La guerra civile europea: 1917‑1945

Autori: Nolte Ernst

Il termine «guerra civile» è usato in modo diverso da un giurista e da uno scrittore, ed uno storico non è obbligato ad accettare né il concetto giuridico né quello letterario.

Dal punto di vista giuridico, una guerra civile è la lotta tra formazioni armate di massa costituite da cittadini di uno stesso Stato. Guerre civili in questo senso ristretto e preciso sono state quella americana dal 1861 al 1865, quella russa dal 1917 al 1920, e quella spagnola dal 1936 al 1939.

Ci troviamo di fronte ad un significato molto più ampio del termine, quando Friedrich Nietzsche dichiara, nella prefazione al Crepuscolo degli idoli del 1888, che questo suo breve scritto è una grande dichiarazione di guerra. Con ciò egli intendeva annunciare una battaglia particolarmente aspra contro i nemici della sua filosofia o ideologia, e quindi una «dichiarazione di guerra civile» che non necessariamente doveva condurre ad uno scontro armato. Di recente un noto scrittore tedesco ha attaccato in un senso analogo «il male fondamentale della società nella Germania Federale», cioè il conservatorismo realmente esistente, con il qua ha dichiarato di trovarsi «in uno stato di guerra civile intellettuale». Si tratta evidentemente di metafore, ma metafore che sono illuminanti.

Anche il concetto giuridico tuttavia non si sottrae ad ogni dubbio. Esiste davvero un confine definito tra sommossa e «guerra civile»? In fondo, la guerra civile spagnola è stata decisa dall’intervento tedesco e italiano: a Guadalajara hanno combattuto italiani con italiani, e su Madrid non si sono forse abbattuti reciprocamente aerei tedeschi e sovietici? E di recente, nella guerra tra Iran e Iraq, non hanno forse combattuto mujaheddin del popolo dalla parte dell’Iraq e curdi iracheni dalla parte dell’Iran? Per alcuni aspetti questa guerra tra Stati non è forse stata al tempo stesso una «guerra civile mediorientale»?

Lo storico deve tenere nel debito conto la vari delle circostanze possibili e le differenze fra le epoche non può, a differenza del giurista, diventare prigionie di una definizione. Egli può perfino utilizzare le metafore degli scrittori se ha ben chiaro che esse servono per la rappresentazione, ma che non possono sostituirsi ai concetti.

Lascio da parte alcune riflessioni sulle guerre civili prima e dopo l’Illuminismo e passo immediatamente enunciare la tesi secondo la quale pare lecito definire guerre della rivoluzione francese come la prima guerra civile europea», nei limiti in cui era sincera la trasformazione in motto del grido di battaglia «guerra palazzi, pace alle capanne. I «giacobini» si trovava non solo in Francia, ma erano numerosi anche in Germania ed in Austria L’esecuzione di Luigi XVI e il “terrore” del 1793-94 trasformarono, in tutta Europa, molti simpatizzanti in nemici della rivoluzione, ma sia in Germania sia in Inghilterra si cantavano anche inni alla ghigliottina. Certo i giacobini andarono incontro ad una severa sconfitta persino in Francia; Napoleone era considerato come figlio della rivoluzione, ma anche come il suo dominatore e un partito avversario, il partito della controrivoluzione, non è mai riuscito a consolidarsi perché i governi non cercavano alleati nella società e condussero da soli la guerra contro la Francia del primo console e dell’imperatore.

Ma persino in Inghilterra il governo di Pitt visse momenti difficili quando una parte della flotta si ammutinò e gli «United Britons» sembrarono in grado di dare un aiuto decisivo a Napoleone per lo sbarco in Inghilterra. La «battaglia delle nazioni» di Lipsia è stata anche una battaglia della guerra civile tra tedeschi, ed il nuovo ordine uscito dal Congresso di Vienna era più contro la rivoluzione che metteva in forse la «pace europea» con la minaccia della guerra civile, che contro la Francia. Il «partito del movimento» e il «partito della conservazione» erano partiti di tutta l’Europa, anche se i rapporti di forza erano diversi nei singoli Stati. Il liberalismo, in quanto partito, credeva in una evoluzione pacifista, mentre per i radicali la rivoluzione sperata era una breve lotta decisiva, che avrebbe portato al trionfo le forze del bene contro quelle del male e del passato.

