La fortuna di Virgilio nella prima metà del Novecento

1.1. Questa ricerca procede per assaggi e si muove fra il 1884, l’anno del discorso carducciano Per la inaugurazione d’un monumento a Virgilio in Pietole, e il 1944, l’anno della celebre conferenza eliotiana What is a classic. La scelta delle date non è casuale. Non mi propongo infatti di tracciare il panorama degli indirizzi critici succedutisi nella prima metà del Novecento, ma di individuare alcune linee di fondo di un uso ideologico e morale, quando non schiettamente politico, del messaggio del poeta. In questa prospettiva anche la critica conserva significato, per il suo ovvio collegamento con la cultura da cui procede, ma non può ricevere tutto lo spazio, che merita, in un’analisi-campione. Darò dunque rilievo soprattutto a pochi episodi di più scoperta rilevanza ideologica.
Come fornisse loro le idee di base, il citato discorso carducciano contiene idee, che superano i successivi cambiamenti di regime e i rivolgimenti storici, che hanno caratterizzato la prima metà del secolo. Dunque può essere assunto come un autorevole inizio, anche per la fama del suo autore.

 

1.2. Lo svolgimento del discorso osserva questa successione: I, per la sua poesia Virgilio chiedeva gli auspici alla sua Mantova e alle “fatidiche memorie del vecchio popolo italiano”; II, dalla campagna infatti trasse i caratteri e la fede; III, per riproporre questa all’avvenire consi¬derò pregiudiziale “la ristorazione dell’agricoltura”, ricollegandosi al programma dei Gracchi, che vedeva la vita rurale come mezzo di rigenerazione e comportava anche la rivalutazione dell’Italia contro il centralismo di Roma; IV, ma i tempi portavano all’Impero, che Virgilio però trascese nell’universalità della sua compassione verso il dolore, nel suo rifiuto della guerra, nella comprensione delle anime: questo gli permise di essere luce nel Medioevo; V, anche oggi il suo messaggio è nel modello di vita dell’agricoltura.
Questo sommario non può dar conto del movimento vero del dettato carducciano, che è poco lineare. In esso si individuano tre nuclei fondamentali, che si intrecciano e si fondono tra loro: l’agricoltura, l’impero, la poesia.
Domina, anche per estensione, l’elogio dell’agricoltura, non però strumento di guadagno, ma opera sociale, che allontana gli uomini “dagli ozi turbolenti del fòro” e li porta “alla operosità buona dei campi”, ossia alle antiche e civiche virtù. Carducci riporta questa linea politico-morale ai “repubblicani di parte plebea”. Virgilio vi aderisce per nascita e temperamento, conservando il carattere impacciato di quand’era giovane agricoltore sul Mincio. L’applauso, che, secondo il biografo antico, gli fu dato in teatro, era appunto l’omaggio “a un superstite di quelle gentili razze agricole italiane”, che senato e militari avevano distrutto. Dunque Carducci sembra riconoscere che i tempi di Virgilio non sono più adatti per queste virtù: se ne dovrebbe dedurre la negatività dell’epoca di Augusto.
Invece il giudizio è ambiguo e reticente; quindi il tema dell’im¬pero, che costituisce il secondo nucleo del discorso carducciano, è debole e oscuro. Augusto è l’uomo provvidenziale”, cioè un salvatore, ma imposto dalla necessità, però non despota né dittatore. Elusiva è la formula “pace nella grandezza”, che presiederebbe all’Eneide. Fin dal tempo delle Georgiche (“il poema della pacificazione dell’Italia”), Virgilio aveva “fermo già il pensiero alla epopea della nazione e dell’impero d’Italia e di Roma”; dunque è un “epico patriota”, che “irrompe nell’epopea con toga di cittadino” (ma questo è detto a proposito dell’apostrofe a Eurialo e Niso, che è un momento troppo più patetico che eroico). L’oratore preferisce vedere nel poeta imperiale l’archeologo: nessun cenno alla espansione mondiale di Roma, mentre vien rilevata la compresenza di antichi popoli in Italia: “Arcadi, Etruschi, Latini, Sabelli, si mescolano nel miluogo più glorioso del mondo, su’ colli e ne’ campi ove poi crebbe Roma”. Questa interpretazione del poema non discorda da quella delle Georgiche: come quelle volevano rendere italiana Roma, per salvare la repubblica, così questa con-cilia l’Italia a Roma nel momento in cui andava impersonandosi nell’Impero.
