Intendo proporvi una breve sintesi anzitutto di aspetti e di prospettive in cui si è presentata la libertà lungo l’arco della storia del pensiero. La prima evidenza è che siamo di fronte a una categoria fondamentale e straordinariamente ricca di problemi e di formulazioni: di piú, è una realtà certo non secondaria rispetto alla persona umana; qualcosa di imprescindibile, al punto che non si può in sostanza concepire la persona stessa senza la libertà. Posso forse pensarmi come assolutamente costretto da necessità? Ogni mio singolo atto — se appena vi si riflette — alla fin fine risulta frutto anche di una serie di mie scelte. Ecco una prima fondamentale concezione della libertà: la libertà di scelta. È vero che si possono costruire sempre nuovi argomenti che ci indicano come, anziché liberi, siamo legati a una serie di necessità: ma per ognuno di questi argomenti ci sono almeno altrettanti controargomenti. In realtà i miei atti di libertà di scelta si intrecciano con elementi estranei alle mie scelte, dunque non liberi in quanto realtà che ci si presentano senza che le abbiamo volute e che in genere percepiamo come casuali. Dunque: libertà e caso; ma, riflettendo, è necessario almeno aggiungere la necessità. Infatti posso registrare mille e mille realtà che ‘troviamo’ senza averle assolutamente volute: dal luogo in cui si è nati o si vive, da un’epoca a un’altra; e in quanto le considero tutte dei ‘fatti’, sono necessitato ad accettarli. Già per quest’ordine di motivi la mia libertà, se da un lato è imprescindibile, dall’altro non può essere assoluta: è invece limitata da impossibilità insormontabili (dato che ad esempio non posso trovarmi in due luoghi contemporaneamente, o parlare cinese senza averlo imparato!). Al tempo stesso, non sono libero di scrollarmi di dosso la libertà! Certo posso scegliere di non scegliere, ma solo non compiendo alcune scelte: dunque entro limiti non superabili né annullabili. Né è una contraddizione affermare che sono ‘necessariamente libero’: il che significa, intanto, che ho dei limiti, cosí come ha limiti la qualsiasi realtà che possiamo concepire. Ma intanto si può osservare che un altro significato di libertà è quello negativo di non costrizione. Un ulteriore significato è quello di libertà di scegliere ciò che è migliore, o il bene maggiore. Peraltro è noto che gli antichi greci si consideravano il popolo per eccellenza libero, e invece barbari tutti gli altri, in quanto governati da sistemi politici tirannici, a fronte della democrazia ellenica. E se consideriamo la concezione cristiana scopriamo che la verità ci fa liberi: vale a dire che la volontà umana si determina liberamente nelle sue scelte e la grazia di Dio la libera in modo pieno illuminando l’intelligenza a verità superiori e rafforzando la volontà in modo da farla capace di scegliere il bene maggiore.
Invece grande parte del pensiero moderno e contemporaneo, specie dal Cinquecento, nega sostanzialmente la libertà umana, concependo il mondo intero come un insieme di cause ed effetti connessi in modo necessario. In alcuni casi tale necessità è concepita sostanzialmente secondo un modello fisico: se io lancio una pietra questa ricade secondo leggi che posso dedurre e misurare ma certo non mutare. Alcuni importanti pensatori giudicano invece la libertà come il principio e il fondamento, come la legge somma di ogni realtà, della realtà tutta. E intanto tutto questo ci conferma che la libertà è dimensione fondamentale, sia che la si problematizzi o la si neghi, oppure la si assolutizzi.