Praticamente nessuno, nemmeno durante le rivoluzioni europee del 1848-49, immaginava che fenomeni molto simili a guerre civili e vere guerre civili, a loro volta causa di altre guerre, sarebbero durati interi decenni. Ma Karl Marx – che nella sua dottrina aveva modificato ed inasprito quel grido di battaglia della rivoluzione francese al punto che non sembrava nemmeno più possibile una guerra civile negli Stati avanzati dell’Europa tra i pochi magnati del capitalismo e i proletari, diventati ormai la stragrande maggioranza – il primo gennaio 1849 elaborò un quadro dell’evoluzione mondiale in cui guerra civile e guerra tra Stati erano stretta mente collegate: «Ma il paese che ha trasformato intere nazioni in proletari, che con le sue braccia gigantesche tiene stretto il mondo intero…l’Inghilterra sembra essere lo scoglio sul quale si infrangono le onde della rivoluzione, il paese che affama la nuova società del ventre materno… E la vecchia Inghilterra verrà abbattuta solo da una guerra mondiale, l’unico evento che può offrire al movimento inglese organizzato dei lavoratori l’occasione per riuscire a ribellarsi vittoriosamente contro suoi giganteschi oppressori…Ogni guerra europea in cui si trova ad essere coinvolta l’Inghilterra, è una guerra mondiale…La guerra europea è la prima consegue e della vittoriosa rivoluzione operaia in Francia. Come ai tempi di Napoleone, l’Inghilterra sarà alla testa delle armate controrivoluzionarie, ma la stessa guerra la spingerà alla guida del movimento rivoluzionario, e così pagherà le sue colpe contro la rivoluzione del XVIII secolo. Insurrezione rivoluzionaria della classe lavoratrice francese, guerra mondiale: questa è la dichiarazione dell’anno 1849» (Mew 6,149 f)1.

Questa è la concezione di una guerra tra Stati allargata a tutta l’Europa, che in sostanza sarebbe stata una guerra civile europea. Probabilmente questo quadro era molto più realistico di quella immagine, ottimistica e semplicistica, di una rivoluzione breve ed irresistibile, che avrebbe dovuto svolgersi contemporaneamente in Inghilterra, Francia e Germania e che avrebbe posto fine una volta per sempre alla «preistoria» dell’umanità. Questo quadro partiva, pur senza esprimerla apertamente, dalla convinzione che il ruolo decisivo lo avrebbero avuto non «i palazzi» né «le capanne», ma «le case»; non i «capitalisti» né i «proletari», ma proprio quelle classi medie che dovevano essere al tramonto e che invece diventavano in proporzione più numerose di ogni altro ceto, e proprio nei Paesi più avanzati. Ma, com’è noto, tutto ciò non si è realizzato ed abbiamo invece avuto le pure guerre tra Stati con la guerra di Crimea e la guerra franco-tedesca. L’emergere di quell’«idra internazionale» che tanto impaurì il giovane Nietzsche, ma anche Bismarck e Thiers nei giorni della Comune di Parigi, rimase per il momento un episodio senza conseguenze.

Se si prescinde da alcuni russi, attorno al 1900 non vi erano più gruppi di emigranti in Inghilterra o in Belgio, in attesa del trionfale ritorno, come invece Proudhon e Quinet, Bucher e Bamberger all’epoca di Napoleone III. Ad eccezione della Russia, il sistema parlamentare ovvero costituzionale, il sistema della conduzione aperta, ma pacifica dei conflitti all’interno dello Stato, si era ormai affermato in tutta Europa.

Sembrava però aver acquistato più forza anche quell’immagine rivoluzionaria ed ottimistica dato il gigantesco aumento della classe operaia, in prevalenza influenzata dal marxismo. Ma un lettore attento del terzo volume, postumo, del Capitale di Marx era costretto a dubitare che l’altro concetto, quello della «lotta di classe tra popoli», che identificava guerra tra Stati e guerra civile, fosse soltanto la curiosa invenzione di alcuni nazionalisti italiani.

Ed anche il lettore delle ultime opere di Nietzsche si chiedeva se non fosse troppo ignorato il singolare concetto di «partito della vita», cioè quel partito che distrugge, senza pietà, la decadenza moderna in tutte le sue manifestazioni.

Lo scoppio della prima guerra mondiale, che fino al 1917 fu in tutto e per tutto una guerra europea, significò intanto la completa vittoria della lealtà verso lo Stato. Perciò fu un’esperienza in parte liberatoria ed in parte traumatica per i marxisti, i quali erano convinti che la comune appartenenza, orizzontale ed attuale, alla classe operaia omogenea ed internazionale, avrebbe prevalso sull’unità verticale e radicata nel passato degli Stati e delle Nazioni.

Ma per l’inaspettata durata e le inaudite devastazioni della guerra, iniziò a crescere una tendenza contraria, la quale in sostanza riteneva che proprio la sovranità assoluta degli Stati fosse responsabile della guerra, e che la sua potenza distruttrice fosse ormai diventata troppo grande per poter ancora permettere che la sua conduzione rimanesse un diritto intoccabile dei singoli Stati. Tale tendenza contraria poteva poi collegarsi ad una di tutt’altro tipo, in cui si esprimeva il massimo della volontà di vittoria delle potenze in guerra, secondo cui l’unico responsabile della guerra era il nemico, che doveva essere eliminato.

Per qualche tempo agì, in modo molto nascosto, anche una terza concezione, sostenuta con totale convinzione da un rivoluzionario russo ancora praticamente sconosciuto: la responsabilità della guerra deve farsi risalire al sistema economico del capitalismo, ed occorre trasformare la guerra imperialistica in guerra civile.