Dell’Impero Carducci sembra avere coscienza storica, per debole che sia; pare la consideri solo la forma entro e oltre la quale si svolge una vicenda di bene e di male (ci furono Tiberio e Caligola, ma nacque anche Gesù). Ma sui modi di formazione di quell’impero Carducci non risolve le ambiguità di Virgilio: “egli, il poeta romano, ha fino l’orror della guerra, ‘scelerata insania belli’”. Invece, col suo senso superiore della vita, la coscienza del bello e del buono, un’umanità delicata e commossa, infine e soprattutto con la poesia, Virgilio trascese l’Impero, divenne universale.
Questo è il terzo nucleo di fondo del discorso carducciano e si riconduce al primo, non senza oscillazioni. Il senso del dolore fa partecipe Virgilio (come Garibaldi!) anche della vita degli animali. Ma Carducci non poteva insistere troppo sulla centralità della sofferenza, che l’avrebbe condotto a una concezione rinunciataria e pessimistica della vita, in contrasto con la sua idea di vita campestre come sanità ed energia: quindi parla di “abito di naturale malinconia”, di “tristezza serena”, di preparazione a una “letizia avvenire”. Significativo il quadro finale, non so se vero o immaginato, ma così carducciano: il poeta moderno traversa la pianura mantovana un giorno d’estate, vede madri sorridere agli usci e uomini intenti al lavoro. La rocca medioevale, immancabilmente coperta di “ellera corroditrice”, si vergogna “in mezzo a’ trionfi della pacifica industria e del lavoro umano”. In questa atmosfera egli ritrova lo spirito di Virgilio. È il solito messaggio carducciano, incitante al vitalismo naturale, qui abbassato d’un tono per farsi progetto concreto: “cacciate la fame dai solchi, la pellagra dai corpi, la torva ignoranza dagli animi. Pacificate le campagne e i lavoratori”. Per questo impegno nel presente, la chiusa del discorso formula una promessa: “E l’aquila romana rimetterà anche una volta le penne, e guiderà su i monti e su i mari il nostro diritto e le vittoriose armi d’Italia. Victorisque arma Quirini”.

1.3. La chiusa è a effetto, ma inaspettata. La “promessa” non è legata da alcuna necessità logica o di fatto al progetto di rigenerazione agricola, che la precede. Il passaggio è dunque gratuito, ma non è l’unico di questo testo, che a me par frutto della contaminazione di due linee parallele.
Da una parte sta l’anima di Virgilio, che prende forma dalla realtà, in cui nasce e vive il mantovano, e si realizza nell’attività e nel dolare; la sua fede laica ed umana sintetizza vitalità e sofferenza in una “tristezza serena”, che la poesia risolve e supera in armonia. Dall’altra sta l’ideologia, che dalla provincia trae una forza operosa, che dall’Italia antica si riconosce nell’agricoltura moderna e genera con Roma l’impero.