Restando ai significati fondamentali della libertà, riscontriamo che quello piú comune corrisponde all’espressione ‘libero arbitrio’: che essenzialmente significa che ogni mio atto è libero in quanto mi faccio arbitro, cioè scelgo, di volta in volta, fra diverse possibilità; e posso scegliere soltanto in base ad un qualche criterio, dunque in base ad un giudizio. Ad esempio, nel gioco del calcio l’arbitro giudica in base alle regole del gioco: il suo criterio di giudizio è dunque costituito da tali regole e i giocatori restano liberi di rispettarle oppure di violarle, ma in ogni caso quelle regole costituiscono il criterio rispetto a tutte le loro libere scelte. E non può sussistere nessuna forma di società senza un insieme di norme che le consentano di funzionare regolando le relazioni tra le libere scelte dei suoi componenti. Dunque non è pensabile una libertà assoluta, dove assoluta significhi sciolta da tutte le possibili regole: in ogni caso la libertà si determina in rapporto a norme, e nella società in senso ampio in rapporto a leggi. Norme e leggi sono comunque condizioni, nonché misura, degli atti liberi; i quali, quando si svolgano violandole, o ignorandole, vengono giudicati non leciti, e in quanto tali eventualmente vengono sanzionati. In questa direzione sono sostanzialmente due i significati piú correnti e dominanti della libertà: il primo si riferisce alla persona come singolo individuo, e il secondo all’individuo come componente di una società. Potremo considerare il primo come libertà morale e il secondo come libertà politica. È evidente che si tratta di una distinzione tanto piú importante quanto piú per sua natura comporta infinite forme di reciproche relazioni e intersecazioni. Ma restano comuni la volontà del singolo e le leggi della società. D’altro lato le leggi sono pur sempre risultati, nelle loro formulazioni concrete, di un insieme di accordi, di mediazioni e di convenzioni sociali, che hanno come fine principale la migliore convivenza tra le volontà individuali: in altri termini il loro fine non può essere se non quello della società stessa, il suo maggior ordine possibile. E non c’è nessuna forma di ordine, che riguardi l’individuo o la società, che non si identifichi in sostanza con il conseguimento del bene maggiore in relazione tanto all’individuo quanto alla società stessa. Ecco perché il maggior grado di libertà politica non può non corrispondere al maggior grado della libertà personale. Ogniqualvolta queste due libertà entrano in conflitto, significa che non si è assunto in misura adeguata come fine l’ordine stesso, senza il quale non sussiste nessuna forma di libertà.
D’altra parte l’ordine come fine comune tanto dell’individuo quanto della società altro non è che il bene maggiore di entrambi: ossia quello che si è soliti sintetizzare in termini tanto di perfezione quanto di felicità. Resta ovvio che non può non trattarsi di fini conseguibili soltanto in misura limitata e mai piena, totale, già per la costitutiva limitatezza, in molteplici forme, dell’essere umano. In questo senso è del tutto inconcepibile una libertà assoluta. Ma il punto fondamentale resta quello delle relazioni fra me stesso, come dotato di qualche misura di intelligenza e di volontà, e i fini che di volta in volta scelgo nel mio pensare e nel mio agire. Il livello e la qualità dei fini in qualche misura posso giudicarli dai frutti del mio intelligere e del mio operare: certamente non potrò pervenire a nessun grado di appagamento e tanto meno di tranquillità e di felicità se i fini del mio operare sono quelli che la qualsiasi società normalmente considera delitti. Ma nel caso io respinga come convenzioni o come finzioni tutte le leggi che connettono come tale la qualsiasi società, e dunque mi consideri in assoluto libero dalla qualsiasi forma di legge, in questo caso mi collocherò nella posizione che è propria dell’anarchia: termine di radice greca che in sostanza significa senza nessun principio e nessuna norma che io riconosca valide come tali. Ma in sostanza non è concepibile nessun atto umano che sia privo di fine, che assolutamente non riconosca nessun principio o norma: nel caso dell’anarchico è evidente che egli concepisce la propria libertà come orientata di volta in volta dalle passioni che inevitabilmente lo attraversano, senza frapporre ad esse nessun tipo di limite. Ma siccome quello che vale per il singolo vale su piú ampia scala per le singole società, la traiettoria sia dell’anarchico sia della società che non abbia come suo fine sommo il bene maggiore come bene comune — come avviene nei dispotismi e nelle tirannie — non potrà che compiersi con esiti di dissolutezze e di dissoluzioni. Se ne può concludere, intanto, che tutte le possibili forme di libertà del singolo come libertà politiche, ossia della società, fondamentalmente si sostanziano e si traducono in termini di libertà di vivere, di informazione, di insegnamento, di fede: non può sussistere nessuna forma di vita e di vero progresso di una società se questa non assume come suo fine ultimo il bene maggiore dei suoi membri, che infine coincide con la loro maggiore felicità.
