«Dall’attrito perpetuo delle idee s’accende ancora oggidì la fiamma del genio europeo» (C. Cattaneo)
«Quando il mondo ha riconosciuta una idea vera e magnanima, lungi dal contrastargliela, bisogna rivendicarla al Vangelo» (A. Manzoni)
L’ILLUMINISMO IN ITALIA
L’Illuminismo in Italia è caratterizzato dalla prevalente attenzione alle problematiche morali, politiche e giuridiche. Sui temi gnoseologici prevale un prudente eclettismo, che modera il sensismo francese. I due centri più importanti sono Milano e Napoli e il contributo più alto è costituito dal libro Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, l’unico scritto dell’Illuminismo italiano che ebbe risonanza europea.
Le figure più significative a Napoli sono Pietro Giannone (1676-1748), critico del clericalismo; l’abate Ferdinando Galiani (1728-1787), economista, critico del mercantilismo; Antonio Genovesi (1712-1769), schietto empirista, costruisce con la ragione una metetrica dei piaceri; Gaetano Filangeri (1752-1788), ottimista sull’efficacia educativa della legislazione e propugnatore dell’educazione pubblica; Mario Pagano (1748-1799), che riprende Vico in chiave naturalistica.
A Milano gli scrittori illuministi si riunirono intorno al periodico Il caffè che ebbe vita breve ed intensa (1764-1765). Il giornale era diretto dai fratelli Alessandro Verri (letterato e storico) e Pietro Verri (filosofo ed economista, autore del Discorso sull’indole del piacere e del dolore).
Collaboratore della rivista fu Cesare Beccaria (1738-1794), secondo il quale lo scopo della vita associata è «la massima felicità divisa nel maggior numero». La misura della pena è il danno recato alla società: la punizione dev’essere pubblica e regolata dalle leggi. È contro la pena di morte (un errore giudiziario diventa così irreparabile, è una «guerra della nazione contro il cittadino») e la tortura (il reo è tale dopo la sentenza; «il dolore diventa il crogiuolo della verità, quasi che il criterio di essa risieda nei muscoli e nelle fibre di un miserabile»).
Con Giovanni Domenico Romagnosi (1761-1835) la filosofia italiana si licenzia dal sensismo di Condillac. Il suo programma è superare sia il sensismo sia il divorzio tra sensitività e intelligenza. La filosofia ha caratteri e finalità politiche e sociali: promuove l’umano incivilimento. Il dovere morale dell’uomo è concepito sotto l’aspetto del «sommo bene» sociale. Malgrado i residui sensistici e utilitaristici, il pensiero di Romagnosi ha qualche spunto assai felice. Valida, ad esempio, è la distinzione tra il diritto, «che rafforza la colleganza», e la morale, «il cui compito è santificare l’umanità».
Melchiorre Gioia (1767-1828) difese l’utilità della statistica per fini sociali. Come il legno non è la scure che lo spacca, così il materiale sensibile non si può confondere con il pensiero che lo penetra e lo ordina. Identifica la morale con l’economia e il progresso sociale, ma sa bene che spesso manca l’invocata coincidenza tra interesse privato e bene pubblico. Infine va ricordato in questa breve carrellata padre Francesco Soave (1743-1816), che con i suoi manuali introdusse nelle scuole italiane la filosofia di Locke e Condillac. Egli però appiccica alla morale sensistica conclusioni scolastiche: «Filosofia di una tenuità compassionevole, e dannosissima, malgrado le pure intenzioni» (Antonio Rosmini).
Caratteri della filosofia italiana del Risorgimento
Il limite cronologico si pone tra la fine del Settecento e il 1870.
Si tratta di un processo inseparabilmente morale, culturale, politico educativo: «Fu la cultura a creare l’unità della patria» scrisse Francesco De Sanctis nel luglio del 1879 a Ferdinando Martini.
Temi di fondo e caratteristiche comuni del Risorgimento sono:
– il superamento del relativismo sensistico in vista di una nuova fondazione dell’oggetto della conoscenza;
– l’apertura al pensiero europeo e in particolare alle istanze del pensiero francese (molto influente nel primo tentennio del secolo) degli ideologi, degli spiritualisti e dei filosofi della restaurazione; la considerazione attenta delle novità offerte dalla filosofia tedesca, da Kant al romanticismo, all’idealismo trascendentale; fecondo e serrato il confronto con il kantismo;
– l’attenzione ai problemi della «filosofia civile» (economia, politica, diritto, morale), alla ricerca storico-sociale, alla delineazione di ideali e metodi educativi, all’impegno civico-politico;
– l’interesse per la concretezza storica e la connessione con tematiche che riprendono vigore col grande ritorno del maggior pensatore italiano del Settecento: Gian Battista Vico;
– la connessione profonda tra coscienza nazionale, senso di appartenenza all’Europa e valori universali, senza borie nazionalistiche;
– (soprattutto dopo il 1830) la potenza speculativa dei maggiori si accompagna alla capacità di mediare i nuovi apporti del pensiero europeo, liberati dalla radicalità dei sistemi di cui erano prigionieri, con il recupero critico della tradizione speculativa italiana.
I protagonisti sono:
Vincenzo Cuoco (1770-1823)
Pasquale Galluppi (1770-1846)
Alessandro Manzoni (1785-1873)
Antonio Rosmini (1797-1855)
Giacomo Leopardi (1798-1837)
Vincenzo Gioberti (1801-1852)
Carlo Cattaneo (1801-1869)
Giuseppe Mazzini (1805-1872)
Giuseppe Ferrari (1811-1876)
Carlo Pisacane (1818-1857)
Francesco De Sanctis (1818-1883)
Bertrando Spaventa (1817-1883), massimo esponente dello hegelismo italiano, il cui allievo, Antonio Labriola (1843-1904) fu il maggior esponente italiano del socialismo marxista nell’Ottocento.
Le correnti filosofiche del Risorgimento sono:
a) Neo-illuminismo e positivismo sociale. I maggiori esponenti della tradizione illuministica temperata dall’influsso vichiano sono Melchiorre Gioia, piacentino; Gian Domenico Romagnosi di Salsomaggiore; i milanesi Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari. Gli ultimi due rappresentano la corrente politica: propugnano il federalismo repubblicano e il liberalismo democratico. Agli estremi di questa corrente possono essere posti i propugnatori del socialismo: Carlo Pisacane e Antonio Labriola.
b) Spiritualismo etico-politico di Mazzini.
c) Realismo personalistico di pensatori cristiani: filosofia dell’esperienza di Galluppi; l’ontologismo critico e il creazionismo di Gioberti; l’idealismo oggettivo e il primato della morale in Rosmini.
Al realismo personalistico si collegano in forma diverse:
– il cattolicesimo liberale di Manzoni, Santorre di Santarosa, Rosmini, Tommaseo;
– il liberalismo cattolico di Gino Capponi (1792-1876), Ferrante Aporti (1791-1858), Raffaello Lambruschini (1788-1873), di cui fu eminente l’apporto pedagogico;
– il giobertinismo Del Primato morale e civile degli italiani (1843) e Del rinnovamento civile d’Italia (1851);
– i moderati piemontesi: Cesare Balbo e Massimo D’Azeglio.
NEO-ILLUMINISMO E POSITIVISMO SOCIALE
Carlo Cattaneo
Carlo Cattaneo nasce il 15 giugno 1801 a Milano in una famiglia artigiana e muore a Lugano il 6 febbraio 1869. In un primo tempo avviato alla carriera ecclesiastica, già nel 1820 insegna in un ginnasio comunale. Frequentò la scuola privata del Romagnosi e si laureò in diritto a Pavia nel 1824. Dal 1833 al 1839 collabora con gli Annali di Statistica e si impone all’attenzione del mondo culturale con le Interdizioni israelitiche, pubblicate nel 1837, in una versione mutila per la censura.
Nel 1839 fonda un periodico tutto suo, il Politecnico, esperienza culturale e pubblicistica di inestimabile valore. Dovette sospenderlo nel 1844.
Prima delle Cinque Giornate di Milano, Cattaneo sperava che l’impero asburgico, sotto la pressione del sentimento nazionale di tutti i suoi popoli, si trasformasse in una federazione di Stati liberi e uguali, uniti da semplice unione personale alla casa regnante. Nulla avrebbe impedito al Lombardo-Veneto di staccarsi, in un secondo momento, dalla federazione austriaca ed associarsi alla federazione degli Stati italiani. «Ma ciò doveva avvenire solamente dopo che questi fossero entrati per la via delle libertà economiche, amministrative, politiche, e quando, aggregandosi al loro consorzio, il Lombardo-Veneto non avesse più incorso il pericolo di una degradazione civile» (Gaetano Salvemini). Ciò che più temeva il Cattaneo era l’unione della Lombardia al più arretrato Piemonte.
Nel periodo successivo al 1848, dopo aver guidato il moto insurrezionale milanese, Cattaneo vede un diverso orientamento: non spera più e non desidera un Lombardo-Veneto entro l’impero asburgico federazione di Stati liberi, ma vorrebbe che ogni Stato italiano si conquistasse il proprio regime rappresentativo (come aveva fatto il Piemonte). I singoli Stati, rinnovati, dovevano confederarsi e aiutare il Lombardo-Veneto a liberarsi dal dominio straniero.
Gli eventi del 1859-1861 vedono Cattaneo su posizioni vicine a quelle di Mazzini (il nuovo Stato esigeva una costituente, la consacrazione della volontà popolare, la sola capace di cancellare il carattere di conquista regia), ma lontane a proposito dell’ordinamento federale, il porro unum necessarium del pensiero cattaneano.
Cattaneo combatte l’ultima sua battaglia: quella volta a far sì che i vecchi Stati italiani entrassero nel vincolo unitario senza perdere la loro antica individualità. Avverso alla fusione col Piemonte, si tirò da parte. Esule in Svizzera, nel Canton Ticino, si fece editore di documenti e note sui moti italiani del 1848-1849.
Dal 1852 fu professore di filosofia nel liceo cantonale di Lugano. Nel periodo 1859–1863 riprese la pubblicazione del Politecnico. Eletto deputato al Parlamento Nazionale, non si allontanò dal suo ritiro ticinese.
Le sue opere sono:
– La psicologia delle menti associate (1859–1863)
– Un invito agli amatori della filosofia (1857)
– Considerazioni sul principio della filosofia (1844)
– Saggi (su Romagnosi, Vico, Rosmini, Humboldt ecc.).
– Lezioni (tenute a Lugano dal 1852 al 1865).
(Scritti filosofici, a cura di N. Bobbio, Le Monnier, Firenze 1960, vol. 3).
Il federalismo auspicato all’Italia da Cattaneo era per lui il frutto della storia e della stessa geografia italiana («l’Italia è fisicamente e istoricamente federale», scriveva nel 1850) e un disegno politico di indiscutibile opportunità. Anzi l’idea federale, ben lungi dal rappresentare una concezione valida solo per il suo paese, assume per lui un significato assai vasto e profondo: «L’idea federale è la questione del secolo. È per la prima volta al mondo una questione di tutto il genere umano. O l’ideale asiatico, o l’ideale americano: aut-aut».
Il federalismo è lo strumento politico-istituzionale che permette alle convivenze umane più complesse di articolare gl’inevitabili contrasti in modo fisiologicamente tollerabile, alimentando la civile competizione e il progresso dell’intera comunità. Ma alla base del federalismo sta una precisa teoria della libertà e dello Stato. L’Europa e l’Asia sono diventate sinonimi l’una di civiltà e l’altra di barbarie proprio perché il moto e la pluralità, presenti nella prima, sono ridotti al minimo nella seconda. Le possibilità di progresso che si dischiudono per la stirpe umana variano solo in funzione del corso degli avvenimenti e non già di una predestinazione naturale o razziale.
Lo Stato è l’istituzione che consente ai molti elementi della vita sociale di estrinsecarsi e di giocare la propria partita. Esso si risolve in «un’immensa transazione» in cui ogni giorno principi molteplici esigono quella quota di spazio che loro è consentita dalla loro reciproca concorrenza.
«La formula suprema del buon governo e della civiltà è quella in cui nessuna delle dimande [=forze in gioco] soverchia le altre e nessuna è del tutto assente». Gli stessi movimenti rivoluzionari non sono che il tentativo di far ammettere un principio sociale ulteriore, prima non accolto.
Il valore della libertà
Il progresso materiale e spirituale, la liberazione della mente da opinioni anti-scientifiche, la conquista della consapevolezza siano per il popolo condizione ed appoggio dell’esigenza di libertà e della capacità di mantenersela. Alla luce della scienza si nutrono i popoli di forza materiale e spirituale: «scienza è forza… Vogliamo agitare tutta la scienza… per incitare e incalzare i pensieri della nazione, le sue speranze, i voleri, gli ardimenti», ossia per promuovere e rafforzare la progressiva conquista della libertà, la cui esigenza è il più profondo motore di tutta l’opera di Cattaneo. Amico della libertà sopra ogni cosa, egli vedeva che «la libertà è una pianta di molte radici», ossia che tutte le libertà sono solidali, ma che «la libertà del pensiero è la più feconda di tutte le libertà». Perciò le libertà sono progressive e si sviluppano con lo svolgimento della civiltà.
Ma la libertà non può essere un dono; deve essere una conquista incessante: «la libertà non deve piovere dai santi del cielo, ma scaturisce dalle viscere dei popoli. Chi vuole altrimenti è nemico della libertà». Chi però è amico della libertà, individuo o popolo, dovunque la difenda e combatta per essa, lotta per il bene universale dell’umanità; chi la vessa ed opprime, ostacola il progresso universale e gli si oppone. «Lo scioglimento delle contraddizioni sociali non si può conseguire in mezzo alla scambievole opposizione e all’eterna oppressione de’ popoli; esso vuole le loro uguaglianze, la loro libertà; vuole il trionfo del diritto in tutta l’umanità. Una sola e medesima legge deve legare l’uomo singolo alla famiglia, al popolo, alla nazione, al genere umano» (Rodolfo Mondolfo, Il pensiero politico nel Risorgimento italiano, Nuova Accademia, Milano 1959).
La filosofia come logica della ricerca e psicologia delle menti associate
In Carlo Cattaneo convergono la visione vichiana della filosofia come studio dell’uomo nel seno dell’umanità e nel suo svolgimento storico, gli stimoli del pensiero politico dell’età della restaurazione, la tendenza positivistica che fa della filosofia una sintesi della scienza e il riferimento immediato e spontaneo delle componenti culturali ai problemi dello sviluppo economico e sociale. Cattaneo porta nella cultura risorgimentale una mentalità nuova, più decisamente rivolta ai fatti, al loro esame, alla loro definizione scientifica, alle considerazioni statistiche. Egli inaugura, così, il «metodo sociologico» e può essere annoverato, anche per il suo agnosticismo in metafisica, tra gli iniziatori del «positivismo metodologico».
La filosofia è metodologia, logica della ricerca, «analisi della libera analisi», riflessione critica «intorno alla natura del pensiero umano» sulla base della prima solidarietà delle scienze naturali e delle scienze sociali. La filosofia, rappresentando il nesso comune di tutte le scienze, costituisce al tempo stesso «lo studio di quel pensiero umano che tutte le produce».
a) Carattere naturale e permanente della società. Demitizzazione del buon selvaggio e del primitivismo
Degno ancora di menzione è il pensiero del Cattaneo sulle origini della società. «La società non è un rifugio d’infelici improvvisamente stanchi d’errare nella solitudine muta di Vico o nella solitudine parlante di Rousseau. Non è un’invenzione subitanea, una deliberazione, un contratto, uno stato arbitrario che oggi possa essere, domani non essere. È un fatto naturale, primitivo, permanente, universale, necessario, che dovè cominciare colla prima donna che fu donna e madre, e con quante furono donne e madri».