Le due linee interferiscono in più punti (la realtà e la provincia, il dolore attivo e il labor dell’agricoltura, il pessimismo e la fede), anzi dovrebbero disporsi in successione (dalla realtà di natura viene alla provincia una fede, che Virgilio interpreta e l’Italia trasmette a Roma e all’Impero; da questa nuova realtà la poesia acquista una dimensione universale che la trascende). Le due linee convergono nel concetto di universalità, cui entrambe tendono, ineffabile la prima (l’irrazionale dell’armonia), politica la seconda. Parrebbe però che la prima superi la seconda: la poesia “di nazionale divenne, come l’impero, universale; trascese i limiti dell’impero”. Sembra confermarlo un’immagine: la poesia di Virgilio è il vero tempio immaginato nel proemio del libro III delle Georgiche e “intorno a lei si agitano in bas¬so i rumori gloriosi dei popoli e dei condottieri de’ popoli”. Se questa impressione è vera, la promessa da ricavare da Virgilio non dovrebbe essere il nuovo volo dell’aquila imperiale con le sue armi e il suo diritto, ma un messaggio di universalità superiore, che lasci in basso i rumori gloriosi.
Proponendo come fine ultimo la nuova gloria di Roma, le due linee rimangono eterogenee e tendono a diventare indipendenti. La linea politica finisce per trionfare, per la sua maggiore evidenza e corposità; la poesia, forse per debolezza di presupposti estetici, non riesce a dimostrare la sua realtà. Mi pare che questa duplicità rifletta la divaricazione che, al tempo del discorso di Pietole, si era già prodotta tra il Carducci ufficiale e il privato. Il primo continuava, anzi accentuava, la sua (creduta) missione di vate, predicando bellezza, energia, vita. L’altro si ripiegava su se stesso, sentiva il vuoto dell’esistenza, aspettava la morte. Alla stazione in una mattina d’autunno, che è uno dei documenti più impietosi del Carducci “decadente”, porta la data del 25 giugno 1875.
Sarebbe interessante conoscere quale ruolo abbia avuto Virgilio in questo secondo, e per alcuni più vero, Carducci. Per sua natura que¬sto è un aspetto poco documentabile. Sulla base di poche tracce dell’epistolario e di una dichiarazione del Poeta, G.A. Papini ha indicato una “conversione” di Carducci da Orazio, il poeta della classicità, l’Alceo latino, a Virgilio, il poeta dell’anima. E di Virgilio, nei momenti di bisogno spirituale, i versi, che gli verranno in mente, non sono la solenne promessa del tempio, che Carducci assume come esor¬dio del suo discorso celebrativo (Primus ego in patriam…), ma il compianto per i troiani sbattuti dalla tempesta (Aen. I, 603 segg.): “Io La raccomando ai versi virgiliani che La accarezzino con la loro armonia, e Le facciano dimenticare la triste dissonanza delle cose”. Constatazione della realtà dolorosa e fede irrazionale in un suo superamento mercé la poesia sono già nel discorso, ma nel privato tenderanno a isolarsi come unici motivi autentici. Nel discorso sono, come nell’ufficialità, soverchiati dal rumore della socialità e della storicità: Roma, l’impero, le armi, i grandi ideali.

1.4. È sintomatico che fra questi due poli scompaia ogni evidente presenza della critica virgiliana. Colpisce in particolare, proprio per il luogo in cui il discorso fu pronunciato, ogni accenno alla vexata quaestio dei natali del poeta. Quando Carducci pronunciava il suo discorso, non v’era certezza, come non ve n’è ora, che Pietole sia l’antica Andes, che qualche biografo indica come luogo natale di Vir-gilio. Altre identificazioni erano già state proposte (e respinte). Con la sua autorità Carducci aggiunge prestigio alla identificazione più tradizionale, ma non prende posizione, e non credo solo per ragioni di cortesia. Anzi il suo atteggiamento è in proposito scientificamente prudente. Una sola volta, alla fine del § IV sembra abbracciare in modo esplicito l’opinione comune: “Tale è (egli conclude quel tratto) nella storia del pensiero umano il vostro conterraneo, o Mantovani di Pietole”. Ma se “conterraneo” è un latinismo, l’accezione è molto am¬pia: Plinio il Vecchio, comense, chiama suo conterraneo il veronese Catullo (Nat. Hist. praef. 1). Per il resto l’oratore insiste su Mantova e la sua campagna. Ora della mantovanità di Vergilio nessuno ha mai dubitato: le varie attribuzioni di altri luoghi natali al poeta gravitano pur sempre nell’area mantovana antica, anche se oggi appartenente a province diverse (per es. Calvisano). La polemica secolare su questo argomento equivoca spesso tra luogo di nascita e poderi di Virgilio. Se si combinano le notizie delle Vite virgiliane antiche, si può benissi¬mo ammettere che il padre, la madre, i nonni materni non fossero dello stesso luogo e che la famiglia abbia subito anche qualche trasfe¬rimento7. Perciò Virgilio può aver avuto negli occhi e nel cuore più di un paesaggio, benché sempre nell’ambito padano; ma pretendere di ricavare la topografia di un luogo determinato dalle descrizioni delle Bucoliche (per es. 9,7-9) significa dimenticare i diritti della poesia.