Questo non era altro che l’autoaffermazione della tradizionale dottrina marxista, con la sostituzione del concetto vago e innocuo di lotta di classe con quello più adatto di guerra civile. Com’è noto, il concetto leninista trionfò in Russia con la «rivoluzione d’ottobre» del 1917, che voleva essere una «insurrezione annata», ma che non fu altro se non un «putsch» contro l’imminente formarsi di un governo dei tre partiti socialisti, che voleva significare qualcosa di nuovo nella storia mondiale, ma che al momento realizzò solo le richieste avanzate della rivoluzione di febbraio, cioè il trattato di pace e la divisione delle terre dei nobili ai contadini. Ma questo trattato era una pace separata fra potenze centrali e quindi una grave violazione dell’accordo con l’Intesa, molto meno della richiesta avanzata dalla rivoluzione di febbraio; al contrario la rivoluzione agraria doveva condurre, sotto la guida dei marxisti, all’esproprio socialista dell’industria, cioè molto più in là di quanto avrebbero voluto i socialrivoluzionari e i menscevichi. Perciò già nei primi giorni dopo la loro presa del potere, giudicata da quasi tutti come «un crimine», i bolscevichi vittoriosi vennero definiti come «il partito della guerra civile», e persino dall’interno del loro stesso vertice si espresse l’obiezione secondo cui il dominio di un partito unico poteva essere conservato solo con il terrore. In effetti la guerra civile russa nacque dalla collera dell’Intesa contro il tradimento dei bolscevichi e dalla, peraltro tentennante, decisione degli altri partiti di non accettare lo scioglimento forzato dell’assemblea costituente del gennaio 1918.

Ma ancora più importante fu la convinzione dei bolscevichi di trovarsi in una lotta decisiva contro «la borghesia» in quanto tale e contro la piccola borghesia e di dover annientare queste classi in quanto classi, se volevano evitare di essere a loro volta annientati. Non molto tempo dopo, Lenin parlò apertamente dei “cani e porci della borghesia morente» e Sinovjev richiese l’eliminazione di dieci milioni di nemici di classe. Comunque, l’avvento al potere di un partito nemico della guerra, e per di più socialista, in uno dei grandi Stati combattenti sollevò da un lato un’ondata di simpatia e talora anche di entusiasmo in tutto il mondo, dall’altra collera, amarezza e paura. Gli uni – che non erano esclusivamente operai – ritenevano che si potesse intravedere la fine del grande spargimento di sangue provocato dalla guerra; agli altri, tra i quali vi erano anche operai, sembrò che si stesse andando verso un’epoca in cui sarebbe diventata realtà una distruzione ancora più tremenda, cioè l’annientamento di classe che avrebbe ignorato il problema della colpa individuale o dell’innocenza, ovvero lo stato di combattente o di non-combattente.

Questo annientamento fu simbolicamente anticipato dai bolscevichi, quando fucilarono non solo lo zar, ma anche la zarina, i figli, le figlie e persino i domestici.

Era evidente l’analogia con la rivoluzione francese, e al crollo delle potenze centrali nel novembre 1918 in tutta Europa si fronteggiavano amici e nemici della rivoluzione, in quantità maggiore e con avversione più aspra di quanto accadde nel 1790. Del resto la grande guerra aveva colpito i singoli in maniera molto più dura di quanto l’Ancien Regime avrebbe mai potuto fare, e le masse non erano più mute e disorganizzate come allora, ma riunite in partiti efficienti. Non vi era dubbio che i bolscevichi si ritenessero l’avanguardia di un movimento internazionale, e senza precedenti era l’entusiasmo dei manifestanti con i quali all’inizio del 1919, dopo la fondazione del loro partito mondiale, incitavano le masse di tutto il mondo alla «insurrezione armata» contro i «governi borghesi» responsabili della guerra. Se il primo maggio 1919 fosse diventato davvero il giorno della vittoria della «rivoluzione» in Europa, come profetizzato dalla Internazionale, allora la «rivoluzione» avrebbe trionfato come già avvenuto per la rivoluzione francese nel 1808, anche se trasformata in esercito napoleonico.

Ma la rivoluzione francese non era nata dalla sconfitta e dal disfacimento, come quella russa; la Francia si presentava come il Paese più avanzato d’Europa, mentre la Russia era, per opinione comune, uno dei più arretrati; la Francia giunse relativamente tardi alla fase del «terrore», mentre in Russia, quando venne l’occasione della vittoria generale, esso era già iniziato da tempo. Infine nel 1789 e nel 1793 non vi era alcuna analogia relativamente agli avversari, secondo cui ad iniziare la rivoluzione sarebbe stato un gruppo ristretto e anche esteriormente riconoscibile, cioè gli ebrei.