Cattaneo stabilisce un nesso profondo tra società e ragione. «La società nelle epoche civili non comincia più, come tra le primitive selve, nella barbarie degli istinti; comincia al lume della ragione che si è svolta nel seno della società. Per chi vive in società d’uomini nati tutti alla piena luce della ragione, la ragione è principio del volere; e perciò l’arbitra del vivere. E l’ordine sociale a cui non basta più il mero istinto, se non deve rimanere senza lume e senza guida, deve seguir la ragione secondo che si attiva e si sviluppa, cioè secondo che di fatto ella è».
In esplicita polemica con Rousseau, Cattaneo afferma il valore etico e pedagogico della convivenza sociale. È illusorio esaltare la vita selvaggia. «Per l’uomo, infatti, quanto maggiore è la varietà degli impulsi che la volontà può seguire, tanto più vasto è il suo dominio e la sua libertà. Per converso, quanto più l’intelletto è povero di idee, tanto più angusto è il campo in cui si muove, la volontà si confonde coll’istinto e non può dirsi libera… Il selvaggio, avendo un cerchio assai ristretto di idee e di sentimenti, è in mezzo alle selve assai meno libero che non l’uomo civile, in seno alla società più artificiosa e disciplinata. A questo non aveva pensato Rousseau, quando esaltava sulla vita civile la selvaggia».
b) L’uomo nel seno dell’umanità: le menti associate
L’uomo reale va cercato e compreso non nelle astrazioni dei sistemi filosofici di Locke e Condillac, di Kant e di Hegel, di Platone e Cartesio, ma nel seno dell’umanità. È falsa, irreale la supposta solitudine del neonato in faccia alla natura e alle cose. Il primo vagito del fanciullo è emesso nel seno della madre. Non c’è io senza un rapporto sociale. Dai primi albori dell’esperienza a ogni grado successivo del suo sviluppo la mente sempre si muove tra gli altri e con gli altri, fra i mutui impulsi delle menti associate. Senza di esse non avrebbe attività. L’individuo isolato non può essere pensante. «L’atto più sociale degli uomini è il pensiero». Il rapporto che lega l’uomo ai suoi simili riguarda, immediatamente, sia le generazioni coesistenti che le generazioni passate. L’esperienza delle generazioni passate illumina l’esperienza delle generazioni presenti. Ma sia nel rapporto col passato, sia in quello con la vita sociale contemporanea il rapporto di continuità è duplice: adesione o antitesi.
La psicologia delle menti associate in ogni età comprende in sé il mutuo impulso e insieme l’antitesi delle menti associate. «Antitesi delle menti associate è quell’atto col quale uno o più individui, nello sforzarsi a negare un’idea, vengono a percepire una nuova idea; ovvero quell’atto col quale uno o più individui, nel percepire una nuova idea, vengono anche inconsciamente a negare un’altra idea» (Opere VI, 315). Il conflitto delle idee non genera la distruzione reciproca, ma la vita e l’impulso al progresso; ogni nazione è viva in quanto in sé contiene non l’uniformità degli orientamenti e delle tendenze, ma la varietà delle energie e degli indirizzi. Sintesi di forze vive, ma tali per lo stesso urto reciproco, che le tiene sempre in movimento e in azione: ecco il processo di tutta la storia e dei rapporti fra i popoli.
Il riconoscimento di questo processo della storia ha grande importanza per la conoscenza di noi stessi, che è uno dei fini fondamentali – se non il più fondamentale di tutti – che Cattaneo propone alla filosofia. L’io «se non si completa nelle evoluzioni dell’istoria, nulla sa nemmen di se stesso e nulla a se stesso risponde»: di qui nasce l’interesse che presentano tutte le ricerche storiche intorno alle più diverse creazioni dell’attività spirituale dell’uomo, che oggi sogliono raccogliersi sotto il nome di cultura. «Come le lingue, così le lettere, le arti, le leggi, le religioni, le opere tutte dell’umanità, essendo nella prima origine loro fatti dell’anima, sono a considerarsi tutti come segni della secreta sua natura. Da ciascuno di tali ordini di fatti la filosofia deve per suo instituto ascendere alla ricerca delle forze iniziali onde quei fatti primamente mossero».
«L’uomo contemplando le leggi della Natura e dell’umanità, incontra ancora quelle stesse leggi del pensiero che può riconoscere nella sua propria coscienza; laonde la nostra filosofia, fondata sull’opera comune di tutte le scienze, cioè sull’esperienza della natura e della società, si trova innanzi quel medesimo oggetto di ricerca che venne additato dal savio greco in un tempo in cui la scienza era ancora infante: nosce te ipsum; e può spiegare i pensieri, i fatti dell’uomo individuo coi lumi che ha raccolto nello studio della Natura e della Società».
c) Pluralità dei principi e delle istituzioni. Rifiuto dello Stato monistico e assoluto
Interessante è la dinamica della vita sociale espressa nelle seguenti considerazioni di Cattaneo: «Quanto più civile è un popolo, tanto più numerosi sono i principi che nel suo seno racchiude: la milizia e il sacerdozio, la possidenza e il commercio, il privilegio e la plebe, son tutte forze indefinitamente espansive che per sé tendono a invadere tutta la capacità dello Stato. Quindi l’istoria è l’eterno contrasto fra i diversi principii che tendono ad assorbire e uniformare la nazione». Le utopie «sono geometrie dedotte dall’uno o dall’altro postulato a cui altri interessi oppongono altri postulati e altre geometrie».
È la pluralità degli elementi costitutivi a denotare il grado di progresso di una società. Se «lo Stato può dirsi divenuto in tutte le sue parti un sistema», se cioè la struttura sociale perde le sue articolazioni e la possibilità di distenderle in libera competizione, se lo Stato diventa monistico e assoluto, «allora si fa palese che le leggi organiche non son quelle dell’immobilità minerale, che la varietà è la vita, e l’impassibile unità è la morte. E coloro che invocano la pace perpetua e l’universale repubblica di tutti i regni della terra, vogliono dilatare a tutto il globo l’oscura esistenza del Giappone; e non vedono in quale abisso d’inerzia e di viltà piomberebbe tutto il genere umano, putrefatto in sistema, senza emulazioni e senza contrasti, senza timori e senza speranze, senza istoria e senza cosa alcuna che d’istoria fosse degna».
Movimento e pluralità sono, dunque, le forze vivificatrici della società umana, che è appunto tanto più umana quanto più è in essa di quei due elementi. Ma civiltà e libertà si condizionano mutuamente; sono reciprocamente causa ed effetto. «Dall’attrito perpetuo delle idee s’accende ancora oggidì la fiamma del genio europeo. L’Europa ignora il segreto della sua forza». «Par tal modo i popoli che divengono liberi riprendono e proseguono l’opera abbandonata dai popoli che sono caduti sotto il peso dell’autorità».
d) Lo Stato come il luogo giuridico in cui movimento e pluralità trovano la loro realizzazione e il loro contemperamento
Sulla base di queste premesse Cattaneo definisce anche la sua concezione dello Stato. Lo Stato è l’istituzione prima e maggiore che consente ai molti elementi della vita sociale di estrinsecarsi e di giocare la propria partita. Esso si risolve, in ultima analisi in «un’immensa transazione, dove la possidenza e il commercio, la porzione legittima e la disponibile, il lusso e il risparmio, l’utile e il bello, conquistano o difendono ogni giorno con imperiose e universali esigenze quella quota di spazio che loro consente la concorrenza delli altri sistemi». Gli stessi movimenti rivoluzionari, a dispetto dei sovvertimenti ai quali danno luogo e delle agitazioni che li accompagnano, «non sono altro più che la disputata ammissione d’un ulteriore elemento sociale, alla cui presenza non si può far luogo senza una pressione generale, e una lunga oscillazione di tutti i poteri condividenti, tanto più che il nuovo elemento si affaccia sempre coll’apparato di un intero sistema e di un intero mutamento di scena, e colla minaccia d’una sovversione generale; e solo a poco a poco si va riducendo entro i limiti della sua stabile ed effettiva potenza; poiché indarno conquista chi non ha forza di tenere. Laonde, quando l’equilibrio sembra ristabilito, e le parti sono conciliate, e l’acquistante assume il nuovo atteggiamento di possessore, e talora si fa lecito di sdegnare tutti i principii che lo condussero alla vittoria, pare incredibile che, per giungere a così parziale innovazione, tutto il consorzio civile debba aver sofferto così dolorose angosce». Di conseguenza, le legislazioni non fanno che risolvere in una serie di transazioni i contrasti tra i molteplici elementi della vita sociale, «impotenti a distruggersi, costretti a compatirsi»; e ne derivano «eterno divorzio fra la logica assoluta e la prudenza civile, fra la moderazione e l’intolleranza», ed «il progresso delle legislazioni tortuoso come il corso dei fiumi, il quale è pure una transazione fra il moto delle acque e l’inerzia delle terre».
Cattaneo e il marxismo
La critica storica non ha rinunciato a porre anche Carlo Cattaneo a raffronto col marxismo. Già Alessandro Levi, nella sua opera sul Cattaneo (Il positivismo politico di Carlo Cattaneo, Laterza, Bari 1928), avendo accettato l’interpretazione del materialismo storico che in Italia dava Rodolfo Mondolfo – interpretazione che era una sostanziale attenuazione delle tesi marxiste –, scriveva «pur sembra a me che notevoli spunti di psicologia da inquadrarsi senza sforzo nella teoria del materialismo storico… si trovino nelle vigorose pagine del Milanese». A noi pare, invece, più controllato il giudizio di Norberto Bobbio, secondo il quale «Cattaneo si oppose sempre, quando gliene venne l’occasione, alle dottrine materialistiche» (Carlo Cattaneo, Scritti filosofici, a cura di Norberto Bobbio, Le Monnier, Firenze 1960, Vol. I, p. XLVI) e «fu estranea alla mente del Cattaneo ogni inclinazione verso il determinismo storico» (p. XLVII).
A conferma ci limitiamo a riportare due chiare espressioni di Cattaneo: «I popoli sono guidati dai loro pensieri; e nelle regioni del pensiero giace il segreto dei loro destini» e, altrove, non meno lapidariamente: «Il principio delle imprese, il principio dell’istoria non è nella geografia, ma nell’ideologia. L’uomo è fabbro del suo destino». Né meno recisa è la sua ripulsa di ogni relativismo storicistico: «Ciò che alcuni chiamano verità relativa è propriamente una verità più o meno incompleta e alterata, in forza delle circostanze che impediscono agli individui e alle generazioni di scoprirla nella sua pienezza».
L’opera filosofica da Carlo Cattaneo, pur coi limiti innegabili suoi propri, ha un notevole valore storico, potendo suggerire ancor oggi preziosi moniti e qualche pregevole punto di vista degno di essere sviluppato e approfondito.
Convergenze e differenze tra Ferrari e Cattaneo
Milanese e repubblicano come Carlo Cattaneo, eppure tanto diverso da lui, fu Giuseppe Ferrari (1811-1876), pensatore paradossale e storico discusso, malgrado intuizioni e giudizi particolari assai felici. Con Ferrari la sublimazione della Francia tocca il culmine. Alla Francia appartiene per una specie di legato storico l’iniziativa politica e militare che affrancherà i popoli oppressi e, dunque, anche l’Italia.
Basterebbero a caratterizzare la divergenza fra i due quelle brevi linee con cui Cattaneo, nel sostenere il concetto di rivoluzione già espresso da Romagnosi, ne mostrava la subordinazione alla realtà delle condizioni storiche concrete, mentre Ferrari, nel suo irrazionalismo, lo convertiva in una questione di fede e volontà. «Non è la volontà dell’uomo (scriveva Cattaneo nel 1862) che fa le rivoluzioni, né la volontà dell’uomo le può reprimere; quando si sono incarnate nelle viscere della società, è forza che vengano alla luce, e si insignoriscano delle leggi». Ed avrebbero pur potuto dirigersi a Ferrari le parole che nello stesso anno 1862 Cattaneo scriveva al mazziniano Agostino Bertani: «Voi avete il vizio di pensare più ai solfanelli che non alla legna… In mezzo ai popoli malcontenti è facile dar l’ultima spinta ad una rivoluzione… Ma non v’è nulla di più che il popolo malcontento, la rivoluzione diviene in pochi mesi una nuova forma di malcontento e nulla più» (Scritti politici ed epistolario, III, 322; II, 359).
Tuttavia, accanto alle gravi divergenze, restavano fra questi due discepoli di Romagnosi non pochi punti di contatto: nel distacco dalla metafisica, nel collegamento col pensiero del comune maestro, nella continuazione dell’indirizzo sociologico di questo, e in parte anche le concezioni politiche, soprattutto per l’attaccamento di entrambi al federalismo, ispirato per altro da ragioni eminentemente positive, oltre che da esigenze di libertà.
Carlo Pisacane
Rivoluzionario più autorevole del Risorgimento, tra i pochi che professano il socialismo, Carlo Pisacane (1818-1857) teorizza il «primato guerriero degli italiani» e della nazione armata. Nella Guerra combattuta in Italia (1851) il popolo è il gigante rivoluzionario imprigionato e reso impotente solo dalla malafede e dalle presunte guide; ma nei Saggi storici – politici – democratici dell’Italia, stesi fra il 1855 e il 1856 e pubblicati postumi, l’ottimismo populistico è fortemente attenuato.
La prospettiva di Pisacane può essere così riassunta: la «rivoluzione morale, a cui non si può rinunciare, deve saldarsi alla rivoluzione materiale». Ma come può attuarsi un simile disegno? Qui le argomentazioni di Pisacane non appaiono sempre chiare e coerenti. Egli avverte che il suo socialismo voleva essere diverso da quello fondato sull’esercizio dispotico del potere, anche se in nome del popolo.
Anzi, dice di poterlo definire in queste due parole: «libertà e associazione», dissolvendosi lo Stato in una specie di libera associazione di comuni «amministrati e rappresentati da un Congresso o Convenzione Nazionale eletta con suffragio universale». Tuttavia nei suoi scritti circola il mito rousseauiano del legislatore super-uomo, unico interprete autorizzato della volontà generale, investito di tutti i poteri, ma pur sempre legato alla massa: mito questo rigorosamente conforme all’altro socialismo, quello dispotico, da cui pure Pisacane intendeva discostarsi.
Il primo e maggiore studioso di Pisacane, lo storico Nello Rosselli, barbaramente trucidato il 9 giugno 1936 in Francia da un gruppo francese in combutta con i servizi segreti del governo fascista italiano, riconosce che la tesi di Pisacane, nel momento in cui veniva formulata e in rapporto a una soluzione a breve termine del problema nazionale italiano, rappresentava un’illusione. Suscitata la fiamma dell’odio di classe, la borghesia si sarebbe ritratta in campo assolutistico, mentre il proletariato, allora analfabeta e di tipo prettamente preindustriale, si sarebbe disinteressato alla questione nazionale. Non vi sarebbe stato, insomma, il Risorgimento nazionale.
Né si può condividere l’affermazione secondo cui la dura servitù è sempre preferibile al regime costituzionale, perché la servitù scatena la rivoluzione. Se così fosse, il reazionarismo borbonico sarebbe stato generatore di storia più alta rispetto al liberalismo progressivo di un Cavour e dunque da preferirsi. Con affermazioni del genere si rifiutano le libertà entro cui soltanto può avvenire un risveglio delle moltitudini e si dimentica che «l’oppressione, se qualche volta eccita, più spesso abbruttisce» (Adolfo Omodeo).
