La morte come ritratto di virtù

Nella nostra memoria la dimensione filosofica di Seneca, quale rimane consegnata ai suoi scritti, mette in ombra la figura politica: una prova di più che la vera eredità romana non sta tanto negli atti di quel mondo, quanto negli ideali e valori che la sua cultura ha saputo elaborare e trasmettere entro e nonostante le strutture, nelle quali operava. Non per questo si può dimenticare che Seneca ebbe un ruolo rilevante nella vita politica del suo tempo, facilitato dallo status sociale, di cui godeva. Già suo padre era un retore illustre. Il fratello Novato, più noto come Gallione, si trova citato negli Atti degli Apostoli come governatore della Grecia al tempo di San Paolo. Di Mela, il fratello minore, Tacito rileva l’ambizione, inconsueta nell’antica Roma, di raggiungere un potere economico pari a quello politico dei consoli. Suo figlio Lucano brillò come breve meteora alla corte di Nerone. Il nostro Seneca, oratore di talento, si mise presto in luce, attirandosi inimicizie che attestano il suo peso politico. Giovane senatore rischiò di essere mandato a morte da Caligola. Nel 41 fu relegato in Corsica da Claudio e vi rimase otto anni.
Le disgrazie dei primi decenni di carriera si ribaltarono in un buon investimento politico col cambiamento dinastico voluto da Agrippina. Nominato precettore del giovanissimo Nerone, Seneca si trovò a guidare i primi anni di regno del nuovo principe, cercando di conservare l’equilibrio tra il senato e l’imperatore secondo l’ispirazione originaria del Principato. L’enfasi laudatoria saluta quel periodo come “regno dei filosofi” e “quinquennio aureo”. In realtà, preso negli ingranaggi del potere, Seneca fu costretto a molte finzioni (celebre l’elogio funebre di Claudio) e a compromessi sempre peggiori dettati dalla ragion di stato. Infine, convintosi di non poter più apportare alcun contributo utile allo stato, Seneca si ritirò a vita privata. Nerone fu allora libero di attuare la sua linea, che non tollerava limiti morali, politici e nemmeno economici, quindi neanche la presenza di silenziosi testimoni di una diversa concezione del potere. La repressione della congiura pisoniana gli offrì la buona occasione di mandare anche all’antico maestro l’ordine di tagliarsi le vene. In questo quadro l’eliminazione di Seneca “fu un atto politico nelle sue cause, nel suo svolgimento, nei suoi effetti” (Griffin).
Ma non è lo stesso nella tradizione. Sulla morte di Seneca le fonti principali sono due, Dione Cassio e Tacito. Il racconto del primo è confuso e parziale. Quello di Tacito invece è intenzionalmente costruito sul modello della morte di Socrate quale appare principalmente nel Fedone, dunque la morte del filosofo. Lo dimostrano persino le contraddizioni del racconto, che non sono spia di un’imitazione maldestra o di una compilazione frettolosa, ma indizi-guida al lettore per l’interpretazione. Secondo l’uso dei condannati romani Seneca si fa tagliare le vene, ma nell’attesa del dissanguamento beve anche la cicuta. Il centurione, che gli ha portato l’ordine imperiale, gli vieta di ritoccare il testamento legale, ma stranamente gli consente poco dopo di dettare altre pagine, una specie di testamento morale. La cicuta, come annota Tacito, era “il veleno con il quale si eliminavano i condannati dei tribunali politici ateniesi”; il Fedone contiene l’ultimo messaggio filosofico e morale di Socrate.
Persino la scena ricreata da Tacito richiama l’ambientazione platonica. P. Treves ha dimostrato che la condanna e l’esecuzione di Seneca avvennero il giorno stesso della scoperta della congiura: nella confusione delle prime ore era più facile giustificare l’assenza di qualsiasi procedura legale.
Ma Tacito ha narrativamente allontanato la scena di questa morte, facendola precedere da una serie di altre esecuzioni e quasi sublimandola in una zona isolata. Anche Socrate dopo la condanna aveva dovuto aspettare in prigione il ritorno della nave sacra: l’attesa era propizia alla meditazione sui grandi temi esistenziali, se è vero che “la vita del filosofo è tutta una preparazione alla morte”. L’annuncio finale arriva per Seneca alla sera, come nel Fedone, e non manca neanche la libagione a Giove liberatore. Attorno al condannato stanno gli amici fedeli, che lui stesso consola ricordando i principi ispiratori della loro dottrina.
Ma c’è un tratto un po’ diverso, indice di una sensibilità nuova. Socrate ha fatto allontanare le donne, sollecito della loro non filosofica debolezza. Anche Seneca addolcisce la sua eroica forza d’animo pensando alla moglie, cui vorrebbe risparmiare lo spettacolo della sua fine e la partecipazione all’evento tragico. Ma Paolina vuole condividere in tutto la sorte del marito. La salverà all’ultimo momento un ordine di Nerone, mosso non certo da sentimenti di umanità, ma dalle ragioni di consenso, cui è sensibile il politico: “Perché non crescesse l’odio per la sua crudeltà”.
La contrapposizione non potrebbe essere più netta. Nella galleria dei personaggi implicati nella congiura emergono tipi diversi, immagini di altrettante valutazioni storiche. Tacito esalta il militare, che rimprovera a Nerone le sue nefandezze, l’uomo di mondo, che lo irride, la donna, anzi la cortigiana, che sopporta ogni tortura per non rivelare i nomi dei complici. Muore male invece il capo della congiura, che già la voce popolare ha bollato come omologo a Nerone (“è giusto che a un cantante succeda un attore”): non sa compiere un atto di coraggio, cerca di nascondersi, infine stila un testamento pieno di adulazioni verso Nerone per salvare il patrimonio alla moglie, una donna indegna. Questi è Pisone, che Tacito ha descritto come nobile, ricco, facondo, attento al favore popolare (come Nerone!), ma diffidente verso i complici sospetti di cercare la libertà o un altro capo: è l’uomo per il quale “il desiderio di potere è più forte di ogni altro sentimento”. Il modo della sua morte non merita neanche una riga di racconto. Invece rilievo uguale a Seneca e le medesime coordinate narrative avrà la fine del senatore padovano Trasea Peto, il capo della vera opposizione, che è stato capace di esercitare in politica le virtù del saggio stoico.
 

Giornale di Brescia, 12.3.1996.