In questo senso la rivoluzione russa fu al tempo stesso più forte e più debole di quella francese, ma comunque anch’essa fu un evento di dimensioni mondiali che al di là delle apparenze esterne modificò tutti i rapporti esistenti. E’ ben vero che quell’invito alla insurrezione non ebbe successo, ed anzi nell’autunno 1919 sembrò quasi che i russi bianchi stessero per sconfiggere l’armata rossa davanti agli occhi dei partiti comunisti del resto d’Europa; ma il partito mondiale della Terza Internazionale non ha mai messo in dubbio di considerarsi il partito della guerra civile generale e di voler continuare ad incitare ovunque le masse alla «insurrezione armata».

Quanto forte e terrorizzante fosse questa «dichiarazione di guerra», lo dimostra il terrore che provocò nelle capitali occidentali l’avanzata sovietica su Varsavia nell’agosto del 1920, quando Trotzki parlava già della «grande battaglia sul Reno» dove gli operai tedeschi e russi avrebbero affrontato l’Intesa.

Una testimonianza di questa paura sono le affermazioni di Thomas Mann dopo la fine della Repubblica dei consigli a Monaco nel maggio 1919 e di Winston Churchill nel 1920. Queste affermazioni erano altrettanto antibolsceviche e poco meno antisemite di quelle, quasi contemporanee, di uno sconosciuto propagandista di un minuscolo partito di nome Adolf Hitler. Nel 1920 e 1921, nessun contemporaneo poteva ignorare che in Europa vi era ormai uno Stato che suscitava in grandi masse di uomini una solidarietà sovranazionale, che predicava la guerra civile e che tuttavia proponeva un futuro di pace; uno Stato che causava intense emozioni negli amici come negli avversari e che si esponeva all’accusa di avere, per la prima volta nella storia del mondo moderno, preteso ed attuato l’annientamento di grandi classi.

Non si poteva dubitare del fatto che si era creata una situazione di guerra civile e che si era costituito uno Stato ideologico, il quale si era appropriato in forma diversa e con maggiore convinzione, del grido di battaglia «guerra ai palazzi, pace alle capanne».

La differenza fondamentale rispetto alla situazione europea nell’ultimo decennio del XVIII secolo era data dal fatto che si formò un partito anti-guerra civile, che non si accontentava della semplice resistenza contro l’avversario, come facevano tutti i governi, ma postulava la distruzione del nemico.

Quando in Italia dopo lunghi mesi di rivolte assai simili ad una guerra civile, andò al potere un partito «controrivoluzionario» di tipo del tutto nuovo e che era guidato dal più deciso rivoluzionario dell’anteguerra, qualche osservatore poteva ben chiedersi se non fosse ormai superata la vecchia e buona distinzione tra «rivoluzione» e «controrivoluzione», se il periodo del dopoguerra non stesse per diventare una «epoca del fascismo», visto che la «rivoluzione mondiale proletaria» era fallita.

Certo, dopo il 1924, l’Europa e il mondo sembravano aver superato i «torbidi del dopoguerra», e si poteva anche cercare di interpretare la storia contemporanea come se si fosse trattato di un semplice episodio dei rapporti tra Stati e dei conflitti interni dibattuti nei rispettivi parlamenti.

Eppure chiari segni indicavano che questo quadro di una cosiddetta nuova normalità era ingannevole non meno della situazione di pace della Germania del Nord dopo la pace separata della Prussia con la Francia del 1795.

Il governo Baldwin non credeva alla normalità ed all’autolimitazione dell’Unione Sovietica quando ruppe le relazioni diplomatiche poco dopo lo sciopero generale del 1926, e Stalin a sua volta rispose con una violenta campagna contro i presunti progetti di guerra delle «potenze imperialistiche». L’osservatore francese Jean Herbette riferì in maniera molto analitica sull’avvio della «collettivizzazione» e definì come la «incarnazione del male» lo Stato che conduceva una tale guerra civile contro gran parte della propria popolazione.

Ma quasi unanime era la convinzione che una «crociata per la civiltà», di cui si sognava nel proprio ambiente, fosse senza speranza già in partenza, poiché bisognava aspettarsi dovunque, dietro il fronte, rivolte ed azioni da parte di comunisti e di amici dell’Unione Sovietica. In Germania il partito comunista, che dopo quello sovietico era di gran lunga il più grande partito della Terza Internazionale, divenne un serio antagonista dei socialdemocratici già nelle elezioni del 1928 ed era l’unico che aumentava senza interruzioni, tanto che nel novembre 1932 era forte quasi quanto il partito socialdemocratico.

A Berlino, come anche in parte delle regioni industrializzate, aveva molti più seguaci dell’altro partito operaio, che esso definiva «socialfascista» e che combatteva con la stessa forza con cui combatteva il «nazionalsocialismo» di Hitler.

