Una premessa: nella conferenza tenuta agli Incontri di Cattolica del 1982, Norberto Bobbio a un certo punto racconta di aver incontrato, pochi giorni prima di venire a Cattolica, un suo ex allievo, professore di filosofia in un liceo di Torino, che gli esprime il suo vivo interesse per l’iniziativa. Un interesse che riscontra anche nei suoi allievi e che risponde a un intenso bisogno o a una richiesta di filosofia. L’uomo del dialogo chiede di chiarire che cosa voglia dire propriamente l’espressione “richiesta di filosofia” e l’appassionato ex allievo la definisce come una “richiesta di senso”. Così comincia la seconda parte della conferenza. Bobbio sostiene che “richiesta di senso significa bisogno di dare un senso alla propria vita, alle nostre azioni e a quelle di coloro verso i quali dirigiamo le nostre azioni, alla società in cui viviamo, al passato, alla storia, all’universo intero”.
Ricorrendo alla distinzione fra il nostro mirare alla spiegazione di qualcosa e il nostro mirare alla giustificazione di qualcosa, Bobbio delinea una sequenza di domande che possiamo porci quando ci interroghiamo sul perché “causale” di un evento o di un fatto o sul perché “finale” di un evento o di un fatto. Qui torna in primo piano la differenza fra scienza e filosofia, da cui aveva preso le mosse la prima parte della conferenza. Riconoscere che l’impresa scientifica sia in grado di rispondere veridicamente al primo tipo di domanda, che è una domanda di spiegazione, non equivale a sostenere che la risposta scientifica a proposito di come stanno le cose sia una risposta, a tempo stesso, alle nostre domande di spiegazione e alle nostre domande di giustificazione. Un conto è descrivere e spiegare come stanno le cose. Un altro conto è dire che senso le cose hanno per noi. Una distinzione, del resto, che qualsiasi partecipante all’impresa scientifica accetta e fa propria. La sequenza di domande che Bobbio delinea culmina nella questione radicale leibniziana: perché l’essere e non il nulla?
Così, l’indagine filosofica coincide con l’arte del formulare domande di senso. La filosofia, sostiene Bobbio, deve porre delle domande, non lasciare l’uomo senza domande, e fare intendere che al di là delle risposte della scienza c’è sempre una domanda ulteriore; non appagarsi mai della risposta, per quanto ardita e geniale, dello scienziato; rendersi conto che per quanto sia stretta la zona di luce del nostro sapere, c’è sempre una zona d’ombra, che non sembra diventare più piccola per il solo fatto che la nostra esplorazione del cosmo si è perfezionata. Ed è nella zona d’ombra in cui l’indagine filosofica induce a formulare – sempre di nuovo – domande di senso, che possiamo alla fine identificare lo scopo umile e tuttavia necessario del fare e del continuare a fare filosofia oggi. Con le parole di Bobbio: “tenere viva la fede nella ragione contro coloro che non credono neppure nella ragione, che io chiamo i meno che credenti, e contro coloro che credono senza ragionare, cioè i più che credenti. Questo è il compito umile, molto umile ma necessario della filosofia: un compito da sentinella, più che presuntuosamente da guida”. Nella zona d’ombra sembra riecheggiare la proposizione 6.44 del Tractatus di Wittgenstein: “Non come il mondo è, è il mistico, ma che esso è”. O, per dirla più in prosa, viene fatto di pensare al suggerimento di Achille Varzi: quando siete di fronte a un testo, sostituite i punti al termine delle proposizioni con altrettanti punti interrogativi e vi inoltrerete in testo filosofico, fatto di domande. (Con mia nipote Camilla, qualche anno fa, abbiamo giocato nonno e nipote, ne Il giardino delle idee, al gran gioco dei perché filosofici.)
