La figura di Sophie Scholl è stata presentata da Paolo Ghezzi nel suo libro con grande efficacia narrativa, con precisa e aggiornata documentazione sulle fonti e sulle più recenti ricerche, con la delicatezza e il pudore che le ricostruzioni delle storie personali attraverso i diari, le lettere, le confidenze dei familiari e degli amici sempre esigono.
Sophie Scholl, con il fratello e gli amici, aveva fatto proprio il motto del filosofo Jacques Maritain «Il faut avoir l’esprit dur et le coeur tendre [bisogna avere un cuore tenero e uno spirito duro]».
Noi dobbiamo chiederci se a noi non sia capitato di rovesciare paradossalmente questo motto al punto da ritrovarci ad avere «uno spirito tenero, ossia molle, e un cuore duro». Per toglierci da ogni eventuale imbarazzo abbiamo fatto la stessa operazione perfino sulla fonte di quel motto, ossia lo stesso Maritain, scordando le sue pagine contro la guerra di Spagna, la sua ammirazione per Gandhi, il suo senso drammatico del conflitto del cristiano nella storia e dunque la sua riflessione sul martirio, scordando la sua scelta di trascorrere gli ultimi anni della sua vita nella comunità dei Piccoli Fratelli di Gesù, e trasformandolo insomma in un filosofo della mediazione intesa banalmente come accomodamento.
E in questa filosofia dell’accomodamento occorre domandarci se non abbiamo perso per strada la dimensione di reale opposizione – il Gegensatz guardiniano – che il conflitto tra le due città – quella terrena e quella celeste – ha. Lacerazione esistenziale, reale, fattuale, che macina gli esseri finiti secondo l’immagine agostiniana del torchio che spreme le olive e spremendole divide l’olio dalla morchia. «Il mondo – scrive Agostino in uno dei suoi Sermones (XXIV, 11) – è come un torchio che spreme. Se tu sei morchia, vieni gettato via; se sei olio, vieni raccolto. Ma essere spremuti è inevitabile. Soltanto osserva la morchia, osserva l’olio. La spremitura ha luogo nel mondo: attraverso la fame, la guerra, l’indigenza, la carestia, il bisogno, la morte, la rapina, la cupidigia; queste sono le miserie dei poveri e le calamità degli stati: noi le sperimentiamo […]. Vi sono uomini che oppressi da queste calamità si lamentano e dicono: “come sono cattivi i tempi cristiani …”. Questa è la morchia, che defluisce dal torchio nei canali di scolo: il suo colore è nero, perché essi bestemmiano: non risplende. L’olio ha splendore: poiché qui è un altro genere d’uomo che subisce la stessa pressione e torchiatura, che lo depura – non è stata infatti una torchiatura a raffinarlo così?».
Il ricorso ad Agostino non paia una forzatura: era una delle letture preferite di Sophie Scholl. Molto Agostino è stato letto e meditato in questa temperie novecentesca quando un nuovo Alarico aveva operato un nuovo sacco di Roma e ci si interrogava sul fine e sul significato della storia.
«Bisogna avere uno spirito duro e un cuore tenero». Bisogna avere un cuore tenero per sentire il patire degli altri e non passare oltre, per decidere di dare la propria vita per gli altri. Ma bisogna avere uno spirito duro per restare fedeli a questa decisione. Fa una certa impressione che negli anni in cui si celebrava il trionfo degli uomini d’acciaio sia una ragazza di vent’anni a tracciare con la propria esistenza il più autentico e provocatorio elogio della durezza dello spirito.
Ma se oggi il nostro ascolto si fa grave è anche perché tutti avvertiamo che la grande macchina sacrificale si è rimessa in moto, il mostro affamato di sacrifici umani si è risvegliato.
