Di fronte a un libro che tratta di questioni contingenti potrebbe sorgere l’interrogativo: “Perché un teologo si interessa di problemi ‘politici’? La domanda suppone una concezione di teologia: forma di sapere che si interessa di verità eterne e quindi non dovrebbe esporsi a valutare situazioni contingenti, per quanto drammatiche queste possano essere.
La teologia non si sente a suo agio in un abito di questo genere: è un abito troppo stretto.
Ripercorrendo, fugacemente, la strada del pensiero teologico ci si accorge che mai la teologia si è interessata unicamente delle verità cosiddette “ultime”. Basterebbe riandare al maestro della teologia medioevale e dei secoli successivi Tommaso d’Aquino, il quale dice che “la sacra doctrina” tratta tutto dal punto di vista di Dio, che è quanto dire: non c’è nulla che non possa diventare oggetto di riflessione per la “sacra doctrina”. E noi abbiamo lasciato dietro alle spalle un secolo, nel quale alcuni teologi, particolarmente illuminati, si sono accorti che avrebbero dovuto lasciare l’astrattezza del loro pensare, per cogliere le provocazioni che dalla storia vengono ad ogni credente che voglia riflettere.
Basterebbe citare il nome di Marie Dominique Chenu, Johann Baptist Metz, Jurgen Moltmann, i teologi della liberazione, e i filoni del pensare teologico del ventesimo secolo che hanno mostrato che la teologia non può restare esterna agli avvenimenti che affliggono l’umanità.
In effetti, la teologia è un sapere critico della fede; quando si usa questa formula si intende sia la fede come contenuto su cui riflettere sia il punto di vista da cui riflettere sulla storia.
É questo che troviamo in questo libro, che raccoglie alcuni puntuali interventi su un quotidiano,- anche questo è sintomatico,- “Il mattino” di Napoli. Si tratta di un giudizio sugli avvenimenti e anche sulle persone che hanno provocato questi avvenimenti. Quando si sente parlare di un giudizio sugli avvenimenti e sulle persone che hanno provocato questi avvenimenti, probabilmente appare in qualcuno il fantasma dello schieramento politico: “Ma come? Un teologo osa schierarsi politicamente?” Tale fantasma sorge quando si suppone che la fede, e con essa la teologia, debba essere neutrale.
Il problema è, in fondo, quello della verità e, agli inizi del suo libro, Bruno Forte evoca con chiarezza il problema della verità: c’è un giudizio vero sugli eventi storici e sulle responsabilità storiche o ogni giudizio si equivale a seconda dell’appartenenza o delle alleanze? Dove attingere questo giudizio vero?
La questione è ovviamente delicata, anche perché, molte volte le scelte sono dettate da appartenenze più che da ragioni, in un tempo, oserei dire il nostro, di eclissi della ragione, in un tempo in cui prevale la valutazione viscerale, quella partitica nel senso deteriore del termine.
Se un teologo si espone su questioni storiche è perché è convinto che nulla è estraneo al sapere critico della fede. Ed è tenendo conto di questo che si può comprendere ed, eventualmente, giudicare il libro, oggetto di presentazione.
Se non si parte da questo presupposto, si dovrà aderire al libro o rifiutarlo emotivamente; ma sappiamo che, per quanto le emozioni siano importanti, non riescono ad offrire ragioni plausibili.
Mi pare di poter raccogliere il contenuto fondamentale del libro attorno a tre questioni:
1- Il silenzio di Dio
2- La figura di giustizia
3- La via della pace
1 – Il silenzio di Dio. Richiama la questione generale del male, che si impone alla coscienza credente e anche non credente quando il male manifesta una recrudescenza particolare.
A questo ci hanno abituato nella seconda metà del XX secolo in particolare i pensatori ebrei: di fronte alla “shoah”, all’olocausto, ci si è domandati, prima da parte di pensatori ebrei, particolarmente segnati dalla prova, poi anche da teologi cristiani, perché Dio abbia permesso il genocidio nell’Europa che pretendeva affermare Dio stesso come fonte, come sorgente della sua tradizione.