A prescindere dai quali, bisogna ricordare che Virgilio intende usare il nome di Mantova soprattutto per indicare il settentrione della penisola, da paco giunto alla cittadinanza romana e uscito dallo status di provincia, e immetterlo nella unità d’Italia con la stessa dignità del Sud; perciò fa di Mantova la fusione di più genti (Aen. X, 202-3) e le conferisce la nobiltà dell’origine etrusca (come ai Troiani! Aen. VII, 209) e agli etruschi riconosce la moralità degli antichi (Georg. II, 532-4). Questo concetto mi sembra sotteso anche alla insistenza carducciana sul valore spirituale della italicità e si risolve in una esaltazione della mantovanità, simbolo e non fatto, in armonia con l’intento di innalzare la poesia di Virgilio a valore universale. Non nego quindi che sotto le alate parole del discorso si possano individuare riferimenti a temi di fondo della critica virgiliana: ma, come nel caso accennato della universalità (divisa tra la missione di Roma e il valore per sempre della poesia), la divaricazione tra la funzione civile del poeta e il godimento spirituale del verso non lascia spazio alla mediazione della critica.

1.5. L’assenza non significa incompetenza dell’italianista. Benché in un esposto del 1868 Carducci dichiari di aver rifiutato la cattedra di letteratura latina all’Università di Napoli con una motivazione tipica – insegnare l’italiano… “è la sola cosa che io so (o credo di sapere)” – in realtà aveva un interesse molto vivo verso i latini e dava gran posto a Virgilio. Le prime cose in questo campo sono del 1851 (tra cui la traduzione dell’epitafio). Del 1855 è una Antologia latina e saggi di studii sopra la lingua e la letteratura latina. L’interesse a quel mondo vi appare motivato sia sul piano umano che su quello critico. Infatti gli studi di latino non sono utili tanto al bello scrivere quanto alla “cultura civile e al forte e nobile pensare” (p. 203)8. L’attenzione ai realia è giustificata dal fatto che la letteratura è sintesi di civiltà scientifica e morale. Infatti la lunga sezione dedicata alle Georgiche è molto preoccupata non solo della traduzione ma anche del commento erudito: vedi per esempio la IV delle Osservazioni varie, che s’intitola Dell’Arabia in generale e particolarmente dell’Arabia felice e dei Sabei. Si tratta di una nota informativa tutta consona a quella stagione di critica erudita, fosse o no di consapevole matrice positivista. Carducci si trovava già su queste posizioni per reazione antiromantica; ma molte sue proposizioni critiche sono di marca positivista9. Nel maggio del 1860, pochi mesi prima di iniziare il suo lungo magistero universitario a Bologna, scrive per il liceo di Pistoia una Introduzione a un breve corso di letteratura e lingua latina, che ha per sottotitolo Virgilio (incompiuta). Su Tibullo scrive ancora nel 1879; Per una nuova traduzione delle Georgiche nel 1885, su tre epodi di Orazio nel 1902.