La causa fondamentale di questo aumento era la crisi economica mondiale che, com’è noto, era anche all’origine dell’incremento ancora più forte del partito nazionalsocialista. Ma spesso non si osserva che il programma dei comunisti era notevolmente più radicale di quello dei nazionalsocialisti, poiché prevedeva non solo la fine delle riparazioni, ma anche l’annullamento del pagamento degli interessi sui prestiti: in questo modo la Germania sarebbe stata allontanata dal contesto dell’economia mondiale ed avrebbe dovuto, già solo per questo, stringere un patto indissolubile con l’Unione Sovietica. Altrettanto spesso una storiografia ispirata alla «pedagogia popolare» trascura il fatto che, nella guerra civile, limitata ma avvertibile, combattuta sulle strade della Germania, i comunisti non erano certo meno attivi e violenti dei nazionalsocialisti.

I comunisti cantavano: «Così la giovane guardia è pronta per la lotta di classe. Saremo liberati solo quando i borghesi sanguineranno… Saltiamo sulle barricate, verso la guerra civile, issiamo la bandiera sovietica per la sanguinosa vittoria».

Ma i nazionalsocialisti si appropriarono della melodia e di parte del testo, sostituendo la parola «borghese» con la parola «ebreo».

L’avvento al potere del partito nazionalsocialista non era certo inevitabile, ma l’incertezza ed il fallimento non furono soltanto dalla parte dei governanti e dei partiti «nazionali». Dopo che la crisi economica mondiale aveva creato una situazione analoga a quella del dopoguerra, il significato del trenta gennaio 1933 si deve definire in sostanza così: era di nuovo arrivato al potere in Europa il partito rivoluzionario-antirivoluzionario dell’anti-guerra civile; ora vi era un altro grande Stato ideologico, oltre all’Unione Sovietica e, se si fosse giunti ad una guerra tra loro, questa sarebbe stata al tempo stesso una guerra civile, perché anche verso il nazionalsocialismo si dirigevano larghe simpatie internazionali, nonostante si trattasse di un partito decisamente nazionalistico.

Ma persino qui vi era un aspetto di normalità che consente di descrivere gli anni successivi al 1933 sotto forma di «storia di Stati»; non fu solo il Vaticano a conferire prestigio internazionale a Hitler attraverso la firma del Concordato, ma sulla stessa linea si ponevano gli accordi per un patto a quattro con Inghilterra, Francia e Italia, come anche il rinnovo del patto di neutralità del 1926 con l’Unione Sovietica. Però nell’ambito della politica interna si svolgeva una guerra civile di tale intensità e faziosità che già nell’autunno del 1933 tutti i nemici del nazionalsocialismo sembravano come spazzati via, rinchiusi in campi di concentramento o costretti all’emigrazione, mentre grandi masse di loro seguaci erano passate con armi e bagagli dalla parte del vittorioso «cancelliere del Volk».

Anche la legislazione biologica ed antisemita, che pretendeva di migliorare la «purezza del Volk» attraverso la sterilizzazione obbligatoria del «Volk», mediante l’espulsione degli ebrei dall’apparato statale, dimostrò già nelle prime settimane che era nato uno Stato genuinamente ideologico di un tipo sino ad allora sconosciuto, che non poteva in alcun modo essere messo alla pari dell’Italia fascista.

Il primo provvedimento si basava sul pensiero biologizzante, che si era diffuso dai tempi di Darwin e Galton; l’altro sembrava derivare dal tradizionale antisemitismo. Il primo si attuò quasi senza reazioni, il secondo suscitò vasto clamore a livello internazionale.

Di rado si percepì che la persecuzione degli ebrei costituiva una precisa corrispondenza con la privazione dei diritti della borghesia russa e che intendeva raggiungere in modo analogo una «purificazione».

In Germania però questa persecuzione non era rivolta contro una forza pur sempre potente e che fino a allora aveva esercitato il potere assieme alla nobiltà, ma contro una minoranza piccola e indifesa, per cui essa stata a ragione considerata come particolarmente ripugnante e per di più stupida, dato che una grande parte degli ebrei nutriva sentimenti del tutto «nazionalistici» antibolscevichi. Il fatto che studiosi di fama mondiali senza le cui scoperte ed imprese il Reich non avrebbe potuto sostenere la prima guerra mondiale, come ad esempio Fritz Haber, siano stati allontanati dai loro in pieghi, era una evidente assurdità dietro la quale stava fatto che Hitler aveva formulato, sin dal 1919 una «dichiarazione collettiva di colpa», cioè aveva dichiarato che gli ebrei erano, in quanto tali, all’origine del bolscevismo.

Eppure già allora era possibile sostenere, con buone motivazioni, che il vero impulso ideologico di Hitler non era l’antisemitismo nel significato «sionista» de termine (cioè l’auspicio di separare i due popoli), e tantomeno nel significato cristiano di avversione per i «responsabili dell’omicidio dì Cristo», ma l’antimarxismo nella fattispecie concreta dell’antibolscevismo.

Nessun uomo di Stato della Repubblica di Weimar che tenesse alla propria esistenza avrebbe mai potuto proporre quel patto di non aggressione con la Polonia che Hitler concluse nel gennaio 1934; Hitler invece lo sostenne fino alla fine a causa del sentimento di affinità ideologica con il Maresciallo Pilsudski e probabilmente pensando ad un futuro scontro con l’Unione Sovietica; il ministro degli Esteri ed anche quello della Guerra erano contrari ad un intervento nella guerra civile spagnola; Hitler ordinò l’intervento e lo sostenne sino alla vittoria di Franco. L’accordo con Mussolini non derivava in primo luogo da considerazioni pragmatiche.