Cercherò ora di raccogliere in estrema sintesi la concezione che Rosmini ha della libertà. Anzitutto occorre tenere presente che Rosmini, fra l’altro lettore sterminato, possiede per intero il panorama storico delle diverse interpretazioni della libertà. E si può aggiungere che la sua vastissima opera — l’edizione nazionale critica dei suoi scritti che è in corso prevede almeno cento grossi volumi — contiene anche un intero trattato sulla libertà. Rosmini a proposito della libertà anzitutto parla di una «specie di mistero filosofico»: per sottolinearne l’importanza e la complessità, che è quella stessa della persona.
Rosmini giudica necessario premettere, quasi a “manifesto” del proprio sistema filosofico, la connessione fra libertà e verità, dispiegandola in apertura dell’Introduzione. Se ne può individuare il nucleo nella seguente tesi: «l’unione intima dell’uomo colla verità è naturale»; «l’operare secondo questa unione è consentaneo alla libertà umana. Ma poiché — prosegue — la libera volontà può opporsi all’umana natura, quindi da essa procede la volontaria servitú dell’uomo (…) che ritorce la terribile potenza della propria libertà contro se stesso». La filosofia può dunque dispiegarsi come libertà sempre più pienamente in atto solo in quanto anzitutto smaschera le “servitù” di volta in volta dominanti e ne dimostra confutatoriamente la natura profonda, la sua distruttività, al limite estremo, di ogni sapere, dell’uomo stesso.
Rosmini fonda la libertà umana come il potere della volontà di determinarsi nelle singole volizioni come scelte. Per se stessa la volontà è «l’appetito che tende al bene conosciuto»: nessuno e niente può forzarla, se non la persona stessa volente, che può esercitare violenza su di essa, determinandosi dunque a scegliere il male o il bene minore.
L’intelligenza mi presenta indefinite realtà e altrettante possibilità che io ho di porle in relazione e diversamente ordinarle. Ad esempio distinguendole in ordine all’importanza che attribuisco loro. La mia libertà nella sua pienezza è frutto della mia scelta di ciò che per me è il bene maggiore fra quelli di cui ho intelligenza: posso chiamarla volontà superiore e posso connetterla con la felicità o identificarla con essa. In ogni caso, la libertà connette principalmente due elementi: un elemento soggettivo e un elemento oggettivo: nel confronto di due ordini di bene, uno immediato e sensibile e un altro bene, di ordine morale, che è in sé un bene maggiore. Io resto comunque libero di scegliere un bene minore oppure un bene maggiore: ma solo se scelgo il bene maggiore accresco la mia libertà. Infatti nel primo caso non valuto la ragione sufficiente per scegliere fra sensazioni, mentre invece nel secondo caso la mia scelta la pongo in atto alla luce di ragioni oggettive. Infatti il piano delle sensazioni include beni certamente inferiori ai beni colti mediante l’intelligenza. La differenza sostanziale tra i due piani si può contrassegnare il primo con l’immediatezza e il secondo con la coscienza. Ora, se io abitualmente mi limito a scegliere quello che immediatamente ‘mi va’, scartando tutto quello che immediatamente ‘non mi va’, tendo a ridurre la mia libertà ad un livello sostanzialmente animalesco, che diventa ‘normale’ e tende ad escludere ogni alternativa a se stesso quando da sé si imprigioni non obbligandosi a seguire una norma, ma invece passivamente adeguandosi ad un’abitudine, viziosa e non certo virtuosa. Vero e proprio vizio si ha quando non ci si pone nemmeno piú alcun problema né possibilità di tutt’altro genere di scelte, cancellando dall’orizzonte dell’intelligenza qualsiasi forma di bene maggiore: la libertà, in queste condizioni, non si attua come morale, ma opera scegliendo di rinunciare ad ogni scelta che sia altra da quelle di ordine ‘istintivo’. Rosmini distingue in modo netto fra istinto animale e istinto spirituale — questa terminologia è sua —, e fra giudizio teoretico e giudizio pratico. Le sensazioni e i desideri che non si filtrano attraverso giudizi dell’intelligenza morale, la quale sempre di nuovo distingue fra beni minori e beni maggiori, dominando in modo totale tutte le residue forme di scelta, finiscono collo schiavizzare la persona: all’estremo si sfiora lo scegliere di non scegliere, facendosi per cosí dire scegliere di volta in volta dal gusto o dal desiderio piú immediati. Uno solo è il rimedio sostanziale a tale ‘demoralizzazione’, quasi una schiavitú, che può percepirsi come tale: nutrire senza sosta e senza limiti l’amore della verità, non mutilata o snaturata ma autentica e intera.