Dunque l’assenza di riferimenti critici nel discorso non è dovuta a mancanza di informazione. Il discorso prescinde dalla critica, perché si colloca deliberatamente sul versante della funzione morale e civile della poesia. L’intenzione è anche troppo esplicita: “Io toglierò il poeta dalle scuole degli eruditi, dalle academie dei letterati, dalle aule dei potenti, e lo restituirò a te, o popolo di agricoltori e di lavoratori, o popolo vero d’Italia”. Questa scelta si fonda su una interpretazione ben virgiliana (l’equiparazione fra antichità italiche e agricoltura come realizzazione di valori morali), ma si attualizza più in là della già discutibile e cauta storicizzazione virgiliana dell’impero: va subito, come si è visto dal finale, alla contingenza economica, sociale e politica dell’Italia fine secolo, giungendo alla promessa della vittoria militare.

1.6. Dunque a Pietole il Carducci vate ufficiale mette in ombra il poeta dell’anima. Applicato a Virgilio, che è un soggetto inadatto, questo atteggiamento produce un discorso critico molto debole, ma utile per l’uso ideologico, che ne verrà fatto in seguito. La lunga influenza del suo autore sulla cultura e sulla scuola italiana gli conferisce autorità e prestigio; ma conta ancora di più l’usufruibilità dello schema così apprestato. Paradossalmente i suoi punti critici deboli diventano i punti di forza politici.
Ne indicherei almeno tre: 1, la sottrazione della esegesi alla critica professionale (che possiede un metodo) apre la via alle interpretazioni più arbitrarie e legittima l’uso ideologico; 2, l’interpretazione letterale dei miti poetici dell’agricoltura e dell’impero comporta l’accettazione altrettanto letterale delle istituzioni e degli strumenti relativi, dal rifiuto dell’ozio del foro (ossia della partecipazione politica) all’uomo provvidenziale alle armi vittoriose; 3, la separazione dei temi “agricoltura” e “impero” dalla poesia (che è l’anima di Virgilio) confonde l’universalità di questa (che è qualitativa = l’umanità) con l’universalità di quello (che è quantitativa = l’estensione / espansione). Insomma i temi, che in Virgilio sono poeticamente connessi a formare un siste¬ma di idee, vengono disaggregati o diversamente ricollegati, diven¬tando così di fatto diversi.

2.1. Cinquant’anni dopo il discorso di Pietole le direttive per un uso politico di Virgilio partono da quelle carducciane: la sanità della stirpe attraverso l’agricoltura e di qui le armi e la vittoria. Questo si vede bene nel 1930, nelle celebrazioni per il bimillenario della nascita, che in Italia furono in gran parte ufficializzate. Rientra nella linea politica del Regime riallacciarsi non solo alla grande guerra e all’irredentismo, ma anche al Risorgimento, al colonialismo, ai fermenti nazionalistici, insomma alla linea patriottica del Carducci. Ma, nonostante i proble¬mi sociali, quella linea era viva anche senza il Regime almeno in una parte della tradizione civica, attraversando le teoriche dell’azione, l’irrazionalismo, le prove belliche. In letteratura c’erano stati il Decaden¬tismo e l’Estetismo, Croce e i Vociani, ma la conciliazione col vecchio Carducci era pur espressa dallo scolaro avverso Pascoli.
Per il suo dichiarato rusticismo il poeta delle Myricae dovrebbe essere virgiliano per eccellenza: il Paratore ha di recente raccolto una ricca antologia di echi del mantovano nelle poesie italiane e latine del moderno. Ma in Pascoli affiora anche la tradizione di Virgilio come confuso annunciatore del cristianesimo e domina la nota intimistica; quando anche il poeta di S. Mauro si converte alla politica colonialista, pur sempre in omaggio a principi contraddittoriamente umanitari e vagamente socialisti, non pare che Virgilio gli sia presente a giustificare le imprese della terza Roma: il discorso La grande proletaria si è mossa non giustifica l’impresa di Libia sulla profezia dell’imperium, né la presenta come l’aquila che abbia rimesso le penne. Pascoli invece continua Carducci sulla linea, che privilegia Roma rispetto alla Grecia, ma con accentuazione destinata per il momento a non avere successo politico: i secoli della decadenza, il trapasso nel Cristianesimo, il lun-go passaggio del Medio Evo.