É nota a tutti la pagina tragica del libro di Elie Wiesel, “La notte”, la rileggo nella sua ultima parte. Si parla di tre condannati a morte e tra loro c’è il piccolo Pibe, l’angelo dagli occhi tristi.
“Le SS. sembravano più preoccupate, più inquiete del solito: impiccare un ragazzo davanti a migliaia di spettatori non era un affare da poco.
Il capo del campo lesse il verdetto. Tutti gli occhi erano fissati sul bambino, che era livido, quasi calmo e si mordeva le labbra; l’ombra della forca lo copriva.
Il lager-Kapo si rifiutò, questa volta, di servire da boia; tre SS lo sostituirono. I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole; i tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi. “Viva la libertà!” gridarono i due adulti; il più piccolo, lui, taceva.
“Dov’è il buon Dio? Dov’è?” domandò qualcuno dietro di me.
A un cenno del capo del campo, le tre seggiole vengono tolte.
Silenzio assoluto! All’orizzonte il sole tramontava!
Scopritevi, urlò il capo del campo! La sua voce era rauca; quanto a noi, piangevamo! Copritevi! Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più: la lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile; anche se lievemente, il bambino viveva ancora. Più di mezzora restò così a lottare tra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi e noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti, la lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti.
Dietro di me udii il solito uomo domandare: “Dov’è, dunque, Dio?”
Io sentivo in me una voce che gli rispondeva: “Dov’è?” “Eccolo! E’ appeso lì, a quella forca”.
Quella sera la zuppa aveva un sapore di cadavere.
Wiesel è un testimone di ciò che racconta; la domanda “Dov’è Dio?”, ovviamente, non ottiene risposta, e quell’espressione “E’ lì appeso alla forca”, che qualche teologo ha interpretato come “E’ lì perché è solidale”, sembra invece voglia dire: “E’ morto, anche lui”!
Che cosa dovrebbe dire Dio di fronte alle orrendezze alle quali abbiamo assistito negli ultimi anni, se non che l’ingiustizia, l’oppressione, sono contro l’uomo e quindi contro la sua stessa volontà?
“Ma perché Dio non interviene?” E’ l’interrogativo che è risuonato in tutti noi. Solo per dare spazio alla nostra responsabilità? Sembrerebbe essere questa una risposta plausibile, la risposta che un testimone del XX secolo, Dietrich Bonhoeffer, sembra indicare nella sua lettera dal carcere, del 16-7-1944.
Dio si nasconde, si fa debole, non è il Dio tappabuchi, come si è usato dire molte volte; lascia che l’uomo si assuma le proprie responsabilità.
Bruno Forte, con riferimento non a Bonhoeffer, ma a Neher, dove parla del silenzio di Dio, sembra andare in questa direzione, Questo Dio, “dall’arcata spezzata”, restituisce all’uomo la dignità del rischio, perché lo responsabilizza davanti al futuro senza garantirgli niente, rendendolo attento al valore dell’opera presente, a prescindere da ogni risultato e ricompensa promessi. Totalmente libero nella dignità della sua scelta.
Ma pretendere, oso dire, di rispondere all’interrogativo: “Perchè Dio non interviene?”, mi pare sia abbattere una barriera che non è lecito abbattere. Possiamo procedere solo per supposizioni; si può veramente dire, oggi, che Dio ha nascosto il suo volto, disgustato dagli uomini?
E’ stata questa, e Bruno Forte lo richiama in uno dei capitoletti di questo libro, la frettolosa affermazione che fece seguito al commento di Giovanni Paolo II a un testo di Geremia, nel quale sembrava che il Papa dicesse che Dio si è disgustato degli uomini.
Le frettolose titolazioni dei giornali servono ad accalappiare i lettori frettolosi, non a riflettere, anche se hanno una forza provocante.
Non si dovrebbe piuttosto dire, (e questo mi pare il contributo che a proposito del tema che stiamo toccando viene dalla lettura di questo libro), che gli uomini hanno dimenticato Dio e quindi si sono sentiti legittimati a compiere scelleratezze, pur coperte da nobili intenti, magari invocando Dio stesso.
Il “Gott mit uns” che le SS portavano sulle divise, era il tentativo di legittimazione dell’empietà e, anche oggi, questa empietà viene riproposta, in nome di Dio; si nega Dio in nome di Dio e questo è il sommo dell’empietà.