La natura filosofica delle domande di senso
Per rendere conto della natura dell’indagine filosofica, ho da tempo proposto due immagini che valgono come artifici espositivi. Quella del mestiere del coltivatore di memorie e quella dell’esploratore di connessioni. La filosofia come arte dell’interrogazione si avvale della tensione o della circolarità fra le due attività. Cominciamo dicendo che possono darsi casi in cui è propriamente effetto dell’indagine filosofica il generare un qualche esito di incompletezza e insaturazione delle nostre credenze. Si tratta di casi in cui è la nostra ricerca, con il suo corteo di domande, l’esercizio dell’inchiesta sulle autorità epistemiche e la verifica della legittimità delle loro pretese, a mettere in questione modi altrimenti usuali di vedere le cose. E ciò ha luogo sul più ampio e familiare sfondo di casi in cui sono le circostanze dell’inaspettato, del caso e dell’incertezza a sfidare le nostre credenze abituali e a mettere in moto esogenamente l’indagine. Nei casi esogeni l’indagine filosofica risponde al mutamento, all’innovazione e all’incertezza che ne consegue e mette sotto pressione, sino al limite della rottura, le nostre credenze. Si considerino i casi in cui il mutamento investe i nostri modi di convivere, interagire e orientarci nel mondo nei campi della scienza, della tecnologia, della politica, delle pratiche sociali, dell’economia, della cultura, dell’arte, della religione.
Nei casi endogeni, l’indagine filosofica genera incertezza grazie all’arte del formulare domande inedite. Possiamo sostenere che i casi esogeni presuppongono che le nostre credenze siano sfidate, per così dire, dall’esterno: da eventi che sono indipendenti da esse e le chiamano in causa. Mentre diremo che i casi endogeni presuppongono che vi siano crepe e tensioni entro la rete delle nostre credenze. Sia nei casi endogeni sia in quelli esogeni la ricerca chiama in causa i nostri impegni modali in senso propriamente epistemico.
Consideriamo casi endogeni che sono esemplificati dall’esercizio socratico che apre l’inchiesta e suscita inquietudine e ci chiede di esaminare in altro modo le nostre questioni di vita. Casi in cui viene meno l’inesorabile o pigra cogenza di modi di vedere le cose, il mondo e noi stessi nel mondo. Quando l’indagine introduce nella routine e nel paesaggio abituale delle cose, delle relazioni e delle nostre interazioni un elemento inaspettato e perturbante e ci induce a vedere in altri modi le cose, le stesse cose, come ci suggerisce una qualche nozione di straniamento. Quando l’arredo delle nostre residenze cognitive è messo a soqquadro e la luce varia e ci accade di vedere noi stessi e le cose sotto altri aspetti, prima non dati. Quando l’indagine ci induce, alterando il sistema abituale delle nostre coordinate di prossimità e distanza, al riconoscimento della nostra ipocrisia o ignavia cognitiva. Alcune necessità possono rivelarsi false necessità, alla luce di controesempi illuminanti. E possibilità prima non accessibili emergeranno. Questo esito può essere considerato un esito dell’esercizio della nostra limitata ragione e dell’arte dell’interrogazione che, nello spazio delle ragioni, sottopone alla verifica dei poteri qualsivoglia autorità epistemica che avanzi pretese di legittimità.
Il coltivare memorie è, alla fin fine, una pratica intellettuale che mette a fuoco questioni, dilemmi, enigmi e problemi, avvalendosi del repertorio delle diversità, delle somiglianze e delle differenze, dei variegati tipi di alterità nel tempo. E anche l’esplorare connessioni è, alla fin fine, una pratica intellettuale che induce ad acquisire prospettive inedite e inaspettate, immergendo i nostri oggetti abituali in un intorno di possibilità. Perché, grazie alle connessioni riuscite, lo stato delle cose finisce per assumere una fisionomia non già data. Una fisionomia, cui si addice impeccabilmente il senso delle possibilità. Possibilità situate, esplorate dall’indagine situata che adotta un punto di vista situato. Ma si tenga conto che il carattere situato delle possibilità dipende in ogni caso dalla priorità dell’attuale, come unica via d’accesso sia al possibile sia al necessario. [NdR: A un’interpretazione filosofica delle modalità Salvatore Veca ha lavorato negli ultimi anni e gli esiti della ricerca sono consegnati a un libro, Il senso della possibilità. Sei lezioni, Feltrinelli 2018]
Dobbiamo riconoscere che il repertorio delle diversità, di cui si avvale il primo tipo di pratica intellettuale, è intrinsecamente non convergente e ricco di differenze. Differenze nei modi di vedere le cose, negli stili d’indagine, nei metodi, nelle procedure o nelle retoriche dell’argomentazione e della narrazione, nelle prospettive su noi stessi e il mondo. Un repertorio in cui convivono nel tempo alternative persistenti, ricorrenti e confliggenti. Viene da chiedersi: dovremmo forse guardare all’attività filosofica come a un ventaglio di stili d’indagine e di scopi e obiettivi di ricerca differenti e alternativi? Ora l’antiriduzionismo sembra essere una caratteristica intrinseca dello spazio filosofico e della sua tradizione. Robert Nozick ha osservato qualcosa del genere, quando si è chiesto se per caso non dovremmo riconoscere come eccitante, piuttosto che desolante, la tensione persistente nello spazio filosofico. Hilary Putnam ha sostenuto che l’aspirazione a che la filosofia divenga un corpus cumulativo di conoscenze è solo una chimera e ha concluso: “e se le questioni filosofiche in effetti non si possono ‘risolvere’. È, nel senso che le avremo sempre con noi, non c’è da rammaricarsene, perché si tratta di una cosa meravigliosa”.