2.2. Nel Virgilio ufficiale del 1930 emerge invece con chiarezza il messaggio virgiliano della vita rustica, comune a Pascoli e Carducci. Il tema risponde bene a un progetto politico largamente propagandato e su cui si mobilitava l’opinione pubblica: la battaglia del grano, la bonifica integrale, il rimboschimento, l’autosufficienza alimentare. L’assunzione di questi problemi da parte del regime (almeno a parole, perché non bisogna dimenticare l’autarchia, il protezionismo industriale, l’IRI) ha finito per conferire loro un’etichetta di parte, che contribuisce a spiegare la diffidenza del dopo guerra verso questi stessi problemi e il genere di vita cui si riferiscono. Oggi la caduta del mito del progresso illimitato, i disastri ecologici, il deficit della bilancia commerciale ripropongono drammaticamente gli stessi problemi: sarebbe quindi schematico e semplicistico identificare per fascista ogni attenzione di allora all’agricoltura e quindi anche l’attenzione proposta dal virgilianismo. Diremo piuttosto che questo è uno dei non rari casi di coincidenza fra un problema reale e l’ideologia del potere, che permette anche a chi non condivide l’ideologia di collaborare in quell’ambito determinato (e all’oppositore pone il problema di coscienza del conflitto tra la contestazione globale e il bene oggettivo del paese).
Credo che questo spieghi lo spazio, che il tema assume in alcune celebrazioni virgiliane a danno dell’altro termine del binomio carducciano. Il virgilianista preferisce trattenersi su ciò su cui consente. Forse ha il torto di non vedere con chiarezza che la moralità della vita agricola, cui col poeta pensa, non è proprio la sanità della stirpe, che il potere vuole, matrice di potenziamento demografico e poi di potenza senz’altro, che non si ottiene senza le armi.

2.3. Non potendo esaminare tutte le pubblicazioni uscite in occasione del Bimillenario, scelgo per campione tre testi di diverso livello, critico, culturale, divulgativo. Il primo è rappresentato dalle Conferenze virgiliane, tenute all’Università Cattolica (d’ora in poi Conf. Virg.), l’altro dal primo volume degli Studi virgiliani dell’Istituto di Studi Romani (=St. Rom.), il terzo da un numero unico intitolato semplicemente Bimillenario Virgiliano (=numero unico). Se nel primo sono presenti solo studiosi, italiani e stranieri, nel secondo e nel terzo i critici si alternano ai politici (con qualche figura bivalente, studioso e politico). Nell’impossibilità di un’analisi dettagliata dei contributi contenuti nei tre volumi, mi limito ad alcune rapide notazioni, facilmente controllabili.
Intanto in tutte e tre le pubblicazioni compaiono saggi neutri, ossia che per loro natura si sottraggano alle strumentalizzazioni, essendo informativi o di curiosità. Altri, affrontando temi ideologici (il lavoro, la pace), devono correre questo rischio. Alcuni infine sano politici già nelle intenzioni, più o meno dichiarate, specie nel volume degli St. Rom. (Federzoni, Bodrero, Bottai, Fedeli) e nel numero unico (Buzzi, Doff, Mussolini, Sinopoli, Medugno). Prescindo in ogni caso dallo stile, che qualche volta potrebbe essere un indizio rivelatore e comunque è sempre datato: ma si tenga conto che si tratta sempre di conferenze.