Pisacane, che privilegiava la forma dell’esempio, guidò la spedizione di Sapri del 1857 e in essa cadde. Il tragico epilogo della sconfitta sta lì ad attestare quanto profondo fosse l’abisso allora esistente fra le plebi rurali e le generose speranze di coloro che del loro riscatto intendevano fare la forza progressiva, la leva dell’intero moto risorgimentale.
Comunque il fascino di Pisacane, al di là della scarsa produttività dell’azione pratica e dei suoi schemi ideologici, sta nell’aver compreso che il moto italiano doveva darsi un contenuto sociale e porsi il problema delle masse rurali, la parte del popolo più numerosa e più oppressa dall’ignoranza e dalla miseria.
Antonio Labriola
Nasce Cassino il 2 luglio 1843 e muore a Roma il 2 febbraio 1904. Compie gli studi nell’Università di Napoli e fu discepolo e amico di Bertrando Spaventa, il massimo rappresentante dello hegelismo italiano. La formazione del Labriola fu in tutto e per tutto hegeliana; poi, mentre altri allievi di Spaventa – quali Felice Tocco e Andrea Angiulli – passarono al positivismo, Labriola trovò in Johann Friedrich Herbart, lo Herbart soprattutto della psicologia e dell’etica, un correttivo di Hegel: all’anticipazione di ogni metodo nella onnisciente dialettica si opponeva la specificazione dei metodi, alla fenomenologia dello Spirito la psicologia scientifica e genetica degli herbartiani.
La crisi definitiva del pensiero di Labriola si ebbe intorno al 1890, con il suo passaggio dal radicalismo al socialismo marxista e con la sua interpretazione del marxismo. Fu polemica la collaborazione con le guide politiche del socialismo italiano. La concezione dell’ultimo Labriola – affettuoso corrispondente di Engels tra il 1890 e il 1895 – si incentra su due punti:
a. la differenziazione del marxismo dal positivismo, contro ogni smania di concordismo eclettico;
b. il marxismo come filosofia della prassi e come metodo: il rapporto necessità – libertà.
Molto discussi furono taluni atteggiamenti dell’ultimo Labriola, sui quali Benedetto Croce scrive: «In un punto, com’è noto, differiva dai socialisti più avanzati: era espansionista e guardò con favore all’impresa dell’Eritrea e ai bisogni di occupazione di Tripoli; fedele anche in ciò al marxismo, che non concepisce un serio moto proletario se non preceduto da un serio e pieno svolgimento della borghesia. Il proletariato – diceva scherzando – è destinato a succedere alla borghesia; sta bene: ma come farà, in Italia, a succedere a una borghesia che non esiste, a una borghesia di pezzenti?». L’interpretazione crociana, pur con significativi contorcimenti, è accettata da Eugenio Garin nella prefazione «A. Labriola e i saggi nel materialismo storico» al volume La concezione materialistica della storia (Laterza, Bari 1965, p. LXII).
Le opere di Labriola sono:
– Opere complete, a cura di Luigi dal Pane, Feltrinelli, Milano, vol. I, 1959; vol. II, 1961; vol. III, 1962.
– Socrate (1871)
– Morale e religione (1873)
– Della libertà morale (1873)
– Dell’insegnamento della storia (1876)
– In memoria del Manifesto dei Comunisti (1896)
– Del materialismo storico (1897)
– Discorrendo di socialismo e di filosofia (1898)
– Scritti vari di filosofia e politica (postumi, a cura di Benedetto Croce, 1906).
Il marxismo come filosofia della prassi e come metodo
Antonio Labriola polemizza di continuo contro chi sottintende al materialismo storico un materialismo scientifico. Del positivismo si accetta il metodo scientifico, ma non la visione materialistica dell’universo. Il materialismo storico non comporta l’accettazione della materia «in quanto questa parola è segno o ricordo di metafisica escogitazione, o in quanto è espressione dell’ultimo sostrato ipotetico dell’esperienza naturalistica». La dottrina di Marx non si muove «nel campo della fisica, della chimica, della biologia», ma cerca soltanto «le condizioni esplicite del vivere umano, in quanto esso non è più semplicemente animale». Non si tratta di dedurre nulla dai dati della biologia, quanto di studiare il vivere umano, che si forma e si sviluppa «per il succedersi e il perfezionarsi delle attività dell’uomo stesso, in date e variabili condizioni». Oggetto proprio della filosofia è la storia, ossia la prassi, intesa in senso oggettivo, e cioè il processo di formazione e di trasformazione della società mediante il rapporto di lavoro. Di questo processo «noi rechiamo interamente in mano la scienza, in quanto essa è il fatto nostro»: «producendo successivamente i vari ambienti sociali,… l’uomo ha prodotto se stesso e in ciò consiste… il fondamento positivo, il nocciolo serio di ciò che dà luogo… alla nozione del progresso dello spirito umano».
Questo oggettivismo in Labriola, memore dell’insegnamento di Vico, non è disconoscimento del valore umano della storia, ma postula una conciliazione tra necessità e libertà: l’antinomia fra l’uomo vissuto dalla storia («noi siamo come vissuti dalla storia») e l’uomo che opera e fa la storia («tutto ciò che è accaduto nella storia è opera dell’uomo») va rivista con equilibrio e rigore. Infatti l’oggettività delle condizioni storiche ci obbliga a prender coscienza della loro durezza, tenacia, resistenza – «indipendentemente da ogni nostro gradimento o sgradimento» – e a risalire, quindi dai «presupposti voleri a disegno» fino «ai moventi e alle cause obiettive di ogni volere, che son da trovare nelle condizioni di ambiente, di mezzi disponibili, di circonstanzialità dell’esperienza»; ma, d’altro canto, sarebbe una vera e propria «fatuità» l’opinione che mira «alla negazione di ogni volontà».
La preoccupazione «umanistica» di Labriola di far posto all’uomo nel processo di formazione e di trasformazione della società, induce il pensatore napoletano a dare una nuova interpretazione del canone marxista, d’importanza centrale per il materialismo dialettico, secondo il quale è l’attività economica e i rapporti di produzione che costituiscono la struttura di fondo (Basis, Unterbahn), mentre le altre attività formano la sovrastruttura e ne derivano (Ueberbahn). «Soltanto l’amore del paradosso, inseparabile sempre dallo zelo degli appassionati divulgatori di una nuova dottrina, – afferma Labriola – può aver indotto alcuni nella credenza che a scrivere la storia bastasse mettere in evidenza il solo “momento economico” (spesso non accertato ancora, e spesso non accertabile affatto), per buttar giù tutto il resto come inutile fardello».
Non è possibile – esclama Labriola – ridurre il valore del poema dantesco alle pezze di panno dell’industria medievale fiorentina! Non bisogna pensare che il fattore economico sia l’unico e il basilare, così che gli altri si riducano totalmente ad esso e tutti i fenomeni non economici siano solo apparenze vane di un’univoca struttura: se così fosse si tornerebbe alle vecchie trattazioni sistematiche della storia tradotte, semplicemente, in linguaggio economico. La sottostante struttura economica «non è un semplice meccanismo, dal quale saltino fuori, a guisa di immediati effetti automatici e macchinali, istituzioni e leggi, e costumi, e pensieri, e sentimenti, e ideologie».
L’affermazione engelsiana «spiegare i fatti storici per via della sottostante struttura economica in ultima istanza» è intesa da Labriola nel senso che bisogna tener conto di tutte le mediazioni operate dalla coscienza umana nella complessa e sfuggente trama di azioni e reazioni che caratterizza i fatti storici. Così inteso il marxismo non è «filosofia storica a disegno», ma è soltanto «un metodo di ricerca e di concezione». «Non a caso Marx parlava della sua scoperta come di un filo conduttore».
Labriola e Croce
Benedetto Croce conobbe Antonio Labriola in casa dello zio Silvio Spaventa e ne frequentò le lezioni all’Università di Roma («E in verità quelle lezioni mettevano in fermento il mio cervello e, secondo il detto di Kant, m’insegnavano non pensieri, ma a pensare»). Labriola – secondo Croce – «per ciò stesso che era ingegno assai colto e affinato nella meditazione di parecchi sistemi filosofici… dié al materialismo storico diventato quasi dogma presso i socialisti italiani e stranieri una forma critica: la difendeva, ma in questa difesa ne scopriva alcuni punti deboli; e si argomentava di rafforzarli, ma nello sforzo ne scopriva altri. E fu agevole a me, che pur mi sentivo e professavo discepolo – continua Croce – e che dei suoi lavori nel materialismo storico mi ero fatto editore, chiarire il difetto filosofico di quella dottrina, pure accogliendone le nuove e importanti suggestioni». Labriola se ne stizzì (l’edizione francese del volume Discorrendo di socialismo e filosofia recava un’appendice contro Croce e una prefazione contro l’amico dissidente Sorel), ma avrebbe dovuto «considerare che il merito o la colpa di quanto stava accadendo, risaliva a lui; perché egli aveva cominciato a tentar di elaborare con rigore filosofico un complesso di pensieri, che non poteva serbare saldezza se non quando fosse rimasto vergine di critica» (così Benedetto Croce in Antonio Labriola, Ricordi, rivista Marzocco, IX, 7, 14 febbraio 1904, Firenze).
Come è che Croce, sviluppando il pensiero di Labriola, giunge a un energico ripudio del marxismo? «Il materialismo storico mi si mostrò – scrive Croce – doppiamente fallace e come materialistico e come concezione del corso storico secondo un disegno predeterminato, variante della hegeliana filosofia della storia». Dando pieno significato all’interpretazione labriolana del marxismo come metodo, Croce negava al materialismo storico il carattere di filosofia, per conservargli il valore di un canone di ricerca storica destinato non ad anticipare i risultati, ma a cercarli. Col materialismo storico «una somma di nuovi atti, di nuove esperienze» entra nella coscienza dello storico.
GIUSEPPE MAZZINI
La concezione di Dio
Giuseppe Mazzini ebbe una formazione religiosa giansenista dovuta alla madre a cui fu profondamente legato, formazione che sopravvisse alla crisi di fede: anche quando si scaglia contro l’ortodossia religiosa, è pur sempre convinto che la vita è missione, i fatti politici vengono sempre illuminati dalla legge morale e il destino dell’Italia non può essere dissociato dal rinnovamento religioso.
Da un punto di vista filosofico la concezione mazziniana è un idealismo etico-religioso, non elaborato teoricamente, ma sentito e vissuto in profondità. Tuttavia il pensiero mazziniano è più debole proprio là dove risiede la sua nota più originale, ossia nel sentimento religioso che tutto l’avvolge.
A fondamento della sua visione della vita Mazzini pone Dio, ma la concezione mazziniana di Dio oscilla tra un’indeterminata immanenza di Dio nell’umanità e il teismo: «è un Dio oscillante fra due concetti, un Dio personale e un Dio impersonale» (Francesco De Sanctis). Per De Sanctis, Mazzini è un grande agitatore, educatore etico-politico, precursore di conquiste civili e politiche, non un riformatore religioso: il suo è un «Dio politico» che, invece di essere aderente alla Santa Alleanza, è aderente all’internazionale democratica. Secondo Giovanni Gentile, il Dio mazziniano è «l’autore di quanto esiste… pensiero assoluto, del quale il nostro mondo è un raggio e l’universo una incarnazione». Raggio o incarnazione? Si tratta di due concetti diversissimi messi uno accanto all’altro, che si rifanno all’emanatismo e al panteismo.
Altrove Mazzini dice che Dio si riconosce nella legge naturale e che «Dio e la legge sono termini identici». Anche qui fluttuazione e indeterminatezza: una cosa è dire che Dio è la legge, un’altra cosa è ammettere al di là della legge un disegno intelligente, una provvidenza. Una volta siamo nel panteismo, un’altra volta nel teismo. Mazzini afferma che «Dio esiste», ma «noi non dobbiamo né vogliamo provarvelo; tentarlo ci sembrerebbe bestemmia…». La risposta non c’è, né speculativa né religiosa.
Angiolo Gambaro («La pedagogia del Risorgimento», in Questioni di storia della pedagogia, Editrice La Scuola, Brescia 1963) distingue opportunamente tra il primo e l’ultimo Mazzini, tra il Mazzini della corrispondenza con lo storico svizzero Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi pubblicata ne La Giovane Italia (1832) e il Mazzini de I doveri dell’uomo (1860). Il Mazzini scriveva a Sismondi: «noi tentiamo convincere gli Italiani d’una legge, poco conta in nome di chi, perché in quella legge ci concedano scritte le parole progresso, libertà, associazione»; «…impadroniamoci dell’idea di Dio, di quel simbolo di novità, mostriamo Dio autore delle libertà, dell’eguaglianza, del progresso. Agli uomini i popoli si sotrarranno, a Dio no». Mazzini in questa fase si serve di Dio come un’idea-forza per sospingere il popolo alle conquiste democratiche della libertà, dell’uguaglianza, della solidarietà sociale.
La concezione di Dio è oscillante: ora Dio sembra identificarsi con l’umanità o con una legge impersonale immanente nella coscienza dei popoli; ora Dio è riconosciuto come causa prima trascendente e autore della legge morale che l’umanità deve interpretare in rapporto allo svolgimento della storia. L’indeterminatezza è però risolta senza residuo a favore di un Dio personale provvidente, creatore – cioè avente tutti gli attributi della concezione cristiana – negli scritti della maturità.
Dal cristianesimo Mazzini apprende altresì la credenza nell’immortalità personale, la persuasione che la vita è missione, la dottrina che anche i fatti politici vanno sempre illuminati da un’idea morale. Se ne discosta negando la divinità di Cristo («fratello migliore di tutti noi») e i dogmi della fede cristiana Infine sovrappone al concetto dell’immortalità personale la teoria platonica della reincarnazione delle anime. Pur nel riconoscimento esplicito degli insigni titoli di benemerenza acquisiti nella storia del cristianesimo, Mazzini persiste nel ridurre il messaggio del Vangelo a una specie di etica dei diritti degli individui, negando alla religione di Cristo – che è per essenza religione dell’amore, dell’ecclesia, del corpo mistico – la dimensione della socialità. Il cristianesimo ha esaurito la sua funzione storica perché avente un fondamento individualistico.
In conclusione: Dio è principio trascendente perché creatore, ma anche immanente alle sue creature e, in primo luogo, all’umanità, alla quale ha affidato una legge che essa deve interpretare via via seguendo lo svolgimento storico della sua coscienza.
Il popolo – che non è soltanto plebe o proletariato, ma armonia di classi moralmente formate all’ideale di verità e di giustizia – è l’umanità stessa nell’ufficio di interprete e quasi ministro della volontà divina. Da qui il motto: «Dio e popolo». La «religione dell’umanità», che Mazzini preannuncia come superamento del cristianesimo, è la religione dell’avvenire. Dopo quella ebraica e cristiana, sarà l’ora del Vangelo Eterno, la religione dello Spirito.
La missione dell’Italia, in questa nuova era, è per un verso negativa (rimuovere il papato, benefico per la funzione storica svolta nel passato, ma ora ostacolo sulla via del progresso) e, per un altro verso, positiva: far di Roma – la terza Roma dopo quella dei Cesari e dei Papi – l’unificatrice delle genti non per «dispotismo materiale» come la Roma imperiale, né per «dominio morale» come la Roma cristiana, ma per associazione di indipendenza e di solidarietà tra i popoli europei, prima, e degli altri continenti, poi.