L’accordo di Monaco corrispondeva esattamente al procedimento attuato per la conquista del potere in Germania: collaborando con le forze esistenti e conservatrici, preparò una grave sconfitta per lo Stato rivoluzionario. Certo, l’Unione Sovietica, che prima era stata così revisionista e in polemica con il sistema di Versailles, già da anni cercava un accordo con le potenze occidentali, e Hitler era evidentemente deciso a sottomettere la Cecoslovacchia anche senza l’assenso dell’Inghilterra e della Francia. Era già chiaramente riconoscibile quella complessità della realtà storica che non consente di identificare la «controrivoluzione» con determinati Stati o addirittura partiti.

In Unione Sovietica Stalin aveva nel frattempo sterminato i compagni di Lenin in maniera assai più radicale di quanto avesse fatto Hitler con i compagni di Thálmann. L’esempio più evidente e sconcertante di queste inversioni e di questi paradossi storici fu per i contemporanei il patto di non aggressione tra Stalin e Hitler, che in realtà fu un patto di guerra di annientamento e di divisione contro la Polonia anticomunista dei successori di Pilsudski ed anche il segnale d’avvio della seconda guerra mondiale. Per questo, per due anni sembrò essersi determinata una situazione di guerra civile di un tipo del tutto nuovo: le democrazie parlamentari, che venivano definite dal loro più antico nemico come «plutocrazie capitalistiche», si trovarono da sole di fronte alle «dittature totalitarie», di cui la più giovane aveva sino a poco tempo prima preteso di essere all’avanguardia nella lotta contro la più antica. Se si fossero realizzati i progetti degli alleati occidentali di intervenire in aiuto della Finlandia aggredita senza dichiarazione di guerra, ovvero di distruggere la regione petrolifera di Baku mediante un attacco aereo, si può davvero presumere che Hitler e Stalin sarebbero rimasti alleati a tempo indeterminato.

Così a prima vista non risulta affatto chiara l’interpretazione della guerra tedesco-russa come guerra civile che invece significò la ripresa della guerra civile russa tra rossi e bianchi, anche se con la differenza assai notevole che questa volta le potenze occidentali combattevano dalla parte dei «rossi».

E difficile darne in breve la motivazione ed in particolare non si può dimostrare che non si trattò appunto di una guerra civile «pura» ma di una realtà complessa in cui ebbero un ruolo importante le casualità, in cui gli opposti erano uniti ed in cui i nemici diventarono simili. Nel mio ultimo libro2 ho trattato più ampiamente questo tema.

Cito però alcune circostanze, che chiariscono la prospettiva al cui interno questa guerra tra Stati ci appare come guerra civile: con «l’ordine dei commissari» Hitler si ricollegò, come se nulla fosse, ad una delle regole più terribili della guerra civile russa; in vasti territori dell’Unione Sovietica le truppe tedesche furono accolte con entusiasmo, e centinaia di migliaia di soldati sovietici passarono dalla parte dei tedeschi; anche Stalin nei suoi discorsi evocò espressamente le emozioni della guerra civile, ed anche un certo numero di tedeschi, che condivideva l’ideologia del nemico ovvero la trovava più adatta ai tempi, lavorò per il nemico, in Germania e poi nei campi di prigionia. Attraverso una serie di dichiarazioni casuali, Hitler chiarì quanto avesse ancora presenti gli eventi della guerra civile russa e quanto si lasciasse influenzare da questi ricordi anche nell’azione concreta.

Ma si raccolsero anche antifascisti francesi contro membri della legione Carlo Magno, Arabi contro Arabi, Indiani contro Indiani; persino dall’America e dall’Inghilterra giunsero a Hitler e Mussolini collaboratori influenti come Ezra Pound e William Joyce.

Ma proprio da questo punto di vista diventa altrettanto chiaro con quanta forza continuassero ad esistere tradizioni più antiche che, agendo assieme alla concezione biologistica, si contrapponevano all’aspetto della guerra come guerra civile, come ad esempio la tradizione della «lotta razziale» ad Est, che voleva respingere e schiavizzare gli anticomunisti polacchi in quanto «subumani di razza slava».

In modi diversi agirono tradizioni più antiche nella «soluzione finale del problema ebraico», che dal punto di vista della guerra civile appare come la ripetizione, portata a livelli giganteschi, dei pogrom «bianchi» in Ucraina, ma in cui troviamo tutta quella KuIturkritik che si lamentava della decadenza moderna, della disgregazione e decomposizione della vita, di cui attribuiva in parte la colpa agli ebrei.