Infatti in ogni caso la libertà consiste nello scegliere tra diverse volizioni alla luce dell’intelligenza e al di fuori da ogni violenza o necessità. È tanto piú grande quanto maggiore è il bene che sceglie, avendone intelligenza. Sceglierlo è amarlo ed esserne felice: è attuare la libertà morale, il maggior ordine fra i beni che si è capaci di riconoscere. La libertà si riduce a menzogna se si illude di poter scegliere in modo indiscriminato fra tutte le possibili volontà. Il diritto primo e assoluto della persona è aderire alla verità nell’intelligenza e nell’agire: è il supremo diritto alla virtú e alla felicità. Non può esserci nessun diritto di scegliere violando la libertà morale e dunque la coscienza: ogni legge che non la riconosca e non la rispetti è falsa e non valida, frutto non di libertà ma di schiavitú, di ingiustizia e di tirannia.
Per tutte queste ragioni, di fronte alla tesi, posta come ovvia nell’illuminismo, nonché spesso oggi, secondo la quale solo l’ateo si trova nello stato di «liberamente filosofare», in quanto «libero dal giogo della verità» e «da quello dell’errore», «dal vincolo del dovere e della virtú» e «da quella del vizio», Rosmini conclude che in realtà costui altro non fa che perdere il senso di se stesso, ignorando la propria natura e la natura umana: ma chi «non conosce né manco una sola verità (…) non sarebbe uomo». Conseguenza fondamentale è dunque che è «la piú grande assurdità il sostenere, che le verità possedute (…) sieno un impedimento (…) al suo libero pensiero». La contiguità di scetticismo e di ateismo, specie dove vengano assunti come la condizione necessaria alla libertà del filosofare, impone che se ne dimostri la natura di «prevenzioni e persuasioni erronee», causa logica della perdita della vera libertà, dei traviamenti da essa: il che è pienamente possibile solo esercitando «quel coraggio ed ardire filosofico, col quale tanto facilmente si confonde la presunzione e la temerità» e che invece è intrinseco, come «condizione indispensabile», al filosofare, ossia l’incondizionato «amore della verità». Infatti — sottolinea fortemente Rosmini — «la prima di tutte le leggi del pensiero è la coerenza», ossia il riconoscimento teoretico e pratico della «necessità logica e morale», che è il «diritto della verità», intrinseco alla qualsiasi sua forma: tale riconoscimento è la grandezza e la gloria somme della filosofia e della persona, così come il suo disconoscimento ne è la dissoluzione. E la verità oggettiva prima e fondante ogni altra, che costituisce ontologicamente l’intelligenza umana, è la presenza dell’essere nella sua forma ideale. La filosofia svolge il proprio compito se ne mette in luce la costitutiva necessità ontologica, e le sue conseguenze, ossia la ontologica capacità di verità oggettiva che sostanzia la persona e la fa capax Dei, cosí come di ogni altro vero.