Sorprendentemente il tema dell’agricoltura non conduce alle armi nel Messaggio che Arnaldo Mussolini, presidente del Comitato Nazionale Forestale, invia a Mantova Nell’inaugurazione del bosco virgiliano, da lui realizzato. È vero che Virgilio è “il sommo Vate dell’impero”, ma “gli ideali millenari della stirpe”, si fondono con “la nostra vigile coscienza realistica”; questa sembra una posizione rinunciataria, anche se reca “un’alta impronta fascista”. Il messaggio, conformemente al suo scopo limitato, preferisce celebrare “nel nome di Virgilio, l’Italia dalle Fareste risorgenti sui nostri declivi montani, l’Italia dalle forti braccia risospinte alle opere produttrici, quella sacra Italia rurale del lavoro che il Poeta maremmano seppe cantare, rinnovando Virgilio” (seguono citazioni di versi carducciani e pascoliani).
Ma, accanto e contro questa generica esaltazione del lavoro agreste, è da vedere la rigorosa storicizzazione del tema della schiettezza dei campi e della opposizione operosità contro ozio, condotta da L. Castiglioni sullo stesso numero unico. Naturalmente Mussolini è un politico e Castiglioni uno studioso. Se una distinzione generale è lecito fare, mi par questa: gli studiosi si mantengono riservati o al massimo sovrappongono al rigore del metodo qualche puntata attualizzante o panegiristica, ma il consapevole uso ideologico del poeta vien fatto solo dai politici. Bottai per esempio osserva che l’agricoltura potrebbe anche essere evasiva, ma “il lavoro è mezzo e prezzo di potenza e di gloria”. È difficile dire come siffatta concezione si concilii con la visione cristiana (moralità) e virgiliana (riscatto) presentata nello stesso testo. Che quella potenza non sia economica è chiarito dalla polemica “contro la piatta standardizzazione americana, contro i metodi socialistici, contro gli eccessi del taylorismo, contro la cosiddetta politica della fabbrica”18. Il binomio agricoltura-potenza (o armi) si fa evidente e massiccio nei testi di Sinopoli e Medugno, per diventare esplicito in Federzoni: Virgilio è poeta della Terra e dell’Impero (con la maiuscola) e come tale anche dell’occidente (=lavoro, diritto, armi) contro l’oriente dei traffici e dell’avventura; il fascismo è vita sana e potenza; dunque Virgilio è il poeta del fascismo. Valga il finale, chiarissimo: “se è vero, come è indubbiamente vero, e come mille volte fu detto, che il Fascismo significa sopra tutto volontà di vita sana e di legittima potenza, ossia ritorno ai campi e alle armi, l’Italia fascista si rivolge a Virgilio come al suo Poeta…” (St. Rom., pref. s.p.).
2.4. Coerentemente con l’accettazione del suo binomio, massiccia è la presenza di Carducci: lo abbiamo visto citato nel messaggio Mussolini, ma compare anche in Bottai e in Fedele; la conferenza Sinopoli si risolve in parafrasi ed esplicitazione del discorso di Pietole. In questi testi Carducci pare quasi l’unico critico virgiliano che meriti citare. Ora questi autori sono politici o politicizzati, ma non indotti; la preminenza di Carducci è dunque rivelatrice di una presenza culturale e di una consapevolezza ideologica. Si noti che il secondo termine del binomio (la potenza), che in Carducci era minoritario, viene ormai messo alla pari e presto prevarrà; si noti anche il trattamento, che subisce l’altra linea virgiliana, al cui universalità doveva trascendere anche l’impero: essa viene con disinvoltura ignorata oppure subordinata alla linea politica. Il raccordo affligge anche i critici ed è ben lontano dall’essere risolto, se non con formule apodittiche. Persino Funaioli si acconcia ad accostare guerra e pace (p. 136: la guerra come strumento della pax romana! Il punto più debole di una conferenza per altri aspetti molto significativa). V. Piccoli (numero unico, p. 19) da parte sua concilia imperialismo e spiritualità, facendo dell’Eneide il poema del romano e dell’umano (l’umano che si risolve nel romano è una formula diffusa). R. Doff-Sotta (ibid., 76) giunge a risolvere l’universalità della nazione (Virgilio “arriverà all’universalità solo in quanto una nazione sia destinata a realizzarla”!)