E così la «soluzione finale» era la dimostrazione più evidente che i nazionalsocialisti non volevano solo rispondere alle azioni di annientamento politico e sociale della rivoluzione bolscevica con azioni opposte, ma che essi attuavano una trasposizione in azioni di annientamento biologico ed anzi metabiologico, che postulava senso persino ideologico quella collaborazione tra comunismo e democrazia occidentale che portò alla sconfitta del Terzo Reich. Peraltro quella sconfitta, come ti sanno, è stata al tempo stesso il preludio della «guerra fredda» tra «Est» e «Ovest», e cioè di una potenziale guerra civile mondiale, che soltanto ai nostri giorni sembra avviarsi alla fine.

Il piano del mio libro, il cui contenuto è stato riassunto in estrema sintesi, ha sollevato una serie di critiche tendenzialmente scientifiche, ma anche forti rimproveri che cercano di rilevare una mancanza di sensibilità morale o persino intenzioni malevole.

Giunto alla conclusione, ne riporto alcuni e indico brevemente le risposte che mi sembrano necessarie.

  1. Si obietta che la rappresentazione del periodo tra le due guerre e della seconda guerra mondiale come «guerra civile europea» non tiene conto a sufficienza della varietà degli aspetti e della continuità dei rapporti tra gli Stati: essa impedirebbe di osservare che la seconda guerra mondiale è stata una ripetizione del prima, nata dagli stessi motivi, cioè la volontà di espandersi del Reich prussiano-tedesco.

La critica espressa dall’interpretazione basata si la teoria del totalitarismo è poi quasi altrettanto aspra quella espressa dall’interpretazione germanocentrica: nel mio libro non verrebbe sottolineata la fondamentale concordanza tra regimi totalitari di Stalin e di Hitler, nella loro abissale contrapposizione agli Stati costituzionali di tipo occidentale, ma verrebbe accettata l’autointerpretazione dei due regimi, secondo cui tra di essi vi sarebbe stata una inimicizia mortale, così da svalutare in modo indebito il ruolo dell’Occidente, poiché il suo aiuto all’Unione Sovietica attaccata apparirebbe il rilevante ed illogico, e magari un errore. Ma già la contrapposizione netta tra queste due interpretazioni, a lungo prevalenti, indica che vi è spazio per una ulteriore interpretazione, che ovviamente non si nasconde di attuare anch’essa una selezione e che quindi non può offrire quel monumentale quadro complessivo degli eventi che sarebbe lo scopo di una «Storia dell’Europa dal 1914 al 1945» oppure di una «Storia della seconda guerra mondiale».

Ma questa interpretazione rivendica di avere messo in evidenza proprio ciò che consente di comprendere, nei limiti del possibile, quegli aspetti che in quelle interpretazioni apparivano come fattori incomprensibili o semplicemente criticabili, come ad esempio «l’ordine dei commissari» o anche la «soluzione finale del problema ebraico». Per quanto riguarda il valore dell’«Occidente» o del «sistema liberale», nessuno potrà constatare una sottovalutazione, purché basi il suo giudizio sul complesso di tutti i quattro libri che ho dedicato alla «Storia delle ideologie moderne».

In essi infatti il sistema liberale viene visto come il «terreno d’origine» delle ideologie di estrema destra, che per così dire si rendono autonome trasformandosi in Stati ideologici nel 1917 e nel 1933 e di cui l’una è «più originaria» dell’altra, perché è una fede antichissima e genuina, alla quale si contrappone poi una intensa contro-fede.

Nel complesso, è nata, per usare un termine di Jacob Burckhardt, una storia dell’epoca delle rivoluzioni moderne la quale – certo più analisi che rappresentazione – fornisce alla teoria del totalitarismo quella dimensione storico-genetica che sinora mancava e che nonostante ciò non evita affatto la questione del ruolo particolare della Germania, anche se non si riallaccia alla ormai obsoleta polemica contro gli «Junker».

La critica scientifica può rilevare i limiti del quadro interpretativo e deve rappresentare gli aspetti deboli della sua attuazione, ma non dovrebbe estrapolare singole frasi senza considerare il contesto, né costruire ipotesi relative a motivi extrascientifici.

Del resto non ho usato per primo il termine «guerra civile europea» in relazione alla seconda guerra mondiale: lo fece Dorothy Thompson già nell’ottobre 1939 non sono nemmeno il primo che, molto distante da ambedue le ideologie, considerava tuttavia la lotta tra loro come l’evento centrale nella storia del XX secolo.

  1. La critica non scientifica ideologica, si concentra invece non tanto sul fatto che la contrapposizione tra nazionalsocialismo e bolscevismo viene presa sul serio e non liquidata come apparenza o pura lotta di poteri ma si scandalizza perché ragione e torto, dal punto di vista storico, vengono attribuiti sia al poterle «rivoluzionario» sia a quello «controrivoluzionario».

Dal punto di osservazione del 1989 a me sembra effetti evidente che il violento comunismo millenaristico, che si definiva bolscevismo, aveva storicamente torto quando voleva «eliminare» gli Stati e riteneva poter sostituire con una economia pianificata mondiale il «capitalismo», cioè l’economia mondiale di mercato che si trovava nella sua prima fase di sviluppo.