Sul senso religioso di Mazzini, Ernesto Buonaiuti ha scritto: «molto più fedele alla tradizione cristiana di quanto egli stesso si immagini, Mazzini, più profeta che politico, ha sentito e proclamato che il destino dell’Italia rinata non avrebbe potuto essere dissociato da una palingenesi religiosa», in quanto solo una realtà trascendente è in grado di «accomunare gli uomini aldilà e al di sopra di tutte le discipline e di tutte le costituzioni». Ma aldilà delle mistiche penombre del suo pensiero filosofico-religioso, il genovese, «nato più a ispirare che a cospirare» (Niccolò Tommaseo), «più profeta che filosofo» (Adolfo Omodeo), fu il primo teorico della democrazia repubblicana e del socialismo non materialistico e non dittatoriale.
Il pensiero politico
Il pensiero politico di Mazzini è originale su più punti: la rivoluzione nazionale come opera di popolo, la concezione nazionale che rifiuta il nazionalismo, la visione repubblicana, la questione sociale.
Mazzini propugnò il processo di democratizzazione della rivoluzione nazionale, che doveva essere opera di popolo. Restò però sul terreno dell’analisi politica e della ricerca morale e non ci dette una dottrina articolata delle istituzioni e degli organi propri delle libertà democratiche.
Il passaggio della fiaccola del Risorgimento nazionale da poeti aristocratici, come Ugo Foscolo, a educatori del popolo, come Mazzini, è un altro punto essenziale della nostra storia che va ascritto a merito del profeta della speranza nella resurrezione del popolo italiano. Questo passaggio fu colto e reso con mano felice da Carlo Cattaneo nel saggio del 1860 Ugo Foscolo e l’Italia. «Veramente egli [Foscolo] non aveva fede nel popolo; quasi si compiaceva di chiamarlo plebe; lo reputava creato a vivere curvo sull’aratro, curvo ai piè dell’altare e del patibolo: haec tria tantum! E con questa cupa esclamazione concludeva la profezia di Didimo Chierico. E altrove commentava più largamente così sinistra sentenza: “Quanto alla plebe non accade parlarne… e si dee lasciare in pace; perché per quanto santa sia la ragione che la sommuove, ogni suo moto finisce in rapine, in sangue, in delitti; e com’ella s’è avveduta della sua forza, è difficile renderla debole”… E come se fosse inconscio di se medesimo non pensava qual vena di magnanimi affetti battesse in seno all’industre e onorata povertà. Misera Italia, se il popolo fosse sempre rimasto in pace; e non le avesse nei più fieri pericoli apportato il volontario soccorso della sua forza e della sua virtù! E così parve disperare dell’Italia, e del progresso, e della ragione e della libertà. Ma le speranze a cui il Foscolo sembrò farsi cieco, si rivelarono ad altri… L’Italia trapassò in mano ai profeti della speranza [nel risveglio del popolo e nella iniziativa popolare]; in mano a quelli che reputarono vittoria persino i disastri, purché si combattesse; a quelli che si applaudirono talvolta anche di aver dato causa al nemico di farsi più terribile, purché si facesse aborrire» (in Walter Maturi, Interpretazioni del Risorgimento, Einaudi, Torino 1962, pp. 321-322).
Presbite geniale, il più grande apostolo del risveglio nazionale oppose il concetto di nazione – che ha una sua personalità spirituale e storica, ma che adempie un proprio ufficio in rapporto a comunità più ampie, dall’Europa all’umanità – al «gretto spirito di nazionalismo» esclusivo, aggressivo, disumano.
Giovanni Gentile (ne I profeti del Risorgimento italiano, Vallecchi, Firenze 1923) aveva dato una visione anacronistica e storicamente sfocata della dottrina mazziniana della nazionalità facendola derivare da Vincenzo Cuoco. In realtà Mazzini ha una concezione politica democratica diversa da quella di Cuoco, convinto assertore del dispotismo illuminato dei principi del Settecento e di Napoleone.
Adolfo Omodeo, invece, nel saggio Primato francese e iniziativa italiana (in «La Critica» XXVII, 1929, pp. 223-240) dimostrò che il concetto mazziniano di iniziativa italiana e quello giobertano di «Primato» si formarono entro la comune coscienza europea, che mai fu così viva e alacre come nel periodo 1814-1848, aleggiando nelle diverse patrie «la coscienza di una comune civiltà europea, come nelle città greche al tempo delle guerre persiane l’idea dell’Ellade». La nazionalità fu concepita come strumento di universale civiltà e libertà, come «laboratorio d’umanità».
Sbagliano quegli storici che vedono nei movimenti delle nazionalità del XIX secolo la prima origine del secondo conflitto mondiale: essi confondono sanità e malattia, concezione nazionale e nazionalismo. È vero però, osserva Walter Maturi, che se i mazziniani di stretta osservanza furono fautori del solidarismo internazionale, un’altra corrente, impersonata da Francesco Crispi e da Alfredo Oriani, segnò il passaggio dal mazzinianesimo risorgimentale al nazionalfascismo.
La repubblica, per Mazzini, è un fine o un mezzo?
La radicale accentuazione del problema dell’unità nazionale avrebbe, di fatto, secondo La Farina e altri, resa agnostica la Giovine Italia nella questione istituzionale. «Ella ereditava dalla Carboneria la predilezione per reggimenti repubblicani; dico predilezione, perciocché la nuova associazione non ponea la repubblica come scopo, ma come mezzo più facile per conseguire l’indipendenza e l’unità nazionale» (Giuseppe La Farina, Storia d’Italia dal 1815 al 1850, Società editrice italiana, Torino 1851, vol. II, p.147). Walter Maturi osserva: «In realtà, nel concetto di Mazzini erano possibili incoraggiamenti ai prìncipi e accordi tattici con essi per combattere l’Austria, ma la repubblica restava sempre la forma logica d’ordinamento democratico, da raggiungere eventualmente in un secondo momento» (Interpretazioni del Risorgimento, op. cit., p. 266)
Mazzini, è vero, più volte si è mostrato disposto a fare un tratto di strada insieme con Carlo Alberto, con Pio IX, con Vittorio Emanuele II pur di realizzare il suo ideale di uno Stato nazionale, ma Mazzini non si mostrò mai disposto a rinunciare al suo ideale repubblicano. Questa suprema rinuncia, che Mazzini mai volle fare, creava una diffidenza profonda tra lui e i monarchici liberali nazionali. Chi ebbe il coraggio di fare questa rinuncia, aderendo lealmente alla monarchia sabauda, perché la monarchia sabauda realizzasse l’unità nazionale e si ponesse nella china della democrazia moderna, fu Giuseppe Garibaldi (significativa la lettera del 4 febbraio 1861 indirizzata da Garibaldi a Mazzini in Walter Maturi, op.cit., p. 368).
L’ideale mazziniano fu sin dall’origine della Giovine Italia: repubblica unitaria e libera, con autonomie comunali e amministrative.
La questione sociale
Il problema sociale fu sentito con particolare vivezza da Mazzini il quale, come rifiutò sempre la soluzione socialista, così criticò duramente l’individualismo liberale. Le condizioni sociali degli operai suscitarono il suo sdegno: «La mancanza d’organizzazione lascia ogni individuo alle proprie forze», nota Mazzini nel descrivere i tristi effetti della crisi economica, le miserie della vecchiaia, l’abbruttimento di un orario di lavoro insopportabile (12-14 ore giornaliere).
Le rivoluzioni furono sinora unicamente politiche: occorre adesso che siano politiche e sociali. Un giorno, egli disse, saremo tutti operai, cioè vivremo dell’opera nostra: «l’eguaglianza esige che ogni uomo partecipi, in ragione del suo lavoro, al godimento dei prodotti, risultato di tutte le forze sociali poste in attività». Non si tratta di distruggere la proprietà, ma l’esclusività e i privilegi di essa: si deve renderla sempre più accessibile al maggior numero, qual documento di un vivere compiuto. «Non bisogna abolire la proprietà perché oggi è di pochi, bisogna aprire la via perché molti possano acquistarla».
L’ideale a cui devono tendere le soluzioni non manichee e unilaterali del problema è quello di associare capitale e lavoro: allora avrà inizio il superamento del regime salariale e della concentrazione capitalistica. Lavoro e capitale devono essere nelle stesse mani: da questo programma nasceranno le cooperative di ispirazione mazziniana. Gli strumenti idonei alla instaurazione della civiltà del lavoro associato non sono gli egoismi di classe né il paternalismo corporativistico, ma le organizzazioni dei lavoratori e l’inserimento democratico dei lavoratori nello Stato mediante il suffragio universale.
Mazzini costituì la copertura a sinistra del Risorgimento nell’acuta consapevolezza che un’esasperata lotta di classe avrebbe reso impossibile la cacciata dell’Austria, la formazione di uno Stato liberale e il progressivo sviluppo democratico dei suoi ordinamenti.
IL REALISMO PERSONALISTICO
Realismo in quanto visione della realtà che ha nell’essere il suo centro, saldo e dinamico insieme, nonché l’infinito orizzonte; spiritualistico e personalistico, in quanto tra le forme e i gradi dell’essere assegna allo spirito, alla persona un deciso primato. Solo nella concretezza della persona l’essere è valore.
L’insegna del realismo personalistico è ben espressa dalle parole di Rosmini: «Tutto ciò che esiste o è persona o è relativo alla persona»; «l’essere è personale e tutto ciò che non è personale rientra nella produttività della persona come suo mezzo di manifestazione e di comunicazione con altre persone». Il realismo personalistico si ricollega liberamente ad Agostino, a cui risale la prima intuizione della realtà personale come autocoscienza di un soggetto, esperienza indubitabile di ogni singolo uomo.
L’itinerario speculativo del realismo personalistico consiste nel partire dalla coscienza per ritrovare nel suo interno la struttura metafisica e il dinamismo del soggetto personale; nell’analizzare le condizioni che impongono al soggetto di trascendere la coscienza:
a. in direzione orizzontale, cioè come inserzione nel mondo e rapporto di reciprocità con le altre persone;
b. in direzione verticale, verso l’origine, il fine, il fondamento radicale di ogni essere, in quanto apertura al valore supremo che è l’Infinito personale.
Tesi di gnoseologia
– Piena accettazione della pregiudiziale gnoseologica propria della filosofia moderna e del kantismo in particolare. Questa esigenza è espressa vigorosamente già dal primo pensatore del realismo personalistico, Pasquale Galluppi: «Occorre rifare il nostro intendimento prima di procedere ad affrontare qualsiasi altro problema».
– Si criticano, per la mancata soluzione del problema del conoscere, sia l’empirismo e il sensismo, sia il razionalismo che il kantismo, non senza sottolineare – a partire dalle celebri Lettere filosofiche del Galluppi (1827) – il fenomenismo che accomuna gli indirizzi contrapposti e che conduce inevitabilmente ad un esito scettico.
– Si approfondisce l’esperienza dell’auto-coscienza, dell’aliquid incossussum, e della inseparabilità del conoscere dal conoscersi. La coscienza non è un hortus conclusum, estranea all’esperienza sensibile ed eterogenea rispetto ad essa, secondo il dualismo presupposto della filosofia moderna, così come non è un epifenomeno della materia, un «elemento derivato secondario» (Karl Marx). La conoscenza sarebbe inspiegabile senza una determinante oggettiva, se la mente non fosse costitutiva apertura all’essere, senza l’unità sostanziale dell’uomo, senza l’attività e la responsabilità insurrogabile di ogni singola persona.
Tesi di metafisica
La metafisica realistica è recuperata e giustificata attraverso l’approfondimento dell’attività conoscitiva. Infatti, analizzare l’esercizio dell’intelligenza e non chiedersi da che cosa nasce e procede l’attività dello spirito è una mutilazione dell’esperienza umana. L’analisi del conoscere ci dà invece il senso della primalità dell’atto spirituale del soggetto conoscente sui dati del conoscere, i quali hanno una realtà che è distinta dal pensiero e servono a specificare la nostra personale capacità conoscitiva, ma non sono certo essi a produrla.
Al centro della riflessione filosofica si pone la dottrina dell’unità sostanziale della persona e della sua interiorità spirituale, della sua unicità. La persona che nell’Assoluto è aseità pura, in quanto umana e finita è sempre ab alio, non si auto genera, non si pone da sé nell’essere. Non è da sé e tuttavia si esprime, si manifesta, si possiede e non può perdere il suo esse in se, la sua insidenza senza distruggersi. La persona è una realtà ontologica che è soggetto di vita spirituale, coscienza e libertà, res cuius naturae debetur esse in alio (Tommaso D’Aquino, Quodlibet, IX q.3 a.5 ad 2um). La persona è ab alio et cum alio, ma non esiste se non è in se, non è mai in alio.
La persona non è l’orizzonte dell’esperienza, ma il centro da cui muovere all’esplorazione dell’orizzonte; non è sintesi, ma principio che pone la sintesi nell’ordine conoscitivo e morale; non è la situazione o un mero prodotto storico, ma colui che è nella situazione e la rende significante, modificandola; non è un fenomeno di convergenza collettiva, ma il fatto che rende possibile o impossibile la vita associata.
La persona non può concepirsi come un modo o un attributo o una funzione o un accidente del cosmo fisico o della realtà sociale e nemmeno di Dio. Certamente con tutte queste realtà che in un certo senso condizionano la sua esistenza, l’io deve entrare in relazione; ma non gli sarebbe possibile stabilire una qualsiasi relazione con esse, se anzitutto non possedesse se stesso nella sua inseità.
Il concetto di persona – perdutosi nell’intellettualismo greco, nei sistemi della ragione spersonalizzata, nell’averroismo e nell’illuminismo, nei monismi idealistici e materialistici dell’età moderna – è nondimeno l’esigenza profonda che circola nascostamente ovunque, l’anima di verità prigioniera in ogni sistema.
Tesi di morale
– Si rivendica la libertà umana come libertà condizionata, finita, contro i vari determinismi che tendono a fare dell’uomo un mero accidente del cosmo fisico, del corso storico, della collettività.
– Si celebra l’autonomia della coscienza morale, ma nel contempo la si fonda esplicitamente in Dio.
– Si approfondisce il carattere formale della legge morale, ma lo si fonda ontologicamente.
– Il fondamento di ogni autentica socialità sta o cade con quello della vita morale. La società è inter homines se si afferma in interiore homine. La persona contiene in sé la sua destinazione sociale e nemmeno potrebbe concepirsi come persona se contravvenisse a tale sua destinazione. La formula del personalismo sociale è perentoria: «quanto più discendo in me tanto più trovo gli altri; quanto più mi apro agli altri tanto più approfondisco me stesso».
Tesi di filosofia politica
– La natura umana è sociale per essenza. La tendenza associativa è non solo istintiva, ma anche razionale e progressiva, essendo orientata ad attuare i valori morali e l’unità della famiglia umana.
– La concezione dello Stato, come realtà naturale e insieme formazione storica, rifiuta la statolatria, il panteismo di derivazione hegeliana e marxista, e l’individualismo atomista.
– Una concezione umana della vita associativa e dello Stato è pluralista, garantisce cioè lo sviluppo della persona attraverso quegli organismi intermedi e quei gruppi sociali che preesistono allo Stato e che comunque favoriscono le articolazioni effettive delle libertà, in ogni campo.
– Il senso positivo della storia sta nella progressiva convergenza degli ordinamenti civili, politici, educativi, economici verso quei valori morali in cui più altamente si esprime la dignità della persona umana.
