La crisi postbellica investì vincitori e vinti e fu ovunque, in primo luogo, crisi di valori morali. La guerra aveva coltivato l’indurimento dei cuori e il disfrenamento dei sensi, così ben descritti da Stefan Zweig nel “Mondo di ieri”. Il dopoguerra vi aggiunse l’esasperazione degli odi nazionalistici, la disoccupazione di massa, un’inflazione stellare, le aspettative messianiche del comunismo giunto al potere in Russia nel ’17. L’angoscia di un mondo smarrito fu espressa e sublimata nell’opera letteraria di Kafka, nella poesia dell’ultimo Rilke e del nostro Ungaretti; nella pittura, da Picasso, in quell’oasi di serenità che è «il ciclo del bambino Paolo» e nella purezza malinconica di Modigliani. E fu in quegli anni tormentosi che Claudel, Papini, Rouault riscoprirono in opere d’intensa animazione religiosa l’attualità del messaggio evangelico.
Nei Paesi che non superarono la prova – l’Italia, e ancor prima la Russia, poi la Germania – la crisi sfociò nella costruzione dello Stato totalitario. Perché l’Italia divenne uno dei tre pilastri del disumanesimo totalitario che caratterizzò il ventennio tra le due guerre? Come si arrivò ad imboccare quella via? Pochi avevano idee chiare, tante furono le indecisioni e le risposte errate ai gravi problemi di quegli anni difficili. Si sbagliò ripetutamente, da parte di tutti o quasi tutti.
La crisi economica e sociale offrì alla febbre agitatoria del «diciannovismo» e degli anni successivi non poche occasioni. Con la guerra la grande industria ha divorato le piccole imprese, ma ora la pace le impone di colpo l’alt, ed essa non può sopravvivere senza il sostegno dello Stato. E sostegno dei pubblici poteri significa inevitabilmente drenaggio del denaro pubblico, protezionismo, sviluppo economico in gran parte distorto e parassitario.
Il biennio rosso 1919-1920 vide l’importante sviluppo delle confederazioni sindacali socialiste e cattoliche, ma all’interno della Cgil i dirigenti, sebbene non del tutto sordi ai moniti di Turati, non osavano opporsi risolutamente ai massimalisti. Dilagò la “scioperomania” e tuttavia non fu essa a produrre il peggio: il peggio venne dalla visione settaria e infantile con cui fu condotta la lotta sociale e politica. Salvemini ha documentato in modo irrefutabile come la demagogia tracotante alimentò e approfondì la frattura psicologica e politica fra il proletariato, sia rurale che urbano, e la piccola borghesia dei coltivatori diretti, degli artigiani, dei negozianti, degli impiegati statali ridotti al lumicino dall’inflazione galoppante.
Il ceto medio, offeso e abbandonato a se stesso, non solo si staccò dal socialismo, a cui aveva dato, ancora fino dal 1919, i quadri dirigenti e crescenti consensi. A poco a poco divorziò dalla democrazia. E per lo Stato liberale fu l’inizio della fine. L’occupazione delle fabbriche nel settembre del ’20 provò ai lavoratori come il continuo sfoggio del mito rivoluzionario avesse isolato nel Paese la classe lavoratrice. La rivoluzione rossa non ci fu, ma la paura che arrivasse fu tale da innescare un processo e una mentalità che avrebbero conferito in pochi anni il primato a chi più decisamente mostrasse di opporvisi.
I maestri e gli iniziatori del socialismo italiano, Turati e i suoi amici, erano ormai minoranza ma tollerata nel loro partito, perché rifiutavano la celebrazione della violenza redentrice e avevano visto giusto sugli esiti aberranti della via totalitaria al socialismo. Ma i neutralisti e i delusi della guerra avevano riversato una valanga di voti al Partito socialista nelle prime elezioni politiche del ’19. Il milione di voti in più rispetto agli 883 mila del ’13, combinandosi con l’adozione della proporzionale, portò a 156 i deputati socialisti, che prima erano 52. Ma quel partito è condannato dai massimalisti alla schizofrenia: incapace di fare in Italia la rivoluzione sovietica, non fa che armare e suscitare la violenza avversaria: ha un terzo dei parlamentari eletti nelle sue liste, ma rifiuta qualsiasi alleanza politica e professa il più intransigente antiparlamentarismo.
Un altro fattore di crisi fu costituito dalla gravità delle fratture interne al raggruppamento liberale e dalla sua indisponibilità ad una collaborazione organica con la nuova formazione che nelle elezioni del ’19 aveva guadagnato ben 100 deputati, mentre la coalizione liberale era scesa da 310 a 114 deputati. Se il Partito popolare italiano era la formazione politica più giovane, non doveva sfuggire a uomini come Giolitti e Nitti la sua aderenza a forze e a valori di fondo della nostra storia, della cultura e della civiltà italiana. Del fondatore e capo del Ppi, Piero Gobetti dette un ritratto forte e penetrante. «Sturzo lavora a fare che il popolo creda alla politica attraverso un pregiudiziale morale». Combatte il clientalismo, lo Stato panteista e oligarchico, la dittatura politica e il collettivismo in economia. «Sturzo è il messia del riformismo», ma si batte solo per rimuovere ostacoli e ingiustizie e non per autorizzare sotto forme nuove parassitismi e privilegi. Va al popolo attraverso il Vangelo, ma non carica sulla Chiesa il fardello di scelte che sono politiche e inevitabilmente fallibili, almeno in una certa misura. Gobetti aveva allora poco più di vent’anni. Giolitti ne aveva ottanta e a quell’età sono assai pochi coloro che amano le novità.
Lo scontro Sturzo-Giolitti venne però dal diverso modo di valutare il fascismo e di rapportarsi ad esso. Giolitti si illuse di incanalare nella legalità dello Stato liberale le irrequietudini fasciste e di servirsi dell’accrescimento delle forze fasciste per ridimensionare i popolari e i socialisti. Fu il più grave errore dello statista di Dronero. Tentando di strumentalizzare il fascismo, nel momento in cui il fascismo scatenava le sue spedizioni punitive contro i suoi oppositori, Giolitti lo accreditò, attirando anzi su di esso i consensi della destra liberale. Giolitti giudicava impossibile e pericoloso un governo senza i fascisti e irrise pubblicamente su “La Tribuna” del 26 luglio del ’22 all’ipotesi di un governo di difesa democratica contro l’imminente assalto fascista allo Stato. «Che cosa può venire di buono per il Paese da un connubio don Sturzo, Treves, Turati?», si chiedeva Giolitti. Solo Giolitti avrebbe potuto appoggiare un governo Sturzo-Turati, essendo il capo riconosciuto della parte più progressiva del raggruppamento liberale, e il suo appoggio era determinante per sconfiggere i clerico-moderati presenti nel Ppi e i massimalisti del Psi.
Da Giolitti venne, invece, il siluro all’unico governo antifascista che avrebbe difeso le istituzioni liberali e democratiche. Quel siluro fu il più bel regalo per Mussolini.
Anche a sinistra mancò del tutto la coscienza del pericolo che avrebbe rappresentato anche per loro la fine del regime parlamentare. Il Psi, riunito a congresso il 1° ottobre del ’22, non trova nulla di meglio da fare che espellere come traditore Filippo Turati! E in fatto di cecità non scherzavano neppure i comunisti. Sul gramsciano “Ordine nuovo” il 27 luglio del ’22 si legge che «il bieco nemico di classe ha un solo aspetto e un triplice nome: Turati, don Sturzo e Mussolini».
Giornale di Brescia, 3 luglio 1988.