Paolo Ghezzi ha sottolineato con forza l’importanza dell’esperienza della guerra nella maturazione della scelta resistenziale da parte dei giovani della Weisse Rose. La guerra, il fronte russo. Come non pensare alle storie di altri giovani, uno fra tutti Teresio Olivelli, che sullo stesso fronte, di fronte alla drammatica sconfitta, di fronte al «seminio di morti, morti fatti di ghiaccio, stravolti, insepolti» commentava: «Troppo grande è il sacrificio, troppo difficile imprimergli un senso, conferirgli una ‘utilità’»[2]? Anche per Sophie Scholl questo sacrificio richiesto dalla grande macchina del Leviatano non ha senso: «Io non posso capire – scrive al fidanzato – come sia possibile che d’ora in poi ci siano uomini in costante pericolo di vita a causa di altri uomini. Non potrò mai capirlo e lo trovo spaventoso. E non dirmi che è per la patria».
Nella tragedia della guerra l’inganno della grande macchina sacrificale appare in tutta la sua nuda insensatezza. Il Novecento aveva celebrato al suo inizio la guerra come luogo supremo di ritrovamento del ‘senso’ della vita e perfino della morte: «la guerra – scriveva Max Weber negli anni della Prima Guerra mondiale – dà al guerriero qualcosa di unico nel suo significato concreto: il sentimento di un senso e di una consacrazione della morte, che appartiene solo alla morte in guerra […] qui nella morte sul campo […] l’individuo può credere di sapere che muore ‘per’ qualcosa»[3]. Ma era morire per la patria, morire a migliaia di chilometri dalla patria, in una guerra non difensiva, ma offensiva? Il luogo supremo del senso della morte non rischiava di capovolgersi nel luogo della sua tragica insensatezza?
«Era nostra convinzione – scrive Sophie dopo Stalingrado – che la guerra per la Germania sia perduta e che ogni vita umana che viene offerta per questa guerra perduta sia sacrificata invano. In particolare le vittime richieste da Stalingrado ci hanno indotto a intraprendere qualcosa contro questo spargimento di sangue, a nostro parere insensato».
Risuonano queste parole drammatiche: «invano», «insensato». E risuonano sulla bocca di persone che certo non potevano essere accusate di viltà, di egoismo, di desiderio di sottrarsi al dono supremo di sé, giacché di lì a poco non avrebbero esitato a compiere questo passo. Ma non certo per la grande macchina sacrificale che esigeva come “necessari” i sacrifici umani, che cementava la comunità del popolo attraverso la pratica della morte.
Eccola lì sempre in agguato la mistica politica della morte: la guerra necessaria, il sacrificio necessario, è necessario che l’individuo si sacrifichi, le parti devono essere pronte a morire per il bene del tutto. La mistica politica della morte gioca e confonde e mescola il grande atto del dono libero di sé per gli altri, il dare la vita, con l’atto abietto e mai divino del togliere la vita ad altri. Se c’è grandezza nel dare la vita per gli altri, una grandezza di fronte a cui sempre occorre inchinarsi, non c’è nessuna grandezza nel toglierla.
In questo Sophie è davvero una novella Antigone. L’intuizione di Italo Lana e di Matteo Perrini è profonda. Come allora anche qui è una ragazza a svelare la natura sacrificale del potere che si vuole assoluto e ad opporsi ad esso. Nelle parole di Creonte si trova scolpito l’orgoglio di ogni tiranno: «colui che la città si è scelto per guida, lui bisogna ascoltare, anche nelle cose di minor conto, e in ciò che è giusto e che giusto non è [… perché] non esiste danno più grande dell’anarchia. Essa abbatte gli Stati, sovverte le case, rompe in guerra le schiere alleate, provoca la rotta. La disciplina, invece, può salvare molte vite ben governate» (Antigone). La guida, il Führer, va seguito in ciò che è giusto e in ciò che è ingiusto.
Nella tirannide il potere si colloca al di là del giusto e dell’ingiusto, al di sopra di ogni giustizia. Ma proprio questo Antigone non accetta e ribatte a Creonte: «io non credevo che i tuoi divieti fossero tanto forti da permettere a un mortale di sovvertire le leggi non scritte, inalterabili, fisse degli dei: quelle che non da oggi, non da ieri vivono, ma eterne». E nemmeno Sophie Scholl può accettarlo: «Anche se non capisco molto di politica, e non ho nemmeno l’ambizione di capirla, tuttavia possiedo un pochino il senso di che cosa è giusto e di che cosa è ingiusto, perché questo non ha nulla a che fare con la politica e con la nazionalità. E mi viene da piangere, per come sono crudeli gli uomini nella grande politica, come tradiscono i loro fratelli solo per averne un vantaggio. Non è scoraggiante, alle volte?»