Sono convinto che il nazionalsocialismo aveva storicamente ragione quando, e nei limiti in cui, si opponeva a questo tentativo.

Ma il nazionalismo si è posto contro la storia stessa, quando ad esempio voleva istituire la guerra come strumento per garantire all’infinito, la purezza razziale e voleva fissare per i secoli gerarchie visibili tra i singoli individui e tra gli Stati; il bolscevismo invece si identificava con la direzione opposta, che tendeva ad un governo mondiale. Di conseguenza è giusto e doveroso fare una distinzione tra lo «sterminio sociale» del bolscevismo e lo «sterminio biologico» o metabiologico del nazionalsocialismo. Mi sembra invece del tutto illegittimo, e conseguenza del diffuso ma non troppo ingenuo entusiasmo rivoluzionario, trasformare questa distinzione storica in una morale e abbandonare l’unico principio che può avere valore assoluto, cioè quello per cui l’omicidio di uomini innocenti ed indifesi è vietato in ogni circostanza e per cui la «attribuzione collettiva di colpa», che ne è alla base, va respinta, comunque ci appaiano le circostanze.

  1. Proprio in questo contesto viene espressa una accusa morale, cioè quella di avere trascurato l’antisemitismo come causa della «soluzione finale» e di avere, mediante il collegamento tra Gulag e Auschwitz, attuato una relativizzazione che metterebbe in dubbio la singolarità dei crimini nazionalsocialisti.

So bene che ad esempio l’antisemita Eugen Dühring aveva richiesto l’eliminazione degli ebrei in quanto popolo «dannoso per l’umanità» assai prima del nuovo secolo.

So anche però che richieste come questa erano fenomeni del tutto marginali e che l’antisemitismo di massa non aveva scopi diversi dalla espulsione degli ebrei, sia in Francia che in Germania, in Polonia e in Romania.

Questo antisemitismo è diventato omicida quando lo si è potuto collegare ad un fenomeno sociale molto più forte dell’esistenza di una minoranza ebraica.

Questo fenomeno più forte era quel marxismo e aveva dimostrato di essere in grado di ottenere il monopolio del potere e di realizzare i suoi postulati di annientamento sociale, e il collegamento decisivo e fatale è stato quello del concetto di «bolscevismo giudaico».

Tale paradigma di “attribuzione collettiva di colpa” non era una semplice fantasmagoria dell’individuo Hitler, come ha di recente dimostrato un collaboratore della rivista ebraica Commentary, che non teme di citare la frase di un rabbino, che dice: «I Trotzki fanno le rivoluzioni, e i Bronstein pagano il conto». Con ciò crea evidentemente un «nesso causale», ma è ancora più evidente che egli è lontano dal condividere l’opinione secondo cui questo nesso casuale significherebbe una necessità determinante, e la presentazione di quel “conto” può ben costituire una precisa ingiustizia storica.

Ma basare una distinzione morale sulle differenze nella sistematicità, nei metodi usati ed alla fine addirittura sui numeri delle vittime, è a mio parere illegittimo e assai dubbio da un punto di vista morale.

  1. Il rimprovero politico ed attuale, che spesso è più accennato che formulato espressamente, consiste nell’affermare che la distensione tra Est e Ovest verrebbe minacciata, se si usasse «polemica anticomunista», invece di scegliere di nuovo come punto di partenza la base del «patto di guerra antifascista».

Ma quegli intellettuali comunisti e filocomunisti dell’Occidente, che auspicavano questo patto già prima che si attuasse, non parlarono mai nemmeno dei «crimini di Stalin», e tantomeno dei crimini ideologici delle purghe staliniane, anzi essi in genere giustificarono persino i processi di Mosca.

Forse essi avevano ragione nel credere che Stalin era l’aiuto decisivo contro Hitler, ma scelsero la menzogna. Gli intellettuali non-comunisti ed ex-comunisti, che definivano Stalin come responsabile di milioni di omicidi e l’Unione Sovietica come il più totalitario degli Stati potevano essere polemisti anticomunisti, ma in sostanza dicevano la verità.

Oggi gli eredi di quegli intellettuali filocomunisti sembrano influenzare notevolmente l’atmosfera intellettuale in Occidente. A Mosca invece può essere pubblicata una rivista in cui un articolo reca questo titolo: «Senza Stalin, sarebbe stato possibile Hitler?».

La coesistenza nella distensione è auspicabile ed è oggi possibile, ma dovrebbe realizzarsi non sulla base di un moralismo selettivo o di considerazioni meramente pragmatiche, ma nello sforzo comune per la verità. Solo allora saranno superate, anche se certo non dimenticate, non solo le guerre, ma anche le guerre civili del passato.

NdR: Trascrizione della conferenza non rivista dall’Autore.

1 Marx Engels Werke, Berlin 1956.

2 Ernst Nolte, Nazionalsocialismo e Bolscevismo: la guerra civile europea 1919-1945, 1988.