Il problema della morte assunse uno spiccato rilievo nella temperie spirituale del primo secolo a.C. In Lucrezio diventa addirittura fondamentale e risponde, oltre che a precise esigenze filosofiche, anche ad una viva ed immediata esperienza, nell’intervallo fra le convulsioni non ancora lontane della guerra tra Mario e Silla e le nuove che si prospettavano imminenti, con le prime avvisaglie della congiura di Catilina e dell’affermarsi del potere personale attraverso il primo triumvirato e la ripresa delle guerre civili. Se questo pensiero della morte suggerisce a Catullo, proprio negli stessi anni, un tono che consiste in quel senso di tristezza e di sconforto che tocca le più riposte pieghe dell’animo e suscita accenti mesti o strazianti, Lucrezio ha un atteggiamento che è, per questo aspetto, opposto a quello del Veronese, e, facendosi forte di una razionalità rigorosa, cerca di contemplare anche la morte con occhio sereno e intrepido. Eppure in questo, che potremmo chiamare "pensiero dominante" del poema lucreziano, c’è un senso di malinconia e di accoramento che non può sfuggire per quanto si celi sotto le dichiarazioni razionalistiche del poeta.
Certamente l’epicureismo indicò a Lucrezio il fascino delle certezze concrete e materiali che lo portano a negare tutto il mondo dell’oltretomba, a definirlo un insieme di favole sognate dai poeti, frutto della nostra debolezza e della nostra ignoranza e causa del terrore che turba la vita umana: la sopravvivenza è per Lucrezio una vana speranza, l’omaggio al sepolcro una pia tradizione, il cordoglio necessità, ma null’altro di più. Il terzo libro del De rerum natura è consacrato alla lotta contro la paura della morte e contro lo sgomento che circonda le cose dell’oltretomba: per questo tratta così diffusamente della natura e del destino dell’anima, che non può essere se non dissoluzione nei suoi atomi, ingresso nella pace del non essere, liberazione nel nulla. "La morte è nulla per noi", afferma, e quindi celebra Epicuro, il salvatore della paura della morte.
Ma noi sappiamo che l’angoscia che accompagna il pensiero della morte non è tanto e solo la paura di ciò che sarà dopo, ma nasce da una ragione più profonda: dalla consapevolezza che con la morte vengono interrotti tutti i nostri legami affettivi, le nostre speranze, i nostri progetti, tutto un mondo di valori psicologici e spirituali che riguardano la vita che stiamo vivendo, non l’aldilà verso cui ci spinge la morte. Per questo non ci basta il razionalismo epicureo, come del resto ci sembra che non basti a dare serenità totale neppure a Lucrezio.
Anche per il poeta romano la morte rappresentava un peso opprimente e appariva, in tutta la sua grandezza, gravida di intimo terrore. Non per nulla è stato scritto che il suo cocente odio contro ogni religio racchiude in ultima analisi il segreto inspiegabile della sua personalità, della sua anima solitaria, ardente di paura e di esaltazione. Proprio il terzo libro del poema, e specialmente l’ultima parte di esso, è un esempio di come la ragione epicurea possa offrire al poeta suggestivi farmaci serenatori, ma di una serenità che è umanamente piena di malinconia.
Dopo aver dimostrato, seguendo la dottrina di Epicuro, che l’anima muore col corpo e perciò noi, dopo la morte, non abbiamo sensazione più di nulla, perché con la morte scompare il nostro stesso io senziente e pensante, passa alle ultime e conclusive riflessioni. Se la vita, ci dice, è stata per noi ricca di gioie, dobbiamo rallegrarcene e lasciare il posto ad altri serenamente, come convitati sazi; se invece la nostra esistenza ci è stata cagione di pene e dolori, dobbiamo saper accogliere la morte come una liberazione. Cacciamo dall’animo la paura dell’aldilà: i mali che in esso noi immaginiamo esistono soltanto in noi, nel nostro timore degli dei, nel furore delle nostre passioni, nella nostra affannosa ambizione. Vano è agitarci e tentare di sfuggire al nostro destino, stolto è attaccarsi alla vita, che per sua natura inesorabilmente ci sfugge; sola eterna è e rimane la morte.
Un finale che non si può definire sereno ed ottimistico per questa accorata ammissione della universalità e inesorabilità della morte. Questo finale (come la visione inconsolabile, che taluni passi del sesto libro ci pongono dinanzi agli occhi descrivendo la peste di Atene) nasce dall’ammissione di questo male infinito che nessuno può vincere. E lo stesso Lucrezio, contro la sua fede epicurea nella fortezza e nella capacità dell’anima umana di conquistare e difendere strenuamente la propria felicità, sembra immalinconirsi e incupirsi davanti allo spettacolo, da lui stesso descritto, della fragilità umana. Ma poiché Lucrezio è soprattutto poeta, riesce anche qui a trasfigurare tutto in grande poesia.
Leggiamo i versi con cui descrive l’oscura inquietudine, che nasce dall’ineliminabile cruccio della morte, che disabbellisce e rende insipide anche le gioie di questo mondo. Qui Lucrezio ha espressioni profonde e rende con grande concretezza e plasticità il sentimento più vago e impalpabile delle età decadenti: la noia.
“Se gli uomini, così come è evidente che sentono la pena che li schiaccia sotto il proprio peso, potessero conoscere anche le cause perché nei loro petti si formi tanta mole d’affanni, non condurrebbero la vita come ora per lo più vediamo, che cioè non sanno che cosa ciascuno voglia per sé e cercano sempre di mutar luogo, come se potessero deporre quel peso. Esce sovente fuori dai grandi palazzi colui al quale è venuta a noia la casa, ma subito ritorna indietro, poiché s’accorge che non sta affatto meglio fuori. Un altro corre precipitosamente, spronando i cavalli, alla sua villa in campagna, come se si affrettasse a portare aiuto alla casa in fiamme; sbadiglia di noia appena ne tocca la soglia… Ognuno cerca così di sfuggire a se stesso, ma a quel se stesso… non può sfuggire, anzi con maggior astio gli resta avvinto e lo odia… Finché è lontano ciò che desideriamo, esso ci sembra essere superiore a tutto il resto; poi, non appena l’abbiamo raggiunto, desideriamo dell’altro e la sete di vivere ci tiene sempre con la bocca spalancata… Anche se ci fosse concesso di prolungare la vita non sarebbe meno lungo il tempo che segue alla morte”.
Sono espressioni molto intense, attraverso le quali è evidenziata l’instabilità, l’insoddisfazione dell’uomo, il suo spleen, per usare un vocabolo caro a Baudelaire, un sentimento o meglio uno stato d’animo che non gli permette di trovare pace in alcun luogo.
Certamente in questo stato di malessere spirituale, di inquietudine, c’è qualcosa che anticipa la condizione dell’uomo moderno, come è stata sentita appunto da Baudelaire e da Leopardi.
Giornale di Brescia, 21.11.1994.