Alessandro Manzoni e i cattolici liberali
Il cattolicesimo liberale italiano è parte viva e originale del cattolicesimo liberale europeo. Esso non va confuso con il neoguelfismo degli anni 1843–1848. La sua origine risale agli inizi del secolo, collegandosi alla rinascita religiosa dell’Europa e al rifiuto dell’egemonia francese, spesso ostacolo alla tradizione cattolica. Il cattolicesimo liberale si pone in netta opposizione alle idealità e ai metodi dei governi della restaurazione. Patria, libertà, religione: questi tre valori che tra il 1814 e il 1848 conquistano tanti giovani, costituiscono la sintesi di un orientamento etico-politico ricco di personalità eminenti nell’arte, nella filosofia, nell’educazione, nella ricerca storica. La sua efficacia si prolunga per tutta la durata del Risorgimento ed oltre. Ad esso si ispirano Santorre Santarosa e non pochi redattori e collaboratori del Conciliatore. I cattolici liberali possono essere distinti in tre gruppi: i novatori ortodossi (Manzoni, Rosmini, Tommaseo), il liberalismo quasi interconfessionale di Toscana (Capponi, Lambruschini), i moderati piemontesi (Balbo, D’Azeglio, Durando).
Formatosi in clima illuministico, Alessandro Manzoni (1785 – 1873) fu in gioventù ateo, ma quando affrontò il problema religioso, lo fece con la serietà pensosa che gli era propria. La meditazione e gli studi sfociarono nel 1810 nella conversione che fissò per così dire la fisionomia del pensatore e del poeta. Per il suo straordinario equilibrio critico e per la profondità del suo sentire cristiano, egli riuscì come nessun altro a sceverare le verità utili e generose, «i germi buoni e salutari» dell’Illuminismo e delle rivoluzione, e insieme i limiti negativi, i fraintendimenti, l’angustia mentale.
Ciò giovò enormemente a tutti e caratterizzò fortemente quella parte del cattolicesimo italiano che si disse liberale, dandole la spinta necessaria a distinguersi senza equivoci di sorta dal romanticismo politico reazionario alla Joseph-Marie de Maistre e dall’utopismo, prima teocratico e poi democraticistico, di Hugues-Félicité Robert de Lamennais. Il cattolicesimo liberale si propone sul piano culturale e civile come una nuova espressione dell’umanesimo cristiano. Per Manzoni è errato attaccare tutto o lodare tutto. Di ogni epoca occorre giudicare, sceverare il grano dal loglio, ciò che è caduco, anche se osannato, e quel che è valido, anche se accidentalmente commisto a idee e fatti contestabili, discutibili e persino falsi. Nessuna idea o realtà storica può essere condannata a monte. Il metodo del cattolicesimo liberale è condensato in un testo delle Osservazioni sulla morale cattolica, seconda parte, in cui espone il suo pensiero e attesta nello stesso tempo sia l’universale apertura della sua mente, comandando la grata accoglienza ad ogni verità che i cristiani avessero dimenticata o tradita, sia la salvezza della sua fede in Cristo, il Logos eterno grazie al quale i cristiani sono chiamati a praticare l’arte di liberare le verità prigioniere di sistemi erronei per ricondurle alla loro divina sorgente:
«I filosofi hanno dette verità utili ed importanti – scrive Manzoni – e sono stati male avvisati quelli che hanno voluto tutto confutare. Conveniva separare il vero dal falso; e se il vero era stato taciuto, conveniva confessarlo e subire l’umiliazione di averlo taciuto: non rigettare le verità per confutare. Quando il mondo ha riconosciuta una idea vera e magnanima, lungi dal contrastargliela, bisogna rivendicarla al Vangelo, mostrare che essa vi si trova, ricordargli che se avesse ascoltato il Vangelo, l’avrebbe riconosciuta dal giorno in cui esso fu promulgato. Poiché “tutto quel che è vero, buono, giusto, puro, degno di essere amato e onorato; quel che viene dalla virtù ed è degno di lode” (Paolo ai Filippesi IV, 8), tutto è in quel libro divino. Bisogna mostrare al mondo che anzi quello che la Religione può condannare in quelle idee è tutto ciò che non è abbastanza ragionevole, né abbastanza universale, né abbastanza disinteressato. Se il mondo vuol pur sempre rigettare la dottrina di Gesù Cristo, la rigetti come follia, ma non mai come bassezza. La follia che consiste nel disprezzare le cose temporali di cui gli uomini sono più bramosi, nel sacrificare l’utile al vero, nell’affrontare i dolori e gli spregi per esso, è la follia dei martiri e dei padri, è il patrimonio eterno della Chiesa, e nessun cristiano deve sofferir mai che nemmen per un momento il mondo possa vantarsi di avergliela rapita».
Esistono delle virtualità del cristianesimo non ancora sviluppate, le quali aspettano di venire a frutto, e alcune di esse in parte sono venute negli ultimi secoli. Questo concetto Manzoni esprimeva nel 1819 nelle Osservazioni sulla morale cattolica, «primo importante manifesto di un patriottismo culturale che si ricollega al cattolicesimo» (Ettore Passerin D’Entrèves). Consapevole di non essere uomo d’azione e alieno com’era ai dibattiti pubblici, Manzoni compie però puntualmente tutti gli atti necessari a congiungere la responsabilità del cittadino e del credente. Nel 1814 firma la protesta contro il senato del Regno italiano, che ignora i diritti del popolo a decidere del proprio destino; nel 1819 collabora al sorgere del Conciliatore; spera e soffre nel marzo del 1821; nel 1848 aderisce alla insurrezione di Milano. La soluzione unitaria del problema nazionale gli apparve sempre «la meno utopistica». Di tendenze repubblicane, si lasciò poi persuadere dalla politica di Cavour ad accogliere come necessaria l’opera dei Savoia a favore di un’Italia unita e indipendente.
Ma il suo contributo più rilevante verte su rapporto tra fede e politica, tra coscienza cattolica e Risorgimento. Per Manzoni la distinzione netta – e non certo il dissidio – tra Stato e Chiesa s’impone in primo luogo per una considerazione: la Chiesa non abbraccia tutti i cittadini, ma solo i credenti. La separazione della Chiesa dallo Stato libera nella Chiesa l’efficacia che le è propria; al contrario, quando la sua azione si confonde con quella delle potenze temporali, scambia sovente i mezzi propri con quelli del mondo e i fini che si hanno da oltrepassare con i fini specificamente suoi. Il carattere sommamente libero e gratuito degli atti con cui l’uomo presta ossequio alla religione comporta di per sé il rifiuto di ogni coazione da parte del potere politico e del diritto civile. Nel momento in cui i cristiani abiurano pubblicamente, com’è loro dovere, la dottrina della forza, in difesa dei diritti della coscienza, non possono invocare la forza a sostegno della religione. Se ci si allontana da questo criterio, il risultato è aberrante: «la violenza esercitata in difesa di questa religione di pace e di misericordia è affatto avversa al suo spirito». La religione cattolica non ha bisogno di protezioni politiche, ma di libertà, e soltanto la sua libertà dev’essere protetta dal potere politico, che ha per ufficio appunto il rispetto e la tutela di tutti i diritti. Di fronte all’affermarsi di un cattolicesimo politico – l’espressione è di Manzoni – nella Francia della restaurazione, egli invita a «separare la religione dagli interessi e dalle passioni del secolo», opponendosi a quei cattolici che «vogliono assolutamente tenerla unita ad articoli di fede politica, che essi hanno aggiunto al simbolo», dimenticando e deformando «l’essenza del cristianesimo».
Né meno grave è la confusione del potere temporale e del potere spirituale, che si realizza nel principato civile del pontefice. Il principato civile del pontefice sovrappone indebitamente la politica temporale dello Stato pontificio all’annuncio del messaggio religioso e morale proprio della Chiesa cattolica. In altri tempi e in particolari circostanze storiche, l’unione dei due poteri poté essere una necessità e fu spesso cosa ragionevole e giusta; tuttavia il potere temporale non è essenziale al potere spirituale. La riprova sta nei fatti: il potere spirituale dei pontefici fu e si esercitò per tanti secoli prima che sorgesse il principato civile. Se ne deve concludere che non essendo essenziale, questo non può essere concepito come perpetuo e indefettibile. Sul piano della realtà storica, si constata infine che, la debolezza congenita dello Stato pontificio non garantisce affatto la libertà del papa, obbligandolo, in quanto principe temporale, a dipendere di preferenza da quella potenza che di volta in volta mostri di assumere le sue difese.
La politica è azione, partecipazione diretta ai dibattiti e alle decisioni, ma non è soltanto questo. C’è anche una politica che è illuminazione delle coscienze e testimonianza serena, esemplare nel turbine di opposte passioni, capacità di operare le scelte di fondo con ardita preveggenza e di farle avanzare realmente, sebbene senza clamori, lavorando ad abbattere storici steccati. In questo senso Manzoni fu uno dei maestri del Risorgimento, una forza costitutiva del nostro sorgere a nazione. «Lo stesso equilibrio spirituale del romanziere e del poeta era un grande insegnamento» (Giacomo Perticone).
Vasto e profondo è il magistero esercitato dalla sua grande arte che condanna la violenza, esalta la bontà morale e dileggia la vigliaccheria, insegna a guardare la storia con l’indipendenza di giudizio del cristiano. Riesce a provare che la fede, il coraggio, la resistenza degli umili alla sofferenza sostengono questa civiltà vacillante e scossa da tante debolezze e dalle corruzioni che minano anche l’istituzione dello Stato e della Chiesa. Prova anche che l’uomo non è «nato libero», come suggerisce Rousseau, ma che deve conquistarsi la libertà fra tutte le contraddizioni della storia e della società, con uno sforzo che impegna ogni individuo, anche coloro che i philosophes del ‘700 avevano stimato insignificanti (e questo è il lato democratico dell’opera poetica di Manzoni e del messaggio che egli ha trasmesso ai cattolici liberali).
Antonio Rosmini (nato a Rovereto, in Trentino, nel 1797 e morto a Stresa nel 1855) dette un vasto contributo al rinnovamento della Chiesa e all’elaborazione di una filosofia civile, scoprendo progressivamente la libertà come valore e come metodo proprio attraverso la polemica contro il liberalismo laicista. Critico dell’individualismo liberistico, come del diritto divino dei sovrani, dei privilegi dell’aristocrazia conquistatrice e del collettivismo comunista, Rosmini smaschera l’iniquità organica di ogni forma di assolutismo governativo. Assertore di una soluzione federalistica, sul modello della Svizzera, sottolinea la necessità che la lega abbia a sua base la rappresentanza popolare, la più vasta possibile. Vorrebbe uno Stato pontificio aperto alle riforme, non la sua totale abolizione, e in ciò è meno conseguente dell’amico Manzoni, col quale invece conviene pienamente nel condannare il temporalismo come categoria anti-spirituale, mondanizzazione della religione, che può esistere anche senza uno Stato pontificio.
Devozione profonda per Rosmini ebbe il dalmata Niccolò Tommaseo (1802 – 1874), scrittore, poeta, pedagogista, filologo, che per il Risorgimento della patria sofferse esilio, prigionia, stenti e partecipò attivamente al governo e alla difesa di Venezia nel 1848 – 1849. La vera condizione del riscatto nazionale sta nell’educazione spirituale e politica, nella preparazione tecnica ed economica del popolo. Federalista repubblicano, Tommaseo avversa le capitali megalopoli, il centralismo burocratico, lo strapotere dell’esecutivo. Congiunge vigorosamente cristianesimo e libertà («il cristianesimo diviso dalla libertà sarà sempre monco; la libertà nemica del cristianesimo, sempre serva») e ne trae le conseguenze: libertà di associazione; libertà dell’educazione (criticò aspramente il monopolio scolastico statale e il valore legale dei titoli di studio); «la legge non atea e a tutte le religioni uguale»; nessuna «codarda censura» del potere statale sulla nomina dei vescovi, sulla libertà di parola che compete ai sacerdoti come a qualsiasi altro cittadino. In una delle sue opere maggiori, Dell’Italia, scritta subito dopo il 1830 e pubblicata nel 1835, Tommaseo difende la dignità della donna e del ruolo che ad essa spetta nella comunità civile e politica. Fautore appassionato di una «democrazia sociale», Tommaseo ammonisce che non c’è veramente patria senza popolo e che il popolo italiano è essenzialmente agricolo. La soluzione dei problemi sociali del mondo rurale è necessaria per coinvolgere la grande maggioranza del popolo nel processo di rinnovamento politico.
I moderati piemontesi
I rappresentanti di maggior rilievo dei moderati piemontesi sono Cesare Balbo (1789 – 1853) e Massimo D’Azeglio (1798 – 1866). Cesare Balbo entra nell’amministrazione napoleonica, vedendo in ciò una scelta in un certo modo obbligata per chi avesse allora voluto far politica e giovare all’Italia. La crisi si apre nel 1809 quando Balbo è nominato segretario della Consulta degli Stati romani, aggregati all’impero dopo la cacciata del papa. La resistenza senz’armi all’usurpatore, a Napoleone, in nome della coscienza, commuove il Balbo diciannovenne e lo induce a porsi il problema del rapporto tra politica e morale, storia italiana e storia della Chiesa, Risorgimento italiano e indipendenza dallo straniero. Mentre l’ottusa restaurazione piemontese celebra i suoi meschini «baccanali della mediocrità», Balbo si unisce in sodalizio con Santorre Santarosa, Luigi Provana e Luigi Ornato in un sentimento più largo e nuovo di patria. Dal Santarosa, di cui può condividere l’aspirazione ad una monarchia lealmente costituzionale e liberale sull’esempio inglese, si allontana quando l’amico si pone a capo della rivoluzione piemontese. La monarchia non perdona però a Balbo le sue idee particolari, e, malgrado il suo lealismo, lo costringe all’esilio (1821 – 1824) e al confino (1824 – 1826), tenendolo lontano dalla vita politica anche dopo l’avvento di Carlo Alberto. La sventura del politico fa emergere la vocazione dello storico. Le opere Storia D’Italia (1830), Vita di Dante (1839), Meditazioni Storiche (1844) precedono i due libri più celebri, che più operano alla formazione della nostra coscienza nazionale: Delle Speranze d’Italia (1844) e Sommario della Storia d’Italia (1846). Delle Speranze d’Italia è dedicato a Gioberti e infatti il libro era nato dalla fervida meditazione del Primato, «ora seguendolo ed ora, non di rado, scostandosi da lui». L’orientamento del Balbo è contraddistinto da contraddizioni molto nette. Il vecchio schema illuministico della religione nemica del progresso è travolto dalla coscienza storica della nascita e dello svolgimento della civiltà europea; ma è travolto anche lo schema reazionario, caro alla cultura del tradizionalismo romantico (Joseph-Marie de Maistre, Louis-Gabriel-Ambroise de Bonald), nel progresso nemico della religione. È assurdo propugnare il cristianesimo maledicendo la civiltà, anche se è sempre opportuno non identificare il cristianesimo – in quanto fede, rivelazione, messaggio etico-religioso – con le particolari cristianità che si sono succedute nell’una o nell’altra epoca storica, cioè con le diverse società di cui i cristiani han fatto parte, società caratterizzate da grandezze e miserie, da meriti e contraddizioni. Le conquiste del ‘700 vanno difese contro la pubblicistica reazionaria, ma non basta più la buona amministrazione; occorre oggi non il dispotismo illuminato, ma la libertà, non le federazioni, con o senza la presidenza papale, ma l’unità e l’indipendenza nazionale. Il Piemonte geloso custode della sua indipendenza diverrà perno della lotta per l’indipendenza di tutta l’Italia, se la sua monarchia saprà farsi da subalpina nazionale e da assoluta costituzionale, ricollegandosi così ai paesi più progrediti dell’Europa delle libere nazionalità. Non primati, non egemonie, non boria nazionalistica, non pretese di autosufficienza e di isolamento dal resto dell’Europa gli italiani devono seguire ma l’ideale etico-politico più necessario e realistico, quello dell’unità nazionale, la quale può solo essere il risultato di un’instancabile mobilitazione dell’opinione pubblica. Si esce dal circolo vizioso, restaurazione – movimento settario – reazione – rivoluzione, solo attraverso un grande movimento di opinione, perché la politica è «il frutto non di una testa, ma di molte» e la cultura, la vita morale di un popolo, l’educazione, la politica, sono «fatti crescenti a vicenda», tra loro interagenti. All’esatta intelligenza del pensiero di Balbo ha nuociuto la riduzione semplicistica di esso a due idee che, isolate dal contesto storico-politico, possono persino apparire come idee fisse: il porro unum, il carattere assolutamente prioritario dell’indipendenza, e l’utilità che ne verrebbe all’Europa se si riuscisse a collegare l’espansione austriaca sui Balcani all’abbandono da parte dell’Austria del Lombardo Veneto. L’occasione diplomatica bisogna però perseguirla tenacemente, muovendo, se necessario, anche guerra all’Austria, pur di inserire finalmente il problema italiano in un discorso politico europeo. Fu Balbo a fondare col giovane Cavour, nel 1848, il giornale il cui titolo, Il Risorgimento, divenne poi il nome di un’epoca intera, e toccò a lui anche l’onore di presiedere, sia pure per soli quattro mesi, il primo ministero costituzionale in Piemonte.