Il problema del silenzio di Dio svela l’attesa di un suo intervento certo in difesa degli innocenti o almeno teso a impedire il male. Ma il male Dio lo impedisce provocando la conversione. E anche questo è un contributo interessante che possiamo trovare in questo libro.
Allora il vero problema non è quello del silenzio di Dio, ma quello dell’indurimento dell’uomo, che è un mistero altrettanto grande, di fronte al quale vale tacere.
Il desiderio di un intervento quasi magico di Dio suppone un’idea di salvezza che non implica la conversione. Invece Dio salva il mondo trasformando i cuori e le menti delle persone, non impedendo che il male avvenga.
2 – La figura di giustizia. Il termine giustizia, non ho fatto i conti, ma si potrebbero fare avendo il testo al computer, è uno dei più ricorrenti in questo libro e non solo perché il termine giustizia appartiene al nostro vocabolario quotidiano, ma perché il vero problema che si pone di fronte all’ora presente è che cosa voglia dire “fare giustizia”.
Mi si perdoni un tratto autobiografico: ho riletto questo libro domenica scorsa, in volo di ritorno dall’Ecuador, e ogni volta che incontravo nel libro la parola giustizia, mi si presentavano le facce sofferenti delle persone viste, persone perfino incapaci di chiedere giustizia, talmente sono appiattite nella loro condizione.
Nel libro si fa riferimento a situazioni che generano la violenza e sono situazione di profonda ingiustizia, nella quale, alcuni popoli conculcano altri popoli. Nel libro si fa intravedere che, solo facendo giustizia, si potranno sradicare le ragioni della violenza.
Un brevissimo passaggio a pag. 13: “Se invece che lo scudo spaziale si pensasse a promuovere i diritti dei deboli e i processi di pace al servizio della giustizia per tutti, l’olio che alimenta la fiamma del fanatismo islamico verrebbe, in gran parte, ad estinguersi”.
L’affermazione potrebbe apparire a qualcuno superficiale se, procedendo nel libro, non ci si accorgesse che la giustizia di cui si parla è la giustizia superiore del vangelo.
A pag. 25: “Questa complessa, impegnativa rete di esigenze di giustizia, rimanda perciò alla giustizia più grande, di cui parla Gesù nel vangelo, a una misura, cioè, che presuppone la giustizia e la fonda nel modo più alto. Questa misura è l’amore e la sua sorgente ultima trascende ogni capacità soltanto umana, rendendo possibile, l’altrimenti impossibile, giustizia.” E poi si cita il testo di Matteo 5, 44-46: “Ma io vi dico: amate i vostri nemici ecc.”.
3 – La via della pace. Il testo di Matteo ci permette di introdurre, brevemente, il terzo tema: – la via della pace -, che qui, coerentemente con il messaggio del Papa per la giornata della pace, viene indicata nel “perdono”. Il perdono è il di più che l’Occidente, con le sue radici cristiane, ha da offrire.
“L’occhio per occhio, dente per dente”, in questi ultimi anni ha dimostrato tutta la sua debolezza, nonostante la retorica, udita anche l’altro giorno, del mondo oggi più libero, senza un tiranno spodestato.
Bisogna dare atto a Bruno Forte che ha avuto il coraggio di esprimere un giudizio vero, di una verità che viene da altrove, la verità del vangelo.
Certo, potrebbe apparire presuntuoso parlare di un giudizio vero su situazioni storiche, ma se non si cerca altrove la fonte di un giudizio vero, abbandonati semplicemente ai nostri giudizi non riusciamo più ad avere parametri di lettura della realtà.
Si tratta, allora, in questo libro, di prospettive utopistiche di un teologo che non avrebbe il senso della realtà? E se fossero, invece, provocazioni di uno spirito nobile, che non si rassegna a farsi determinare dalla bruta fattualità?
In tal caso, sarebbero una via alla conversione, che consiste, almeno, nel dare per scontato che la via intrapresa della guerra non è l’unica e, sicuramente, non è la migliore.
NOTA: testo, rivisto dell’Autore, della conferenza tenuta il 2.10.2003 a Brescia su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.