorie richieste dalle necessità di base dei corpo umano, non solo in periodo di riposo ma anche quando è in attività. Essi hanno definito tale minimo pari a una volta e mezza la Quota Metabolismo Basale.
Dato che questa QMB sembra variare di un 10% da individuo a individuo, si è stabilito il “livello critico” pari a 1 volta virgola 2 la QMB. Usando questo limite si può affermare che le persone con un consumo alimentare inferiore ad 1,2 QMB saranno con ogni probabilità obbligate a sopravvivere con quantità di cibo insufficienti a consentir loro una vita piena, sana, ben sviluppata ed attiva. Tutte queste persone soffrono di una qualche forma di carenza energetica, sono denutrite.
Il “limite critico” determinerà la percentuale di denutriti all’interno di una popolazione nazionale così come il loro reale numero. Le stime effettuate per stabilirne il numero hanno fornito 360 milioni nei paesi in via di sviluppo, escludendo le economie a pianificazione centralizzata dell’Asia, nel 1969-71. Non vi sono stime confrontabili per i periodi precedenti. Ma nel 1974-76 il loro numero era salito, stimato intorno ai 415 milioni di persone: 68 milioni (pari al 22% in Africa), 286 milioni (pari al 27% in Estremo Oriente), 41 milioni (pari al 13% in America Latina) e 19 milioni (11% dei totale nei Vicino Oriente).
In una nuova stima pubblicata dalla FAO nel 1981, la cifra complessiva dei denutriti calcolata sugli anni 1974-76 era di 435 milioni, quantunque i denutriti siano oggi in proporzione inferiore al 22% stimato per il periodo 1974-76.
Uno dei risultati più ovvi di questi studi, eseguiti da due dei più importanti organismi delle Nazioni Unite è che essi rivelano una differenza nel numero di persone affamate e malnutrite invero assai sconcertante. Ma è giusto fare eccessivo affidamento su cifre che derivano da stime basate su dati statistici limitati? Che si adotti la stima della Banca Mondiale di 800 milioni di persone che vivono nella povertà assoluta o i 450 milioni della stima FAO che vivono sotto il “livello critico” di 1,2 QMB il fatto è che il compito di ristorare una tale fame e di eliminare tale povertà assoluta richiede massicci investimenti ed aiuti da parte dei paesi sviluppati.
Vale però la pena di insistere sulla differenza tra denutrizione e povertà assoluta. E’ chiaro che mentre la denutrizione deriva soltanto dall’assenza di un sufficiente consumo alimentare, la povertà assoluta ha un significato più ampio e include l’analfabetismo e l’incidenza delle malattie. Si potrebbe essere quindi tentati di formulare una scala di priorità ponendo al primo posto l’assistenza alla fame occupandosi successivamente dell’alfabetizzazione ed infine della lotta alle malattie derivanti dalla fame. Nella pratica tuttavia, bisogna rendersi conto che l’attacco alla fame è di natura complessa, strettamente intrecciato com’è alla capacità di saper leggere e scrivere ed alla prevenzione delle malattie. Lo sforzo va quindi fatto nelle tre direzioni, simultaneamente.
Ora è giusto ritenere che il principale protagonista nella lotta contro la fame e la malnutrizione sia lo stesso Stato nazionale. Visto che esiste in tali paesi in via di sviluppo un forte senso della sovranità nazionale, è a loro che spetta il compito di accertarsi che le loro popolazioni escano dallo stato di povertà assoluta.
Di conseguenza, la strategia oggi condivisa nella lotta contro la fame è bilaterale, accrescere le forniture alimentari e combinare tale sforzo con misure atte a ridurre gli squilibri nella distribuzione di queste aumentate disponibilità alimentari. Le politiche atte a migliorare la distribuzione delle derrate alimentari implicano l’aumento del potere d’acquisto dei denutriti attraverso un loro adeguato impiego produttivo, attraverso una veloce ed efficace realizzazione delle riforme agrarie, migliorando il mercato delle derrate alimentari ed i sistemi di distribuzione che richiedono mezzi di trasporto, pianificando una maggiore produzione di sostanze alimentari meno care e ad alto valore calorico, cosi come un’opportuna ed efficace assistenza ai diseredati delle campagne ed ai coltivatori a livello di sussistenza, soprattutto in periodo di scarso raccolto o di siccità.
Visto che l’autosufficienza alimentare è l’obiettivo dichiarato dei paesi a basso reddito e con deficit alimentare, quale potrebbe essere il ruolo dei surplus alimentare e quello dei paesi industrializzati nella lotta contro la fame?
E’ abbastanza evidente che il ruolo che essi devono avere è in primo luogo quello di offrire con generosità il loro surplus alimentare e di provvedere ad un’assistenza finanziaria, specialmente in periodi di emergenza quando più acuto si fa il bisogno di derrate alimentari. In secondo luogo devono prodigarsi per conseguire l’obiettivo a più lungo termine dell’autosufficienza dei paesi con deficit alimentare se non proprio a livello nazionale per lo meno a livello regionale.
Per far sì che questi aiuti siano efficaci, è importante che l’aiuto riesca a raggiungere i gruppi più bisognosi. La responsabilità è soprattutto dei governi nazionali, ma le ragioni del fallimento che si verifica a questo riguardo sono anche dovute alla mancanza di trasporti, alla scarsa efficienza nel trattamento degli alimenti, agli interessi commerciali privati, ed alle pressioni politiche. Oltre all’assistenza diretta, rimane il compito di aiutare l’edificazione di infrastrutture economiche e sociali nei paesi poveri senza le quali non è possibile ottenere la crescita dei livelli d’acquisto da parte dei gruppi più poveri. Per aumentare la locale produzione alimentare, bisogna orientarsi su programmi concreti di forniture di fertilizzanti e di buone sementi, di messa a punto di piani di irrigazione, di bonifica delle terre incolte, di rifornimento di acqua potabile, di costruzione di strade e di mercati locali.
Sono i programmi a lungo termine, che cercano di far raggiungere l’autosufficienza e di realizzare lo sviluppo economico, ad essere i fattori più importanti nella lotta contro la fame e la malnutrizione.
Infine, l’accresciuta consapevolezza della difficile situazione dei paesi a basso reddito e con deficit alimentare, cosi come la crescente interdipendenza dell’economia mondiale, in cui ogni paese, ricco o povero che sia, non
può vivere isolato, rappresentano una nuova dimensione della politica globale oltreché del pensiero che non può più essere ignorata. Esse hanno specifiche conseguenze nella revisione delle politiche protezionistiche di un certo numero di paesi ricchi per quanto riguarda le loro relazioni con il Terzo Mondo.
E’ per tutte queste ragioni che si è fatto uno sforzo per ottenere una stima più precisa della fame nel mondo, per analizzare le metodologie che tale stima siano in grado di migliorare, per identificare i bisogni e per riadeguare le strategie destinate ad eliminare la fame e la povertà assoluta, cosi intimamente legate alla divisione internazionale della ricchezza ed al suo progressivo aumento.
NOTA: testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 11.2.1982 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.