L’altro protagonista del gruppo moderato piemontese è Massimo D’Azeglio (1798 – 1866), cugino di Balbo, genero di Alessandro Manzoni, fratello del gesuita Luigi Pittore, romanziere, musico, soldato, uomo politico, «portava in ogni sua espressione un fondo di uomo serio» (Francesco De Sanctis). I suoi romanzi storici Ettore Fieramosca (1833) e Nicolò De’ Lapi (1841) dettero ai giovani il senso della patria e il gusto della libertà; i suoi opuscoli politici costituiscono ancor oggi uno splendido esempio di «prose di battaglia». Scelto dal partito liberale moderato per una delicata missione politica in Romagna, riassunse le esperienze fatta in quell’occasione nell’opuscolo pubblicato clandestinamente nel 1846 in Toscana Gli ultimi casi di Romagna. D’Azeglio fu l’autore fortunato di altri celebri opuscoli con i quali seppe farsi ascoltare dai connazionali: l’importantissima Proposta di un programma per l’opinione nazionale italiana nel 1847; nel febbraio del 1848 I lutti di Lombardia, contro la crudele repressione dei fermenti antiaustriaci a Milano; e a guerra perduta Timori e Speranza. Con Balbo D’Azeglio concorda in più di un motivo: indipendenza nazionale, discussione libera e aperta, ricerca di una piattaforma unitaria per una concorde azione politica, primato dell’opinione pubblica («il consenso dell’universale» come «fede del diritto comune» è la traduzione etico politica del concetto spesso ambiguo di sovranità popolare). I rivoluzionari disprezzano il popolo non meno dei reazionari perché lo gettano in «imprese malcalcolate e imprevviste, che grondano lacrime e sangue», e che conducono immancabilmente a nuove forme di servaggio politico. Per i moderati la via da percorrere, se l’Italia deve veramente sorgere a nazione libera e indipendente, consiste nel «cominciare dal principio», mettendo in chiaro quali debbono essere i principi elementari del vivere civile e politico, alimentando il libero dibattito e la protesta legale, educando gli italiani al «coraggio civile».
VINCENZO GIOBERTI
Vita e opere
Vincenzo Gioberti era figlio di un sensale che lo lasciò orfano a sei anni; la madre, più cameriera che dama d’onore, lo affidò ai Padri Filippini e morì nel 1819. Nel 1825 Gioberti fu ordinato sacerdote e nel 1826 promosso Cappellano di corte. Tra il 1827 e il 1833 viaggiò molto, conobbe e venerò Leopardi e Manzoni.
Quattro sono le fasi dell’evoluzione spirituale e politica del suo pensiero:
– Scetticismo a esito tradizionalistico.
– Razionalismo a esito deistico, prima, panteistico poi.
– Riconquista dell’ortodossia religiosa (a partire dal 1835). Ontologismo corretto e filosofia della creazione in filosofia. Moderatismo politico per necessità politica e neoguelfismo: il Primato (1843).
– Ideali democratici, autonomia del potere statale da quello ecclesiastico e liberalismo progressivo in Del Rinnovamento civile d’Italia (1851).
I manoscritti non furono pubblicati da Gioberti «essendo debito di ogni scrittore di non farsi filosofo in pubblico, prima d’esser ben chiaro dei suoi pensamenti». Esaspera la contraddizione della ragione per aggiungere titoli di necessità all’appello della fede. Fideismo che si integra in una teorica dell’autorità e della tradizione, espressioni della ragione universale che infrena gli errori e la varietà d’opinioni della ragione individuale.
Razionalismo a esito deistico, prima, panteistico poi
«L’uomo non può dar tributo alla fede nell’autorità del genere umano, se prima non libera quest’autorità colle bilance della ragione e della coscienza». La varietà delle opinioni è in rapporto alla poliedricità del vero. L’errore sta nell’erigere in assoluto una delle relazioni di cui risulta la realtà. La rivelazione è un vero proporzionato alle intelligenze modeste.
Cappellano di corte dal 1826, agli inizi del 1833 chiede l’esonero dall’incarico. Reso antimonarchico dalla lettura di Alfieri e dalla conoscenza del reazionarismo della corte torinese, invia una lettera a Mazzini; con lo pseudonimo di Demofilo l’articolo viene pubblicato nel VI fascicolo del giornale della Giovane Italia recante il titolo: «Della Repubblica e del Cristianesimo» (è soppressa la parte in cui Gioberti marcava le sue differenze rispetto a Mazzini).
Il 31 maggio 1833 è arrestato. Il 23 settembre ottiene di partire in esilio. Dall’ottobre 1833 al dicembre del 1834 è a Parigi. Conosce da vicino i tentativi dei sansimoniani di dar vita a religioni filosofiche e ne rimane disgustato («Non sono altro che astrazioni, ovvero il cristianesimo spolpato e ridotto alle condizioni d’uno scheletro»). É aspro censore della spedizione dei Mazziniani in Savoia.
Ortodossia religiosa, ontologismo e creazionismo, liberal-guelfismo
Nel 1835 si porta a Bruxelles e insegna filosofia e storia all’Istituto Gaggia, prete spretato bresciano per quasi un decennio. Lo studio implacabile, il ritorno alla pratica cattolica e l’amicizia di Raffaele Fornari, nunzio apostolico a Bruxelles dal 1842 al 1843, dettero esito ortodosso alla sua vicenda spirituale. Il suo travaglio intimo approda alla conclusione che «il cristianesimo non è una simbolica esprimente la filosofia, ma il compimento della filosofia medesima». Ciò prova in modo inconfutabile che il cattolicesimo di Gioberti non fu «espediente pratico per la restaurazione dell’Italia», come hanno scritto l’idealista Adolfo Omodeo e il tomista Umberto Antonio Padovani.
Le opere di Vincenzo Gioberti sono:
– Teorica del sovrannaturale (1838 – inedita).
– Teorica della mente umana (inedita).
– Introduzione allo studio della filosofia (1840).
– Del Bello (1841).
– Degli errori filosofici di Antonio Rosmini (1841 – 1844).
– Del primato civile e morale degli italiani (1843).
– Del Buono (1843).
– Prolegomeni del primato morale e civile degli italiani (pubblicato a Bruxelles nel 1845)
– Il Gesuita moderno (1847).
– Apologia del Gesuita moderno (1848).
– Del rinnovamento civile d’Italia (1851).
La protologia (studio di ciò che è primo e fondamentale), uscì, postumo, nel 1857. Postumi gli scritti di riforma religiosa, in stato di abbozzo ma di grande importanza: Filosofia della rivelazione, La riforma cattolica, La libertà cattolica.
Qual era nella mente di Gioberti il compito del Primato?
Il senso storico consiglia non il nominalismo politico dei principi astratti, ma un progresso moderato, che non ignori cioè gli antecedenti storici, e realistico, cioè aderente alle condizioni di fatto per tramutarle. Si trattava di far balenare ai principi, al clero, a tante forze ostili al radicalismo repubblicano i primi avviamenti a forme liberali presentate nei modi più accettabili: libertà di stampa, ma censura preventiva; istituzioni non parlamentari, ma semplicemente consultive; redenzione delle plebi come compito proprio della classe dirigente e diritto-dovere del principe; unione economica tra i diversi Stati e rispetto della loro individualità politica; accorte critiche all’immobilismo e alla decadenza di tante istituzioni religiose e celebrazione dei principi che ad esse dettero nascimento, ecc.
Per Candeloro, storico di tendenza marxista: «Il libro […] esprimeva una tendenza conciliatrice che era largamente diffusa e rispondeva in quel momento a interessi reali e a sentimenti profondamente radicati. Al Gioberti va quindi il grande merito di aver saputo nel momento opportuno lanciare una formula ideologica e un programma politico che poterono mettere in moto larghi strati dell’opinione pubblica italiana rimasti fino a quel momento inerti o addirittura ostili al movimento nazionale […] La passione politica, la speranza di creare un movimento capace di scuotere finalmente la situazione italiana[…] lo spingevano a dare al neo-guelfismo un carattere prevalentemente strumentale. Gli accorgimenti tattici del Primato furono il presupposto di una vasta manovra strategica che Gioberti ideò e condusse per alcuni con spregiudicato realismo fino alla rottura dello schieramento reazionario in Italia» (Storia dell’Italia Moderna, Feltrinelli 1958, II v., pp. 362 – 364).
Secondo Walter Maturi (Interpretazioni del Risorgimento, op. cit., p. 269) e Antonio Anzilotti (Gioberti, Vallecchi, Firenze 1931), Gioberti, sfaldando di dentro il mondo della restaurazione, dette un decisivo contributo al nostro Risorgimento; facendo accogliere dalle più belle intelligenze cattoliche italiane le idee di libertà e di nazionalità, Gioberti – pur servendosi del mito neo-guelfo, non privo del resto di accorte sfumature e limitazioni (ad esempio il ruolo di protagonista assegnato al Piemonte sul piano politico) – isolava moralmente il papato temporale.
Giuseppe La Farina (Messina 1815 – Torino 1863, patriota siciliano, esule in Toscana, nel 1842 pubblicò il giornale L’Alba. Diplomatico e ministro in Sicilia durante la rivolta del 1848, esule a Parigi dal 1849 al 1854, poi a Torino. Deputato di Messina, capitanò un gruppo parlamentare con tendenze di centro-sinistra), non vide il contributo potente della scuola cattolico-liberale al Risorgimento, ma mise in rilievo che Gioberti non va collocato tanto all’inizio quanto a conclusione di un movimento politico-religioso iniziato dal Conciliatore, continuato da Pellico, Manzoni, Berchet, Balbo e da tanti altri con opere di storia e di poesia intese ad alimentare il nascente liberalismo cattolico.
Per Giorgio Candeloro, storico marxista di impostazione gramsciana, Gioberti chiuse un movimento culturale e aprì un movimento politico.
Il neo-guelfismo che a Cattaneo appariva un «anacronismo», per De Sanctis non era affatto l’assurda pretesa d’un ritorno impossibile al guelfismo, ma una nuova formazione politico-religiosa, di cui il cattolicesimo liberale di Manzoni esprimeva assai bene il fondo comune: «È il Vangelo che consacra la democrazia, diventata democrazia cristiana; è il Vangelo che consacra la libertà, diventata libertà cristiana… Il contenuto antico [le idee del sec. XVIII] è battezzato, eppure solo trasponendo i termini, dal diritto naturale passando a un diritto superiore, quel contenuto si ringagliardisce, piglia nuove forme, nuovi colori, nuovi motivi e tendenze, e nuove corde…». L’aspetto religioso del movimento ebbe minor fortuna: «Lo dirò con profonda convinzione: fu non solo difetto di sentimento religioso nel popolo, ma negli stessi uomini che presero parte a quel tentativo, fatto non in nome della religione veramente, ma in nome della politica mascherata da religione».
Adolfo Omodeo (Palermo 1889 – Napoli 1946, storico del cristianesimo, inizialmente discepolo di Giovanni Gentile poi legato a Benedetto Croce), ha scritto un’opera di «demolizione sistematica di Gioberti». Gioberti inventò il mito neo-guelfo come un cavallo di Troia per penetrare nell’Italia cattolica e assolutista. Non di mito nel significato spiritualistico di ideale, bensì in quello machiavellico-soreliano di espediente si deve parlare. A partire dall’«Avvertenza» premessa al Del Buono nel 1843, Gioberti stesso più volte protestò e rispose a questa tesi interpretativa già presente nel dibattito suscitato dalla pubblicazione del Primato. «Io dissimulo talvolta nei miei scritti, ma non simulo mai; né si trova in essi pure una parola che non risponda alla mia intima persuasione. Ma se non penso mai il contrario di ciò che dico, non dico sempre tutto ciò che penso: perché ogni qualvolta la manifestazione del vero non torna opportuna, il dissimulare è, non che lecito, prescritto e degno di lode». Contro chi denigrava le sue intenzioni – facendo di lui il campione mascherato di una concezione razionalistica e laicistica – egli pensò che «le dissimulazioni del Primato riguardano il libro politico, non il libro religioso, e non han da far nulla col cattolicesimo». Gli argomenti lasciati nell’ombra per prudenza riguardavano soltanto le relazione dell’Austria con la lega italiana, l’influsso dei gesuiti sulla Chiesa e la questione del governo laicale dello Stato pontificio.
Parlando di sogno o d’utopia, Gioberti precisa di riferirsi soltanto all’arbitrato papale e all’unità federativa della penisola, senza intaccare la realtà del magistero spirituale di Roma, fuori del quale sarebbero perdute «l’unità morale dell’umano genere e l’eroico esercizio della carità cristiana». Infine – incalzava Gioberti nell’«Avvertenza» – anche per quanto si riferisce a quei sogni, non saremmo troppo lontani dalla realtà, se «debba sorgere quando che sia un gran Papa».
Osserva Walter Maturi ad Adolfo Omodeo che è impossibile negare a Gioberti il suo posto tra i formatori della nuova Italia e che, ammesso pure che il neo-guelfismo avesse in Gioberti la forma d’un espediente machiavellico, resta il fatto che intanto questo espediente ebbe successo in quanto l’ideale neoguelfo era già sorto e si era sviluppato in Italia. «Certamente il Primato d’Italia fu il libro galeotto – ebbe a scrivere assai bene Benedetto Croce nella Storia d’Europa – ma non avrebbe operato la seduzione se non fosse stato preceduto da tutto il lavorio dei cattolici liberali».
Prolegomeni del primato morale e civile degli italiani
Scritto nell’aprile del 1844, costituisce l’esplicazione degli argomenti volutamente lasciati in ombra. Il successo enorme del Primato fu accompagnato dal clamore dei mazziniani e degli anticlericali che vedevano in Gioberti il «baciapile oscurantista». Gioberti difende il nucleo essenziale del Primato, la mancanza di dialetticità degli esclusivisti che vorrebbero ridurre il pensiero al dominio di un’idea sola. Esclusivismo è negare la civiltà laica in nome della ierocrazia, ma esclusivismo è anche la negazione opposta.
Dal seno del potere sacerdotale, provvidenzialmente disposto per proteggere una civiltà incipiente, erompono le forze del laicato, che si affermano con Dante all’inizio dell’età moderna. Ad esse compete una potestà vera e giuridica nella sfera degli interessi temporali, nella quale sarebbe indebita una diretta ingerenza dei poteri ecclesiastici. Non si creda però che, per esercitare la propria autonomia, la civiltà secolare debba disimpegnarsi dalla religione o risolvere la religione in cultura: «guardiamoci, dunque, dal tornare irreligiosi per essere liberi e forti» (brano che ispirò l’appello sturziano del 1919).