Il pregiudizio razionalistico che Rosmini giudica dominante — e noi ne siamo figli — è l’errore radicale che proclama «il ragionamento qual unico mezzo di conoscere la verità», avendo scartato lo statuto metafisico della persona, e che per necessaria coerenza conduce all’antifilosofia, «che i moderni s’ostinano a chiamare Filosofia». La filosofia tedesca in testa, «per un lunghissimo e tortuosissimo cammino», ha «condotto il pensiero umano in trionfo al suo estremo supplizio» — scrive Rosmini —, avendo concluso con il «decreto vericida» secondo il quale la «ragione teoretica è impotente a conoscere qualunque siasi verità in sé medesima»: è la «rivoluzione filosofica» in cui la filosofia è ridotta ad affidarsi a postulati indimostrabili della ragione pratica e nel circolo vizioso dell’essersi “liberata” dalla sua intrinseca capacità di verità oggettiva. La libertà dell’intelligenza è invece «altissima e nobilissima» in quanto si uniforma «al mondo oggettivo ed assoluto». Ne derivano le conseguenze fondamentali, che Rosmini argomenta e determina in particolare nella Filosofia del diritto, sul piano sia gnoseologico sia morale: ossia, per l’uomo, al tempo stesso, «non esiste un diritto (…) di acconsentire ad un errore conosciuto per errore», né «di fare un’azione vietatagli dalla legge morale».
Sul piano dell’antropologia filosofica, Rosmini fonda la libertà come il potere sulla volontà che la determina nelle singole volizioni come scelte. Per se stessa la volontà è «l’appetito che tende al bene conosciuto»: nessuno e niente può forzarla, se non la persona stessa volente, che può esercitare violenza su di essa, determinandola dunque a scegliere il male o il bene minore. Di fronte alle possibili volizioni, che sono «altrettante, quanti i beni (…) che l’intelletto propone», la volontà «non può essere indifferente»: perché sempre traduce la ragion sufficiente, che inerisce a ciò che l’intelligenza manifesta come amabile, in ragione sufficiente e forza pratica di operare, o attuando la libertà morale, per «realizzare tutto quell’ordine che è nell’idealità» e che consegue «all’idea della somma perfezione»; oppure negando praticamente intellezione e libertà, quando ne violi la necessità oggettiva con atti di arbitrio, ossia di libero autoasservimento. In forza di tutti questi elementi l’intera opera e attività di Rosmini si dispiega coerentemente sulla base della più profonda consapevolezza che l’umanità può indefinitamente progredire in modo sostanziale e intero in tutti i suoi ordini soltanto mediante la connessione di ontologia, teologia speculativa e cosmologia, e moralmente come filosofia del diritto e della politica, in integrazione con psicologia, etica e pedagogia.
Rosmini determina con estrema chiarezza l’inalienabilità dei diritti costitutivi della persona, in forza del suo essere «il diritto sussistente»: diritti costitutivi sono la proprietà, a cominciare dalla propria vita, la libertà e il suo esercizio pieno, il perfezionamento nell’ordine intellettuale spirituale temporale, con il conseguente appagamento dell’intera persona. Tali diritti sono antecedenti rispetto alla qualsiasi società civile e alla sua legiferazione: in questo senso la loro sfera è extra-sociale. Il che comporta, essenzialmente, che «se le leggi civili — scrive Rosmini — non offendono i diritti, che sono ad esse precedenti, e si limitano a proteggerne 1’esercizio (…) sono giuste»; sicché la qualsiasi forma di governo che legiferi difformemente a tale principio della giustizia ontologica, non è se non «tiranno», e genera solo forme di libertà «finta e bastarda». Infatti, sul piano della società civile, la libertà si determina come «1’esercizio non impedito dei propri diritti». L’ultimo atto della buona battaglia di Rosmini colpisce con estrema determinazione e determinatezza le legiferazioni fondate sulla subdola incastellatura di sofismi concentrati entro un presunto diritto di libertà di coscienza: in realtà — scrive — «divenuta una coperta e uno strumento d’interessi egoistici e di passioni irreligiose e immorali»; a tal punto che deve concludere con il giudizio di «ateismo della legge», cioè delle legiferazioni che stavano formulandosi in quel periodo, agli antipodi rispetto alle condizioni necessarie all’autentica libertà di coscienza, ossia, anzitutto, «che la legge civile non s’opponga mai né direttamente né indirettamente alla coscienza religiosa dei cittadini».