Ma emergono temi e spunti che mancavano in Virgilio. Si affaccia per esempio il nazionalismo, che nei limiti corretti di tradizione storica e culturale di un gruppo è un concetto sano (e sul quale, come per l’agricoltura, si può raccogliere un consenso non ideologico), ma che tende già ad assumere connotati inaccettabili: si veda la strana nozione di occidentalismo, che postula un orientalismo levantino19, di traffici e d’avventura, e copre un principio di antiamericanismo; così posta, sembra in contraddizione con la teorica dell’azione (uno dei pochi punti fermi dell’ideologia fascista), ma non lo è: l’antiorientalismo comprende i greci, troppo speculativi: secondo Bodrero (p. 14) per reggere i popoli non basta il loro pensiero. Di conseguenza si accentua l’anti-ellenismo dell’Eneide, che invece procede verso la conciliazione: Achemenide, Evandro, la soluzione finale (sul vitalismo e l’azione cfr. Piccoli p. 17). Sul primato dell’azione si vede, molto chiaro, il messaggio di A. Mussolini, che, impedito dal partecipare all’inaugurazione del bosco virgiliano dalla morte recentissima del figlio Sandro, non vuole però che si rimandi la cerimonia, perché in “tempo fascista ogni opere ha la sua data”. E, ricordando i vari tentativi precedenti di realizzare la stessa iniziativa, afferma: “noi siamo gli uomini delle azioni”. Quindi “oggi l’opera nostra esprime e avvera il sogno dei Poeti”. Che è un modo, forse inconsapevole, di celebrare la superiorità dell’azione sul pensiero e di respingere la poesia fuori dalla realtà.
Questo comporta non si dirà l’ovvio diritto per tutti gli uomini di leggere i poeti, ma la primogenitura dei politici a farsene interpreti (cfr. Bottai 19) e naturalmente con strumenti ben diversi dall’estetica e dalla filologia20. Nella sua breve Palinodia virgiliana Remigio Doff-Sotta lo dichiara a tutte lettere. Per colpa della pedanteria scolastica e critica egli aveva creduto che Virgilio fosse solo un arcade; ma “oggi si tratta…di estollere il Nostro a simbolo dello spirito italico”, perché di un autore bisogna parlare “in rapporto ai bisogni attuali della nazione”. Per far ciò se ne colga genialmente l’anima, ma non è la critica che può riuscirvi: “promuove questo una mente che non ci consente di sospendere il lavoro di cui egli ci dà esempio”. I risultati di tale nuova maniera sono: la scoperta della maschilità della vicenda di Enea, della nazione come realizzatrice dell’universalità, del dovere di sacrificare tutto alla patria (compresa “la personalità nostra stessa”), oltre, s’intende, “l’ascesi magnifica” del lavoro dei campi. Per questo Virgilio dev’essere “finalmente riconosciuto e proclamato simbolo perfetto dell’Italia novissima”.
Di fronte a questa lirica ditirambica riesce riposante leggere la prosa filologica, composta e rigorosa, magari talvolta un po’ aulica e vecchiotta, degli studiosi che si incontrano in queste stesse pagine e che di solito affrontano con onestà i problemi non facili delle contraddizioni ideologiche del loro autore.

3.1. La partecipazione, comandata e massiccia, degli studiosi alle pubbliche celebrazioni virgiliane pone anche in questo settore il problema del rapporto degli intellettuali col Regime. Benché in questi ultimi anni si siano infittiti gli studi sui rapporti fra cultura e società, sia re¬lativi all’intervallo fra le due guerre che al primo quindicennio del secolo, e qualche attenzione si dedichi, almeno da una parte, anche alla cultura classica come cultura militante, io non