Crisi di spiegazione e crisi di fiducia
È facile vedere che questa caratterizzazione del repertorio filosofico come un repertorio pasticciato e meticcio di exempla e di modelli ha inevitabilmente carattere metateorico. La filosofia in questo caso mira a dire qualcosa di se stessa. E ritiene importante ricorrere all’esercizio metateorico. Ciò avviene con una certa sistematicità e frequenza. Nel caso dell’impresa scientifica, come ho mostrato altrove, esaminando lo sfondo entro cui si genera la costruzione goedeliana dei teoremi di incompletezza, il ricorso alla metateoria sembra appropriato nelle circostanze di una crisi di spiegazione, circostanze che in vari modi mettono sotto pressione ed erodono le necessità. In matematica la controversia, la ricerca e l’indagine sulla sua natura di attività intellettuale, i.e. l’elaborazione di metateoria quale metamatematica, hanno luogo e acquistano un vivo interesse e importanza quando le cose vanno male. Quando non si procede senza intoppi, qualcosa non torna e ci si imbatte in troppi vicoli ciechi. Lo stesso, grosso modo, vale in fisica o in biologia. Basta pensare agli sviluppi, alle estensioni, alle integrazioni e agli approfondimenti del grande programma darwiniano nel corso del tempo. O alle controversie persistenti nell’ambito delle teorie delle stringhe o della gravità quantistica; delle teorie che mirano all’unificazione delle interazioni fondamentali.
Perché ciò ha luogo nel dominio delle teorie scientifiche quando vi è crisi, quando si addensano le anomalie, quando prospettive inedite di riduzione da teoria a teoria sembrano disponibili o, per alcuni aspetti, inevitabili e possibilità euristiche promettenti si intravvedono sui margini, sui confini porosi fra differenti approcci e discipline. In ogni caso, dobbiamo presupporre che si diano crisi di spiegazione, come ci ha suggerito Bernard Williams. Lo spazio delle ragioni per la giustificazione di qualcosa è, nel contesto della crisi di spiegazione, sottoposto a pressione sino al limite della rottura.
In filosofia la manovra metateorica invece risulta piuttosto familiare e persistente. Perché? Dovremmo forse dire che l’attività filosofica è ciclicamente e costantemente in crisi, una crisi di fiducia o legittimità nel senso prospettato da Bernard Williams, o che essa è caratterizzata costitutivamente non solo da una varietà e da una pluralità di criteri per l’argomentazione e la ricerca e l’esplorazione intellettuale, ma anche da una varietà essenziale e mutevole di obiettivi o di fini? Torniamo a domandarci se non dovremmo forse guardare all’attività filosofica come a un ventaglio di stili d’indagine e di scopi e obiettivi di ricerca differenti e alternativi. E questo naturalmente potrebbe essere considerato di nuovo come un promemoria antiriduzionistico. Ma potremmo anche dire: l’idea ora è che vi sia una sorta di inesauribilità del mutevole oggetto dell’indagine filosofica rispetto a qualsivoglia prospettiva. Questo rende conto dell’esercizio socratico dell’interrogazione. La catena delle domande di senso non ha fine e l’adozione di più di un punto di vista è una manovra intellettuale che fa di necessità virtù, nel senso che è rispondente alla natura degli oggetti o dei temi filosofici. L’idea è che una convergenza che fosse ottenuta da una prospettiva, grazie all’eliminazione di qualsiasi altra prospettiva ad essa alternativa, in virtù della dimostrazione delle ragioni irrevocabili dell’eliminazione, renderebbe in qualche senso più povera e angusta la nostra risposta filosofica agli enigmi ricorrenti o agli enigmi inediti e inaspettati. Per questo, potremmo contrapporre al paradigma della dimostrazione, che adotta la necessità, il paradigma della spiegazione filosofica, nel senso di Nozick, che mette a fuoco la possibilità.