L’arbitrato papale, la sua civile presidenza proposta nel Primato non indicava un evento di facile realizzazione e nulla aveva in comune con i sogni teocratici di De Maistre: l’arbitrato era concepito in modo da non offendere l’autonomia degli Stati che volontariamente lo conferissero al Papa perché liberamente sarebbe stato chiesto e liberamente accettato il suo lodo; non accrescere la potenza temporale della Chiesa, ma il prestigio della lega.
In ogni caso l’ipotesi avanzata serviva principalmente a sottolineare una necessità, un imperativo: «Qualunque sia l’orditura della nostra lega e il capo che le si voglia assegnare, ella dee essere informata all’idea cattolica: la quale è in gran vincolo dell’Italia come nazione»; l’ardua impresa della redenzione nazionale deve essere affidata a un «principe secolare, il quale esprima civilmente l’idea cattolica».
La monarchia che voglia congiungere indipendenza e unità nazionale nel rispetto dei valori morali e religiosi del cattolicesimo deve legittimare la sua autorità con quella specie di «elezione morale» che è la fiducia del popolo. Suo primario strumento è il ceto medio – il ceto dell’operosità e della cultura – che è posto tra la nobiltà ch’è il popolo invecchiato e la fede ch’è il popolo fanciullo, e che deve riassumere d’entrambi i pregi, evitandone i difetti. Il ceto medio attua la sua collaborazione col potere sovrano mediante gli ordini rappresentativi [nel Primato si parlava solo di organi «consultativi»].
Ormai il riserbo del Primato cede alla più esplicita chiarificazione di mete e mezzi. La seconda edizione del Primato, dopo la fucilazione dei fratelli Bandiera a Cosenza, sopprime le lodi al re di Napoli, che i Prolegomeni colpiscono con fiera requisitoria. I Prolegomeni, aldilà dell’utopia di «malagevole esecuzione» della presidenza papale, fanno esplicito riferimento alla guerra d’indipendenza contro l’Austria e al principe italiano che entrerà primo nel nazionale arringo: «egli sarà moralmente signore d’Italia, senza che altri abbiano a dolersene e farà ufficio di capo e di braccio verso la patria acefala e smembrata».
Altra costante della mentalità giobertiana che viene alla luce è l’antigesuitismo. Nei Prolegomeni vi è una requisitoria contro i gesuiti, pur nel riconoscimento della nobiltà delle costituzioni originarie e della purezza di costume dei componenti l’ordine – elementi questi messi già in rilievo nel Primato, sulla base di due principali argomentazioni: antidialettici per eccellenza, rispetto alla civiltà e alla cultura moderna, si attestano su posizioni di puro esclusivismo comprimendo in esso lo spirito cattolico di universale comprensione; simpatizzanti per l’Austria, sono per lo straniero contro la patria terrena: devono pertanto essere espulsi.
Dal punto di vista speculativo le pagine più significative sono quelle in cui si celebra la trascendenza come fondamento della fede nel valore della persona umana e, dunque, della civiltà stessa, e le pagine sulla a-dialetticità degli esclusivismi (Luigi Stefanini, Vincenzo Gioberti, Vita e Pensiero, Milano, 1947, pp. 149 – 151).
Il Gesuita moderno e Apologia del Gesuita moderno
Scritto negli anni 1846 – 1947 in cinque tomi, viene venduto in 14 mila copie. Nel novembre del 1845, Gioberti lascia Bruxelles per dedicarsi al sereno lavoro della sistemazione filosofica del suo pensiero, ma la polemica dei gesuiti lo travolge nel ritmo d’una produzione quasi giornalistica. I padri Francesco Pellico (fratello di Silvio), Giuseppe Romano e Luigi Taparelli D’Azeglio (fratello di Massimo) scrivono a Gioberti, poi Pellico e Carlo Maria Curci attaccano pubblicamente Gioberti tra la fine del 1845 e il principio del 1846. I gesuiti chiariscono che se nazionalità e civiltà non rientrano nei fini del Vangelo, ne derivano secondariamente purché sotto il loro nome non si nascondano mene rivoluzionarie, sovvertimenti dei poteri costituiti.
Gioberti risponde che religione e patria in Italia sono indissociabili: il Risorgimento non può sortire senza il soccorso della religione perché il cattolicesimo è per noi vincolo di nazione e, d’altra parte, il ripristino in Italia d’un essenziale valore religioso appare condizionato dalla rinascita civile del suo popolo. Fattore di disgregazione è la Compagnia di Gesù che in nome della religione guarda con ostilità, con indifferenza e con mentalità reazionaria la causa della patria e delle sue civili istituzioni. Eliminare questo fattore di disgregazione è pertanto atto preliminare del Risorgimento. Prima di combattere gli austriaci bisogna cacciare i gesuiti.
Sul piano speculativo le pagine più importanti sono quelle che raffigurano i due poli della sofistica nel gesuitismo e nel giansenismo, nel lassismo e nel rigorismo, nel molinismo e nel determinismo teologico: il molinismo «ridurrebbe Dio a un complice affatto secondario, un consultore o suggeritore delle cause seconde».
L’Apologia del Gesuita moderno è scritto tra gli ultimi mesi del 1847 e l’aprile del 1848. Prende posizione contro l’atteggiamento filogesuitico di Tommaseo, contro il circolo di Montalembert che tendeva a influire sul Papa, agitando lo spauracchio dell’estremismo sovversivo e contro l’intolleranza dei «retrogradi».
Il Risorgimento è evento politico e religioso a un tempo, in quanto «l’entratura civile dei popoli» e la conquista dei beni della cultura fanno parte della restaurazione terrena del regno di Dio, preludio al suo perfetto adempimento ultramondano. Il moto italiano mantiene il carattere di «rivoluzione ideale», di ragionevole persuasione dei più e di pressione popolare sui pubblici poteri.
D’altra parte ogni governo illuminato dovrebbe far sua la divisa: «antivenire l’opinione liberale in tutto ciò che non si oppone alle leggi: entratura di ogni progresso, resistenza alle sole illegalità» (lettera a Pier Dionigi Pinelli del 24 marzo 1848).
Il sistema federativo è progetto ancora valido; suo prologo necessario la lega doganale. «L’unione è il principio, il tirocinio e per così dire il lastrico dell’unità». Il contrasto tra il vero (=dover essere) e il fatto (=la realtà effettuale) dev’essere mediato. «Questo è il tempo in cui ci conviene imitar Fabio Massimo: speriamo che fra non molto verrà quello in cui ci sarà dato di mutar strategia e di emulare Scipione». Il criterio del censo non è sufficiente a qualificare gli eleggibili, dev’essere garantita la presenza di coloro che costituiscono la «ricchezza intellettiva» nella nazione.
L’Apologia ricorda l’incontro con Mazzini a Parigi, alla fine del 1847, e la promessa del genovese di «non turbare il moto costituzionale con maneggi repubblicani fuor di proposito». Gli Stati italiani devono avviare intese commerciali e politiche con l’Inghilterra e con la Francia – nel febbraio ridivenuta repubblica – per salvare il nuovo Stato italiana dall’isolamento e fargli «pigliar luogo pacificamente nel genere universale» (intenzione di illuminato realismo che Cavour farà propria).
L’accanimento di Gioberti contro i gesuiti trova motivi nella loro peculiare storia (si veda Luigi Stefanini, op. cit., p. 154). Caduti prima della rivoluzione francese per aver cozzato contro l’assolutismo, rinati con la restaurazione insieme con l’assolutismo, i gesuiti apparivano ora consorti di questo; anarchici e regicidi prima che Clemente XIV nel 1773 li sopprimesse, apparivano ora «giannizzeri del dispotismo» e «puntelli del trono». Di fatto il loro nemico era uno solo: il razionalismo illuministico, armato un tempo di giurisdizionalismo principesco, ora vestito di liberalismo e democrazia: ai loro occhi ne erano infette, non solo le congreghe mazziniane e massoniche, ma anche le espressioni più pacate dello spirito nuovo, le istanze nazionali, le scuole popolari, gli asili d’infanzia, soprattutto le ideologie dei riformatori cattolici che volevano riscuotere nell’organismo della Chiesa il senso evangelico della libertà e dell’umana uguaglianza.
La lotta politica in Italia 1848 – 1849
Quando Balbo diventa presidente del Consiglio, Gioberti viene proposto ministro dell’istruzione, ma la designazione non ottiene il beneplacito del re. Gioberti rifiuta la nomina a senatore, ma è eletto plebiscitariamente deputato a Torino e a Genova. Il 29 aprile 1848 vi fu la famosa allocuzione di Pio X. Il 30 maggio Torino tributa all’esule trionfali accoglienze. Gioberti visita il re e le truppe al fronte, la madre di Mazzini a Genova ed è accolto trionfalmente a Roma e in tutte le città che tocca nel suo viaggio in Italia condotto con intenti unitivi.
Gioberti ha chiara coscienza delle difficoltà reali della situazione e delle forze disgregatrici che neppure nell’ora della prova si davano per vinte: il municipalismo di Venezia e Milano, la gelosa preservazione delle prerogative piemontesi nei confronti della Lombardia e della stessa lega italiana stoltamente accantonata nel momento in cui bisognava darle il massimo incremento, la resistenza di Carlo Alberto a ulteriori concessioni costituzionali, l’inettitudine del re al comando delle operazioni militari.
Dopo Custoza, il 29 luglio 1848, ministro senza portafoglio nel Gabinetto Casati, Gioberti è convinto che l’idea federativa doveva esser ripresa per rimediare alla sconfitta e che fosse urgente uscire dall’isolamento diplomatico e allearsi alla Francia. Per ritessere la trama federativa fu inviato a Roma Antonio Rosmini, ma il ministero Casati cadde. Il 19 agosto succede il gabinetto Cesare Alfieri che propendeva alla pace attraverso la mediazione anglo-francese sulla base del memorandum Hummelauer del 4 maggio 1848: autodecisione della Lombardia, autonomia amministrativa e sovranità austriaca nel Veneto.
Questa politica trovava consenso nel gruppo moderato che faceva capo al giornale Il Risorgimento, mentre Gioberti è fermo all’idea federativa, cui potevano recare valido contributo Pellegrino Rossi a Roma e Gino Capponi a Firenze entrambi al potere, e alla ripresa della guerra con le forze politiche militari dell’Italia confederata.
Gioberti organizza la «Società Nazionale per la confederazione italiana» con il seguente programma:
– indipendenza assoluta dell’Italia dallo straniero
– unione del Piemonte coi ducati e le province del lombardo-veneto
– integrità territoriale e mantenimento delle prerogative politiche dei vari Stati già costituiti nella penisola.
Al Congresso federativo del 10 ottobre Montanelli fa prevalere la tesi di nuovi istituti politici votati a suffragio universale dai popoli della penisola, moltiplicando i sospetti dei poteri costituiti.
Gioberti ricevette l’incarico di formare il gabinetto il 13 dicembre 1848. Qual era la situazione? «Erano prostrate le armi, scorato l’esercito dai recenti disastri; Toscana e Roma agitate…; Pio fuggitivo, Leopoldo vacillante, Ferdinando fedifrago, contraria l’Europa conservatrice; per colpa dei passati ministri era impossibile la lega italica, l’aiuto della Francia, il concorso della penisola» (Del Rinnovamento civile d’Italia). L’aristocrazia piemontese rifiuta di partecipare al governo, che deve poggiare sulle forze radicaleggianti. Nondimeno Gioberti tenta invano d’infrenare lo sbocco rivoluzionario della Costituente toscana e della Repubblica romana, vedendo in esso una sciagurata complicazione che apriva la via al caos e non all’unione, moltiplicava la diffidenza e provocava l’intervento straniero in aiuto del Papa spodestato.
Che cosa fare? Poiché Torino non può agire sulla lega italiana, agirà in sua vece, avendo il dovere di pacificare la patria comune. Disegno che Cavour giudicò «forte», ma non fantasioso. Con quest’animo Gioberti prepara l’intervento dell’esercito sardo in Toscana e a Roma, contro gli ultra-democratici montanelliani e contro i mazziniani, il cui puritanesimo perdeva di vista la lotta decisiva, quella contro l’Austria, e tornava a porre una contrapposizione tra coscienza nazionale e coscienza religiosa e tra Piemonte e Italia. Il disegno non ebbe l’approvazione del ministero e Gioberti sciolse la Camera per assicurarsi una base parlamentare.
Ma la nuova Camera fu non meno inquieta e avversa al progetto della prima. Gioberti il 19 febbraio 1849 rassegna le dimissioni; Carlo Alberto invita i ministri a rimanere in carica e sostituisce Gioberti con il generale Agostino Chiodo. Gioberti sconsiglia la guerra dal suo giornale, subito fondato, Il Saggiatore. E il 23 marzo è a Novara.
Dopo Novara, Gabriele de Launay raccolse la triste eredità e Gioberti accettò di essere ministro senza portafoglio, inviato straordinario a Parigi per ottenere un appoggio amichevole dalla Francia nella stipulazione della pace con l’Austria. Gioberti invece puntava più in alto: attizzare la rivalità tra Francia e Austria per incutere paura all’Austria e abbassare le pretese. Contrariato, si dimise il 5 maggio 1849. Il 1849 vide compiersi il destino invano deprecato: gli Austriaci in Toscana, nelle Marche, nella Romagna, nei Ducati, con la caduta di Roma, e, ultima, di Venezia.
Del Rinnovamento civile d’Italia
A Parigi, Gioberti si ferma, in volontario esilio dal 1849 al 1852, anno della sua morte. Non accetta pensioni, onorificenze, uffici e neppure la nomina a deputato. Gioberti ci dà nel raccoglimento di Parigi il suo testamento politico: Del Rinnovamento civile d’Italia (1851).
Il Risorgimento fallì perché degenerò nelle sette sofistiche dei municipali e dei puritani: i primi alienarono Torino dall’egemonia e Napoli, Roma e Firenze dalla lega; i secondi spensero nelle fasce la nuova libertà italica con le loro intemperanze repubblicane, provocando l’intervento straniero.
Se il Risorgimento poteva essere federativo, il rinnovamento sarà conseguito mercé la supremazia militare e politica di una regione alla quale faranno capo i popoli delle altre regioni. Il rinnovamento si preannuncia intellettivo per il posto preminente riconosciuto alla cultura, nazionale per la costituzione dello Stato nazionale unitario, democratico per la redenzione delle plebi.
L’associazione di cultura e lavoro, di riflessione e intuito è l’opera della democrazia del domani perché la plebe assurge a sostanza di governo nella mentalità di coloro che ne esprimono le esigenze di giustizia e libertà con piena e ferma consapevolezza. La partecipazione sempre più larga del popolo alla vita politica e a una più equa distribuzione della ricchezza caratterizzerà il rinnovamento anche sul piano economico come estraneo sia al conservatorismo che al collettivismo socialista, moltiplicando le possibilità di accesso alla proprietà mediante il lavoro.
La questione istituzionale non riguarda i princìpi, ma l’opportunità pratica. È sommo errore considerare la forma di governo come dotata di compiuta eccellenza e di valore assoluto. I popoli vanno verso la repubblica; ma, nelle condizioni attuali dell’Italia, vi è una grande possibilità per la monarchia piemontese: «La monarchia sabauda, stata finora impropizia all’ingegno, aristocratica e municipale dee rendersi al possibile progressiva, democratica e nazionale». Nel processo di attuazione del rinnovamento è ancora necessario un moderato indirizzo personale del sovrano.