Antigone e Sophie non riescono a piegarsi a questa logica di un potere assoluto che richiede come prova di fedeltà il tradimento del fratello, che vuole recidere ogni legame dell’individuo con un altro, perché vuole che l’individuo sia legato solo a sé. Ogni altro legame, in quanto legame, è sovversivo. E perciò va reciso, eliminato. «Con la tua morte ho tutto» dice Creonte. Ma dicendo questo è lo stesso tiranno che riconosce la sua debolezza, la sua finitezza, la sua non assolutezza. Ha gli eserciti dalla sua parte, ha le masse ai suoi piedi, ha i poteri materiali che si inchinano a lui. Perché ostinarsi contro questo frammento infinitesimale che gli resiste? «Con la tua morte ho tutto». È il tutto che vuole, il tutto che non tollera che nessuna fedeltà ad altro possa rimanere in piedi. Basta dunque che un singolo essere, che una ragazza, rimanga in piedi, per svelare la non assolutezza del potere, la sua relatività.
Quella di Sophie non è una ribellione sentimentale. Le emozioni non c’entrano. Sono cose da donnette come lei dice. Invoca invece la giustizia con accenti così kantiani da non lasciare dubbi sul suo rigorismo. È interessante ritrovare in vita un po’ di morale kantiana negli anni del totalitarismo. La borghesia liberale tedesca era qui e là riuscita a trasmetterla ai propri figli.
E nemmeno quella di Sophie – come quella di Antigone – è una semplice solidarietà familiare. La famiglia contro lo Stato. Qui la fraternità, che pure è fraternità reale, assume un valore più ampio. È la fraternità che abbraccia il proprio popolo, che abbraccia tutti gli uomini. Il fratello è il volto dell’uomo concreto che la giustizia impone di non tradire. La giustizia esige il trattamento uguale di tutti gli uomini. Il potere assoluto distingue in modo totale e radicale i nemici dagli amici, per la vita e per la morte. «Le leggi di Ade eguagliano tutti» – cerca di dire Antigone a Creonte, ma Creonte risponde: «Il nemico non è un amico, neppure da morto» E Antigone «Io esisto per amare, non per odiare».
Anche Sophie esiste per amare ed è difficile trovare nei suoi scritti, negli scritti in genere della Rosa Bianca traccia di odio. Hans Scholl lo dirà chiaramente anche dopo la condanna: « Non c’è odio in me. Mi sono lasciato tutto, tutto dietro le spalle». La loro ribellione è per amore, potremmo dire con Olivelli. O con le parole di Calamandrei: «Ci siamo ribellati non per odio, ma per dignità».
Ma per giungere a questa ribellione occorreva aver combattuto spiritualmente a lungo contro tutto ciò che poteva, alla radice, minare la resistenza.
Il primo avversario è per Sophie Scholl l’indifferenza. Così scrive al fidanzato: «Basta che tu non diventi un tenente arrogante e indifferente (Scusami!) Ma il pericolo di diventare indifferenti è grande […] e se potessi, continuerei sempre più a pungolarti contro l’indifferenza che potrebbe assalirti, e vorrei che i pensieri rivolti a me fossero una spina costante contro l’indifferenza».
E a Dio, a cui si rivolge chiedendogli di insegnarle a pregare, domanda di avere «il dolore insopportabile piuttosto che un’esistenza insensibile. Meglio una sete bruciante, voglio pregare per dolori, dolori, dolori, piuttosto che sentire un vuoto…».
È questo un tema molto presente in queste figure: l’orrore del vuoto, dell’esistenza insensata e tutto sommato insipida. La paura di non aver più sete e il desiderio di averne. C’è un legame tra l’affermarsi dello Stato totale che riempie ogni cosa e lo svuotamento dell’anima. Oggi lo Stato totale non c’è più, ma al suo posto c’è la società totale che lavora senza indugio per lo stesso svuotamento. Per questo ci colpiscono le parole di Sophie Scholl «voglio pregare per dolori, dolori, dolori, piuttosto che sentire un vuoto…»
C’era forte negli uomini e nelle donne scampati al totalitarismo la paura di perdere la propria anima.