Gli exempla e i modelli del repertorio di cui si avvale il coltivatore di memorie lo mostrano in modo perspicuo. Il cogito di Descartes e la mathesis universalis di Leibniz, la scepsi di Hume e la soluzione scettica del paradosso scettico, la dimensione trascendentale di Kant, la comprensione retrospettiva di Hegel, i dati sensibili dell’empirismo, la comunità illimitata dei ricercatori di Peirce, la visione eidetica di Husserl, i giochi linguistici e le forme di vita di Wittgenstein, ecco una serie di congetture filosofiche che persistono, quasi nella forma di motivi musicali, nel repertorio o nell’archivio. Così ci accade di procedere nella ricerca con tutta l’eco di possibilità concettuali alternative e persistenti.
Sappiamo che ciascuna di queste congetture ha mirato a conquistare l’ultima parola, e a funzionare da base incrollabile e ferma, roccia e non argilla, per l’edificazione di teorie filosofiche comprensive. Il destino ironico dell’ultima parola è quello della sua conversione in penultima, come ho più volte sostenuto. Ma qualcosa resta. Il modello del Partenone, elogiato da Nozick nelle sue spiegazioni filosofiche, resta. Restano frammenti e colonne, restano fregi e icone, anche se la costruzione ha conosciuto il destino del tempo che altera ed erode le basi della sua gravitas vitruviana. Qualcosa resta, possiamo dire, esemplificando nel tempo la persistenza di un ventaglio di possibilità alternative. Potremmo anche dire: qualcosa resta, come una sorta di motivo musicale. Per questo ha senso mettere insieme ricordi per uno scopo determinato, quando ciò è particolarmente difficile, come ci ha suggerito Wittgenstein.
Il coltivatore di memorie si avvale dell’eco di prospettive e congetture che l’indagine rende propriamente insature. Ho cercato di mostrare nelle mie indagini filosofiche in che senso l’esame socratico delle nostre questioni di vita, come nel caso dell’attesa quale exemplum dell’esperienza di incompletezza dal punto di vista del partecipante, sia incentrato sulla messa a fuoco di un enigma grazie all’adozione di una congettura. Naturalmente, vale anche in questo caso il precetto wittgensteiniano della dieta non monotona di esempi, se non si vuole tradire la promessa dell’offerta filosofica di prospettive e congetture. La filosofia deve prendere sul serio, in virtù della sua incompletezza, il più vasto repertorio offerto dal sapere delle cose umane. E non solo dalla storia e dalle scienze sociali. Deve contaminarsi con il repertorio della scrittura e della testualità letteraria, con i mutevoli linguaggi dell’arte. Con le opere, i testi, le icone, le immagini e i monumenti alla Valéry. Così come con gli esiti mutevoli della ricerca scientifica, le trasformazioni dei nostri modi di convivere nel tempo e le credenze che ne conseguono.
La tradizione filosofica, come ogni altra tradizione, è un campo di tensioni e linee discordanti, come ci ha suggerito Giulio Preti. Né potrebbe essere altrimenti. Il coltivatore di memorie se ne avvale selezionando fra le possibili alternative, e in tal modo innesca la manovra di insaturazione di un repertorio che se ne sta lì, a disposizione del saccheggio degli eredi. E formula così domande di senso. Il retaggio ci offre i frammenti di un discorso ininterrotto, frammenti che possono illuminarci in modo inaspettato e perturbante nell’indagine. Questo è quel che resta. Almeno, fino a quando vi saranno coltivatori di memorie.