Sulla questione del potere temporale e dei rapporti tra il futuro Stato italiano e la Chiesa la posizione del Gioberti è rigorosa e recisa. Il Primato, volendo trasformare il Papato in forza cospirante dell’unione nazionale, pur nella consapevolezza dei mali della temporalità, cercava di emendarla, di inserirla in una cerchia più vasta e benefica. Gli scritti posteriori al Primato furono meno essoterici, più chiari, sebbene ancora preoccupati di non sospingere Pio IX tra i nemici della causa nazionale: e ciò non fu vano se è vero che senza Pio IX «non avremmo avuto Carl’Alberto, né le riforme, né gli statuti, né la guerra nazionale: non vi sarebbe stata, insomma, pur l’ombra del Risorgimento».
Ora la questione si pone nei suoi esatti termini. Bisogna rinnovare la tradizione dantesca, escludere ogni ingerenza civile da parte degli ecclesiastici, separare assolutamente il sacro dal profano, e d’altra parte, escludere invadenza dal potere politico nell’ambito religioso. Insomma il programma è chiaro: fine del potere temporale e insieme assoluto rispetto della libertà della Chiesa e dell’indipendenza del Papa. «Il rinnovamento italiano andrà innanzi anche senza il Papa, e anche senza il Papa non lascerà di essere cattolico».
Chi preparerà l’ordito della trama? Con parole degne di un trapasso di poteri e d’un testamento politico l’esule indica senza esitazione un uomo: Camillo Benso conte di Cavour. Con Roma l’Italia fece l’Europa: «tre volte fu istitutrice d’Europa, prima con la politica e le armi, poi colla religione e il sacerdozio, infine col culto laicale delle lettere, delle arti e delle scienze». L’Italia, divenuta indipendente, sarà in Europa portatrice del messaggio di cui l’Europa moderna ha bisogno, congiungendo col suo genio creativo fede e cultura, ispirazione religiosa e attuazione della giustizia nella libertà. Così nel Rinnovamento rinasce l’anima del Primato senza essoterismi e attenuazioni.
Giuseppe Massari (1821 – 1884), prima fervente giobertiano, poi capo del servizio stampa e propaganda del Cavour per gli anni decisivi dell’unificazione, non sentiva tra i due grandi piemontesi alcuna soluzione di continuità: Cavour non aveva fatto altro che attuare il programma del Rinnovamento del Gioberti.
Giovanni Gentile e Antonio Anzilotti videro in Gioberti uno dei massimi artefici del Risorgimento che, superando l’astrattismo di Mazzini e facendo leva sull’opinione cattolica italiana per sommuoverla, aveva spianato la via al 1848; poi, dopo il fallimento della rivoluzione del 1848 – 1849, aveva col Rinnovamento aperto la via alla politica di Cavour.
Per Luigi Stefanini quel giudizio non può essere modificato dal diverso avviso di Adolfo Omodeo, anche perché il responso della storia risultò troppo consono alle previsioni dottrinali: la immissione del problema italiano nel vivo della politica europea, la persistente politica anti-austriaca e l’alleanza francese, l’egemonia piemontese e le annessioni nell’Italia meridionale, l’abolizione del potere temporale, la formula liberale dei rapporti tra Stato e Chiesa. Vi fu «profezia» nel senso di azione persuasiva esercitata dall’opera giobertiana su Cavour e sugli altri esponenti della nuova politica piemontese in modo di avviare prospettive e azioni conformi per molti aspetti alle sue intenzioni.
La notte fra il 25 e il 26 ottobre 1852 Gioberti muore in seguito a un improvviso attacco cardiaco. Accanto al cadavere una Bibbia e un giornale: la ricerca dell’Assoluto e la passione politica.
Il pensiero filosofico
L’ontologismo contro lo psicologismo e il primo ciclo della formula ideale
La filosofia moderna da Cartesio a Kant è affetta di psicologismo o soggettivismo ed è caratterizzata da tentativi disperati per evadere da esso (è il caso di Kant e dello stesso Rosmini) e per attingere una conoscenza oggettiva.
La battaglia è, però, perduta fino a quando il soggetto pensante non prende coscienza del fondamento primo della realtà e del sapere. Protagora col suo principio «l’uomo è misura di tutte le cose» è il fondatore dello psicologismo; Platone, quando nelle Leggi scrive che «Dio è la misura di tutte le cose», rovescia il principio protagoreo e opera così il ritorno dello spirito umano al suo originario punto di partenza. L’uomo e la vita umana sono al primo posto nel pensiero di Platone (e di Gioberti), ma Dio è al centro di questo mondo umano ed è proprio l’intellegere e il velle, l’attività razionale che conosce e vuole, il vincolo che unisce l’uomo al trascendente. Sperimentando la realtà del mio essere, congiuntamente, io intuisco la realtà del principio primo e profondo che mi pone fuori dal nulla.
Dio è la realtà che fonda, avvolge, misura il nostro pensiero. Egli è la realtà che rende il nostro pensiero aperto all’essere e capace di oggettività nel suo atto di giudicare. C’è nello spirito dell’uomo un continuo, implicito riferimento all’Assoluto. Questa presenza non concettuale, ma reale dell’Ente alla coscienza è il primo rapporto della mente con l’essere, è l’intuito originario, radice di ogni esperire ulteriore. Ogni giudizio di esistenza (aliquid existet) reca in sé, implicitamente, l’affermazione di Dio (quia Deus est). Infatti contro l’assurdità del niente da cui tutto sorgerebbe sta l’affermazione spontanea dell’Infinito come condizione costitutiva del reale e della sua intelligibilità. Non si può pensar nulla senza rapportarlo all’Assoluto, né voler nulla senza tendere a Dio. «In Eo vivimus et sumus, cognoscimus et volumus». L’esistente, che è e che può non essere, non è necessariamente; dunque esiste in quanto causato da una realtà distinta atta a produrlo.
L’intuito originario coglie non l’Ente in sé, ma in quanto creatore, e gli esistenti nella loro causa prima. Noi percepiamo la «relazione creaturale» che lega l’esistente all’Ente nel momento in cui formuliamo un giudizio di esistenza. E quindi in ogni conoscenza è presente e operante la conoscenza fondamentale, o «giudizio primo» che Gioberti chiama «formula ideale». Essa, nel suo primo ciclo, può essere così espressa: «l’Ente crea l’esistente».
Il Gioberti chiama la sua dottrina ontologismo o ontoteismo. Ontologismo è parola che designa la teoria secondo cui l’intuito originario della Sorgente degli esseri, che fonda e misura ogni esistente e il nostro pensiero, è la condizione che rende possibile ogni altra conoscenza, essendo la presenza di Dio costitutiva della nostra razionalità.
Il sensismo e lo psicologismo, che pretende di chiudere la mente nella sfera delle proprie modificazioni intramentali (come le forme a priori kantiane e l’essere ideale rosminiano se inteso come mero possibile), sono due forme di scetticismo; dalla scetticismo si esce solo con l’ontologismo.
Intuizione e riflessione
La verità dell’ontologismo è per Gioberti nella proposizione di Tommaso secondo cui in ogni conoscenza noi implicitamente conosciamo Dio («semper cognovimus implicite Deum in quolibet cognito»): sperimentando la realtà del mio essere, congiuntamente io intuisco la realtà del principio primo e profondo che mi pone fuori dal nulla.
Ma la posizione di Gioberti si evolve dall’Introduzione (1840) agli Errori di Antonio Rosmini (1841 – 1844) alla Protologia. Gioberti esce dal circolo assorbente dell’intuito – che nella fase iniziale incombeva sulla sua dottrina – per aprirsi sempre più ai poteri riflessivi della mente. L’intuito è limitato a parte subiecti, perché il soggetto è un essere finito, e ancor più e per la stessa ragione è limitato a parte obiecti, perché non coglie Dio in sé. Un ontologismo non criticamente definito obbliga la mente umana a trasferirsi assurdamente in Dio e fa del pensiero umano un mero riflesso della luce dell’Idea.
Il Gioberti della maturità polemizza contro lo pseudo-ontologismo assorbente come contro lo psicologismo. «Non si può conoscere il pensiero immediato o intuitivo se non per via del pensiero discorsivo, giudicante o successivo».
L’intuito è la condizione del conoscere, cioè l’immediatezza del vincolo creativo che unisce Dio all’uomo e conferisce all’uomo la possibilità di conoscere Dio, cioè di affermarne dimostrativamente l’esistenza. Ma di per sé l’intuito è fuori dalla conoscenza attuale; ne è solo la condizione che la rende possibile. Per conoscere attualmente occorre una sintesi di intuito, apprensione del dato o esperienza e riflessione. La riflessione è l’attivo processo di mediazione razionale, di esplicazione della intelligibilità di ogni realtà. La coscienza umana, quanto più penetra riflessivamente in se stessa, tanto più scopre in sé quel Dio, che creando l’uomo, fonda la sua intelligenza e libertà.
L’estetica ci offre un esempio chiarificatore del rapporto intuizione-riflessione. Condizione essenziale per comprendere esteticamente l’opera d’arte è che noi la ricreiamo in noi stessi, fino a risalire all’atto originario della creazione da parte dell’artista, fino a intuire in qualche modo la personalità dell’artista nell’atto in cui egli dà essere all’opera sua e la distacca da sé.
Ricorriamo ad un’analogia: supponiamo di aver avuto – della personalità di un individuo – un’intuizione oscura, come attraverso un misterioso contatto di anima con anima; e supponiamo che codesta intuizione ci venga chiarendo e determinando via via attraverso i colloqui che noi abbiamo con quell’individuo. La parola che noi udiamo è l’espressione sensibile del mondo d’idee ch’egli viene via via creando nell’atto che parla con noi, e in tanto noi diciamo d’intendere – attraverso le parole – l’idea, in quanto la riportiamo a quel centro di vita spirituale che l’intuizione globale di essa ci ha rivelato.
L’ascesa metessica dell’universo nel secondo ciclo della formula ideale
La formula «l’Ente crea l’esistente» esprime come un primo ciclo della vita reale. Vi è un secondo ciclo espresso nell’altra formula «l’esistente ritorna all’Ente». Dio con l’uomo ha creato un creatore, autore di un nuovo mondo, il mondo storico e morale. Dio ha costituito così l’uomo a principio d’una seconda creazione, che tende a ricongiungersi al suo principio divino.
Dio è Atto puro, infinito attuale, infinito intensivo. L’uomo è un «dio incoato», un dio che incomincia, un infinito potenziale. L’uomo è finito, ma tende a spostare e a sorpassare il limite della sua aspirazione all’Assoluto, divenuta consapevole di sé ed efficace attraverso la rivelazione storica del cristianesimo. L’uomo è un’immagine finita dell’Infinito.
La «palingenesia» del mondo, «l’ascesa metessica» a Dio è celebrazione dell’autonomia umana e della sua fondazione in Dio, bene e valore supremo che è persona.
Come si attua l’ascesa metessica? L’uomo, nelle alterne e drammatiche vicende della storia, è chiamato a elevare progressivamente, al livello della coscienza morale potenziata dal cristianesimo, l’educazione, la politica, l’economia, il lavoro, la scienza.
Il segno e il risultato storico tangibile dell’ascesa metessica dell’umanità a Dio è la riscoperta dell’unità della famiglia umana, ai più diversi livelli. Gioberti celebra il valore della storia, ricollegandosi a Vico, così come nella prima parte del suo pensiero s’era ricongiunto a Platone. Oltre la storia, la palingenesi è la restaurazione e la rigenerazione di tutte le cose in Dio.
La dottrina della parola
Tra il Gioberti della Teorica del sovrannaturale e il Gioberti della maturità vi è diversità di soluzioni del problema del linguaggio, ma vi è anche un nucleo essenziale che si approfondisce e chiarisce.
Tesi costantemente affermate:
– La parola, come ogni segno, è un sensibile che «consuona» con la duplice natura dell’uomo, composto di corpo ad anima.
– La parola è strumento sensibile per esprimere il pensiero e il mondo interiore dell’uomo. È tanto necessaria al pensiero che s’identifica con esso. Senza il linguaggio l’uomo ha la ragione, ma non l’uso della ragione. Non esiste pensiero senza parola.
– La tesi sensistica dell’origine convenzionale e artificiale della parola è un romanzo. Essa è contraddittoria: suppone l’attitudine a inventare la lingua in chi non possiede ancora la ragione, mentre non esiste parola senza pensiero né questa senza quello.
Nella Teorica del sovrannaturale (1838) Gioberti crede necessario concludere che il primo linguaggio non fu trovato dall’uomo, ma in lui «infuso» da Dio. Il primo linguaggio fu una rivelazione sovrannaturale così come la scienza implicita in esso. Questa tesi, in cui l’eco del tradizionalismo francese (De Bonald in primo luogo) è forte e diretto, fu abbandonata nelle altre opere per una dottrina ben più alta.
Le conclusioni dell’ultimo Gioberti possono essere così riassunte:
Il senso della persona
L’uomo è una persona che si tiene in mano per mezzo della sua intelligenza e della sua volontà. Egli non esiste soltanto come un essere fisico: c’è in lui un’esistenza più nobile e più ricca: la sovraesistenza spirituale propria alla conoscenza e all’amore. Egli è così, in un certo senso, in tutto e non soltanto in parte, è egli stesso un universo, un microcosmo, in cui il grande universo intero può essere racchiuso dalla conoscenza. E mediante l’amore egli può darsi liberamente ad esseri che sono per lui come degli altri se stesso. Di questa specie di relazioni non esiste alcun equivalente nel mondo fisico.
Se ricerchiamo la prima radice di tutto questo, noi arriviamo al riconoscimento della piena realtà filosofica di questo concetto dell’anima, tanto ricca di caratteri, e che un Aristotele descriveva come il primo principio della vita di ogni organismo e vedeva dotata nell’uomo di un intelletto sopra-materiale, e che il cristianesimo ha rivelata come il domicilio di Dio e come fatta per la vita eterna. Nella carne e nelle ossa dell’uomo esiste un’anima che è uno spirito e che vale più di tutto un intero universo fisico. Per quanto possa dipendere dai più lievi accidenti della materia, la persona umana esiste in virtù dell’esistenza della sua anima, che domina il tempo e la morte. È lo spirito che è la radice della personalità.
La nozione di personalità implica così quella di totalità e quella d’indipendenza. Dire che un uomo è una persona, significa dire che nella profondità del suo essere egli è piuttosto un tutto che una parte, e più indipendente che servo. È questo mistero della nostra natura che il pensiero religioso esprime quando dice che la persona umana è a immagine di Dio. Una persona possiede una dignità assoluta perché è in relazione diretta col regno dell’essere, della verità, della bontà, e della bellezza, e con Dio; ed è solo mediante ciò che essa può arrivare alla sua completa pienezza.
NOTA CONCLUSIVA: La raccolta di scritti di filosofia di Matteo Perrini nasce dall’esigenza di non disperdere il lavoro di una vita volto in primo luogo a chiarificare a se stesso le idee e le concezioni dei filosofi e, conseguentemente, a tradurle in un linguaggio accessibile ma rigoroso per i propri studenti. I materiali riportati nel volume provengono da diverse fonti, utilizzate per differenti finalità e scritte nell’arco di un cinquantennio, all’incirca tra il 1950 e il 2000. Si tratta di schede ad uso interno finalizzate alla sistematizzazione del pensiero di un autore, di appunti su quaderni per preparare lezioni scolastiche, di articoli pubblicati sul Giornale di Brescia o su riviste specializzate.