Qualcuno dirà che era il frutto di una concezione piuttosto arretrata della religione che insisteva in modo ossessivo sul tema della salvezza dell’anima. La verità è che l’anima può davvero perdersi. Non è necessario credere in un inferno ultraterreno per riconoscere che vi sono uomini e donne che hanno smarrito la propria anima.
La durezza dello spirito spesso invocata e praticata da Sophie Scholl era maturata attraverso questa convinzione: l’anima si può smarrire. Si può smarrire nella massa. Per questo la «massa» è da lei avvertita come una minaccia esistenziale, come qualcosa che ti può inghiottire e soffocare, come qualcosa che ti può trascinare in basso, nella volgarità. Ritornano alla mente le splendide pagine di Bonhoeffer contro l’involgarimento, contro il prevalere dell’impudenza, del divismo, sulla necessità di recuperare il senso della «distanza» tra le persone, il senso della «qualità», la scelta oculata delle persone a cui aprire la propria intimità.
Sophie Scholl ha avuto il coraggio e la forza di difendere la sua anima dalla massa, anche attraverso l’isolamento e la marginalità: «Spesso non mi auguro nient’altro che di vivere in un’isola da Robinson Crusoe. A volte sono tentata di considerare l’umanità come una malattia della pelle della terra. Ma solo qualche volta, quando sono molto stanca, e mi vedo davanti uomini così grandi, che sono peggiori delle bestie. In fondo però si tratta solo di tener duro, di resistere, nella massa che non tende a null’altro che al proprio tornaconto. Per loro, per raggiungere questo obiettivo, ogni mezzo è giusto. Questa massa è così travolgente, che si deve essere già cattivi semplicemente per restare in vita. Probabilmente solo un uomo finora è riuscito a percorrere tutta la strada, diritto fino a Dio. Ma chi la cerca ancora, oggi?».
Per questo ripeteva a se stessa e agli altri le parole di Goethe «a dispetto di ogni violenza resistiamo» e faceva questo continuo lavoro su di sé per corazzare lo spirito dalle influenze esterne. «Mi sforzo molto di mantenermi il più possibile intatta dagli influssi del momento. Non da quelli ideologici e politici, che certo non mi fanno più effetto, ma anche dagli influssi di umore. Il faut avoir un esprit dur et le coeur tendre».
È questo cuore tenero e questo spirito duro che ancora oggi onoriamo. E il fatto che Sophie Scholl sia arrivata fino in fondo alla sua strada è il suo onore e la nostra speranza. Per ogni Creonte c’è un’Antigone, per ogni Enrico VIII c’è un Tommaso Moro, per ogni Hitler c’è una Sophie Scholl e molti altri. Non c’è tirannide che non sia stata sconfitta da una coscienza in piedi. Il regime di Hitler prima di crollare sotto i colpi delle armate alleate era qui spiritualmente crollato. E di qui poteva partire la ricostruzione.
Bonhoeffer diceva che alla sua generazione era stato affidato il compito non di «cercare grandi cose», ma di «salvare la nostra anima dal caos e vedere in essa l’unica cosa che possiamo trarre come «bottino» dalla casa in fiamme», secondo le parole di Geremia «tu vai cercando grandi cose per te? Non le cercare! Perché, vedi, io manderò la sventura su ogni uomo. Ma a te darò la tua anima come bottino, ovunque tu vada» (Ger 45).
È cercando questo bottino, attraverso la spremitura del mondo, che Sophie Scholl ha salvato la propria anima e l’onore del suo popolo.
[1] Testo rivisto dall’Autore.
[2] T. Olivelli, Lettera al fratello Carlo Ettore, 30.3.1943 in A. Caracciolo, Olivelli, Brescia 1947, p. 145.
[3] M. Weber, Sociologia delle religioni, Torino 1976, pp. 597ss.