Esplorare connessioni, abbiamo detto, è una pratica intellettuale che ci induce, se le cose vanno bene, ad acquisire prospettive inedite e inaspettate. Nell’attività di esplorazione di connessioni, noi spesso miriamo a immergere determinati oggetti o dominii di oggetti entro contesti differenti e alternativi rispetto a quelli dati e già disponibili. L’esplorazione di una mutevole lista di oggetti entro un’ontologia sociale renderà conto, grazie alle connessioni con azioni, istituzioni, norme e pratiche, della natura di fatti sociali e dei variabili metodi della loro costruzione. È facile rendersi conto che in tal modo può accaderci di vedere in altro modo le cose. E di acquisire, in questo senso preciso, prospettive inedite e inaspettate. Questo, del resto, vale sia nello spazio dell’indagine filosofica sia nello spazio della conoscenza scientifica. Né la manovra è estranea allo spazio dei linguaggi dell’arte e alla varietà dei loro modi di generare versioni del mondo.
L’esplorazione delle connessioni ci consente di gettare una luce diversa sulla vexata quaestio del realismo, dell’oggettività della conoscenza scientifica e del carattere interpretativo del sapere delle cose umane, in una prospettiva astratta e generale che prende sul serio al tempo stesso la variabile prossimità e la variabile distanza fra gli spazi dei differenti saperi. Inducendoci a considerarne e saggiarne con attenzione le interazioni, gli attriti, le contaminazioni e gli scambi nel tempo. Inducendoci, in ogni caso, a prenderne sul serio la storia. E predisponendoci alla cura e all’attenzione per il ventaglio di possibilità che si apre in virtù dei persistenti tentativi dell’esploratore di connessioni. In questo, dopo tutto, consiste l’elusiva e appassionante libertà filosofica. Almeno, fino a quando vi saranno esploratori di connessioni.
L’immaginazione filosofica
Perché, almeno fino a che vi saranno esploratori di connessioni, si manterrà viva l’immaginazione filosofica. È l’immaginazione filosofica che, alla fine, induce all’esplorazione sperimentale di mondi possibili entro le crepe, i varchi, gli intoppi, gli squilibri e le lacune del presente. Ai tempi della dittatura del presente e dell’ombra sempre più contratta del futuro sul presente. Possiamo dire allora che l’immaginazione filosofica ha bisogno di persistenti esercizi di resistenza e di distanza. Resistenza nei confronti dei modi irreggimentati di pensare le cose, il mondo e noi nel mondo (qui è all’opera la falsa necessità). E, quindi, distanza rispetto alla falsa necessità che preme e pesa sull’irreggimentazione, sul disciplinamento foucaultiano dei modi di pensare le cose, il mondo e noi nel mondo. Stanley Cavell ha sostenuto che “nel filosofare devo spingere il mio stesso linguaggio e la mia stessa vita all’immaginazione”. Come ho detto, il repertorio dei differenti e divergenti modi di vedere ciò che vediamo, in cui consiste lo spazio di tensione dell’interrogazione filosofica, è intrinsecamente caratterizzato da una varietà di exempla e di modelli. E la consapevolezza che le cose sono state viste e valutate e sperate, lodate e biasimate in più di un modo, nel tempo o nella varietà dei differenti tempi alle nostre spalle, alimenta e sostiene con forza intuitiva l’idea elementare delle possibilità alternative che giacciono nel tempo che abbiamo di fronte. Il passato come repertorio o archivio di possibilità estende l’ombra del futuro sul nostro presente e dilata il ventaglio delle alternative. In questo senso, non sorprendentemente, l’incompletezza si rivela una virtù propria tanto dell’esplorazione di connessioni quanto della coltivazione di memorie, che devono marciare in tandem.
Così, possiamo anche dire, il riconoscimento dell’incompletezza, che si addice propriamente all’attività filosofica, è alla fine il più promettente contrassegno della sua persistente interrogazione a proposito di che senso hanno, hanno avuto o possono o debbono avere le cose per noi. Come Norberto Bobbio ci ha insegnato nella sua lezione, cui va la gratitudine degli eredi.
Nota: Trascrizione, rivista dall’Autore, della conferenza tenuta in data 6.12.2017 su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura e dell’Editrice Morcellian
Bobbio, La filosofia e il bisogno di senso, Brescia, Morcelliana 2017
Veca, L’idea di incompletezza. Quattro lezioni, Milano, Feltrinelli 2011
Veca, L’immaginazione filosofica e altri saggi, Milano, Feltrinelli 2012