Forse mai come oggi il globalizzarsi dell’ingovernabilità si fonda sulla “cristianofobia” fecondata dalla riduzione neoilluministica della libertà religiosa alla “sfera privata”, tragico corrispettivo dell’onnisocializzazione: come se ogni atto, il più “privato”, per sé stesso non generasse conseguenze, positive o negative, sui singoli membri di micro e macrosocietà. Non certo a caso, nel trentesimo anniversario della Dignitatis humanae, il Papa, nel congresso sul secolarismo e la libertà religiosa, ha additato tale riduzione come «più subdola di un’aperta persecuzione»: in realtà si affianca alle aperte persecuzioni e le incrementa; è peraltro di tale portata da contribuire in modo sostanziale allo svuotamento di ogni reale significato della qualsiasi forma di democrazia. Ne è controprova drammatica il fatto che i piú coerenti sostenitori degli autentici diritti umani, da altri lati conclamati nominalisticamente, sono martiri, insieme, dei crescenti economicismi e settarismi.
Leggo ora una serie di brevissime espressioni di Rosmini, che liberamente antologizzo e adatto sul piano della lingua. Li scelgo dal paragrafo intitolato “Libertà del filosofare” che fa parte dell’opera Introduzione alla filosofia.
Il maggior numero degli atti della vita vengono diretti da prevenzioni e da credenze assunti arbitrariamente come segni e generali indicazioni del vero. Il compito della filosofia, cosí come di ogni persona, è anzitutto distinguere in essi il vero e il falso, il che costituisce un’immensa difficoltà. Perciò è necessario il coraggio che libera da restrizioni e ingiusti vincoli e che nasce dall’amore della verità, che è la condizione indispensabile. E la prima verità che è necessario riconoscere è lo stesso lume dell’intelligenza: la cognizione diretta e costitutiva dell’essere come idea. Il filosofo svolge su tale fondamento tutt’intera la sua attività di riflessione. Deve scegliere sempre fra la verità e l’errore: il punto che li divide è il nulla dell’intelligenza. Riguardo ai pregiudizi, ad esempio il filosofo non cattolico vuole creare una filosofia senza mai cercare se il cattolicesimo sia un errore o una verità. Invece, nel filosofo cattolico l’intelligenza sempre precede e accompagna la fede, dato che vi sono ragioni che precedono la fede e che il credere è anch’esso un atto del pensiero che ubbidisce alla ragione, benché non sia solo questo.
Ed ecco il mio altrettanto breve commento.
La tesi fondamentale è che la vita umana non è vissuta né in pienezza né in libertà se cerca di sottrarsi al combattimento continuo, immensamente difficile, arduo, contro l’infinita serie dei pregiudizi, degli arbitri, delle deformazioni, delle limitazioni alle quali crocifigge la verità: cosí si condanna a sempre nuove schiavitú. Può costruire sempre nuovi strumenti per calcolare e per comunicare: ma se vive nella dimensione dell’immediato impulso, escludendo tutto il resto sotto il vessillo globalizzato delle indifferenze, innesca ed alimenta una serie di omissioni e di errori: non meno che abissale e sulla traiettoria dell’autodistruzione.
Rosmini intesse un insieme enciclopedico di opere nella direzione piú costruttiva, in forza del suo totale amore della verità. Restando al problema della libertà, sviluppa in modo sistematico non solo una fondamentale filosofia morale, ma anche una filosofia della politica e una filosofia del diritto.
La Filosofia del diritto di Rosmini (1841-1843) è una delle sue opere in cui, attraverso il ripercorrimento critico del pensiero da Platone a Hegel, la libertà viene collocata come valore metafisicamente costitutivo della persona, dunque come sua dignità oggettiva, intangibile, in quanto è possibilità di ordinarsi all’essere assoluto e infinito: dignità necessariamente connessa con la costitutiva capacità di contemplare la verità, e culminante nella costitutiva capacità di godere la beatitudine del possesso dell’essere assoluto.
NOTA: Testo della conferenza rivisto dall’Autore tenutosi a Brescia il 16.4.2015 su iniziativa dalla Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.