Dal punto di vista geografico, l’Europa costituisce l’estrema appendice nord-occidentale dell’immenso continente asiatico. L’Europa non ha, infatti, una fisionomia distinta come l’Africa, l’Australia, le Americhe; non ha confini «naturali» a est. Dal punto di vista etnico – quali che siano le pur legittime distinzioni tra latini, germanici, slavi o tra nord e sud – i popoli che costituiscono l’Europa presentano una mirabile commistione razziale. In realtà l’Europa comincia a nascere solo quando nasce e si afferma un tipo di civiltà. Essere europei, fin dall’inizio, ha significato e significa tuttora non essenzialmente un fatto geografico o razziale, ma l’appartenenza ad un tipo di civiltà; sì che sul piano storico i confini stessi dell’Europa si allargano o si restringono, nel corso dei secoli, in rapporto all’ampliarsi o all’eclissarsi della civiltà europea.
Il processo di formazione storica da cui nacque l’Europa prese le mosse nel Mediterraneo orientale, nell’Egeo, il mare che vide i greci elaborare nuove forme di pensiero, di espressione, di vita. Dalle isole egee e da Creta, dall’Asia Minore cominciò la grande avventura che avrà nell’Atene di Socrate e di Pericle il suo culmine. Di lì sono venuti i poemi di Omero, gli ardimenti della prima ricerca filosofica, la matematica di Pitagora. Quando nel 399 a.C. Socrate concluse tragicamente la sua luminosa esistenza, l’Europa era quella parte del continente e del mondo mediterraneo animato e unificato dalla paideia greca. Se l’ellenismo non era il mondo, era veramente per la sua epoca tutto il nostro mondo, era l’Europa. Quando Cesare, nel 44 a.C., cadde sotto i colpi dei congiurati, i confini dell’Europa erano sul Reno e sul Tamigi, cioè dove i soldati e gli ingegneri di Roma avevano portato con il diritto dell’Urbe la civiltà ellenica. Con Traiano e Marco Aurelio la oicuméne romana significò l’unificazione europea, cioè greco-romana, del mondo civile di allora. In quel tempo era Europa anche l’Africa settentrionale, non meno della Spagna e della Romania, dell’Egitto e dell’Asia Minore.
I primi due fattori decisivi, i due grandi influssi formatori nell’età classica sono Atene e Roma. Dai greci noi deriviamo tutto ciò che è più caratteristico della cultura occidentale: la conoscenza scientifica con Pitagora, Platone, Euclide, Aristotele; la filosofia come ricerca disinteressata del senso della vita (che cosa posso conoscere? come debbo agire? che cosa posso sperare?), la letteratura, l’arte; il culto della bellezza e dell’efficacia espressiva della parola; l’ideale umano come sviluppo armonico del corpo e dello spirito; il rapporto attivo, spesso drammaticamente antinomico, tra la coscienza morale dell’uomo e le imposizioni della legge statuale – rapporto che ha trovato una testimonianza altissima, nella storia, nel destino di Socrate, e nell’arte.
L’allargamento progressivo della paideia greca nei suoi elementi essenziali all’occidente fu la missione di Roma, la grande intermediaria tra la superiore civiltà greca e i popoli barbarici dell’ovest europeo. La romanizzazione militare e politica dell’oriente ellenistico e la ellenizzazione dell’occidente romano costituiscono le due facce di una stessa medaglia, sono due aspetti simultanei e solidali di un unico processo. L’Europa deve quindi, per tanta parte, la sua esistenza storica, la sua stessa configurazione politica all’opera di Roma.
La consapevolezza di ciò che il mondo civile doveva a Roma divenne assai acuta e trovò espressioni commoventi proprio quando nel V secolo d.C., il processo di decadenza toccò l’apice. «Roma sola accolse i vinti nel suo seno e abbracciò il genere umano sotto un sol nome» canta Claudiano nel “De consolatu Stilichonis” e i cristiani Ambrogio, Onorio, Prudenzio, Agostino danno un significato ancor più ampio al concetto dell’universale missione di Roma, ponendolo in organico rapporto con gli ideali della nuova religione.
Il terzo grande influsso formatore della coscienza europea è rappresentato dal cristianesimo e dal suo tramite storico, la chiesa cattolica, che ha in Roma ben presto il suo centro di unità, di collegamento e di propulsione. L’influsso del cristianesimo sulla formazione dell’unità morale e religiosa dell’Europa è notevole esempio del modo come il corso dello sviluppo storico viene modificato dall’intervento di una nuova forza spirituale. La chiesa, il «secondo Israele», del primo Israele accoglieva l’alto messaggio e lo immetteva nel mondo greco-romano, nel momento stesso in cui rompeva con l’intransigenza nazionalistica del giudaismo e assumeva in proprio l’universalismo cristiano.
Il cattolicesimo, sin dai primordi, a cominciare dal filosofo Giustino e dal vescovo Ireneo, non si lasciò imprigionare da un tradizionalismo ottuso, troppo legato all’Antico Testamento, e rifiutò la superficiale razionalizzazione del cristianesimo (rischio sempre ricorrente, da Ario a Lessing, da Feuerbach a Bloch). Nacque così un pensiero filosofico e teologico di schietta ispirazione cristiana, capace di recuperare per intero il patrimonio di verità presente nel mondo greco, e avente in sé tale unità e forza da costituire il lievito di ogni sviluppo futuro, l’insostituibile punto di riferimento di ogni idea, di ogni concezione della vita; come riconobbe Benedetto Croce nel celebre saggio “Perché non possiamo non dirci cristiani” (in «La Critica», 1942, pp. 289 e segg.). La novità cristiana, mentre rivelava Dio all’uomo, rivelava l’uomo a se stesso e la persona acquistava un nuovo e più alto valore ai propri occhi, guadagnando su tutti i problemi fondamentali della vita un orizzonte chiuso persino ai geni filosofici dell’Ellade. «E così – nota il Dawson – quando l’impero d’occidente rovinò davanti ai barbari, la chiesa non venne coinvolta nella sua rovina. Era diventata una istituzione autonoma che possedeva il suo principio di unità e i suoi propri organi di autorità sociale. Essa era in grado di diventare contemporaneamente l’erede e rappresentante dell’antica cultura romana e la guida dei nuovi popoli barbari» (La nascita dell’Europa, Torino, Einaudi, 1959, p. 50). Pensatori come Agostino di Tagaste, santi come Benedetto da Norcia, papi come Gregorio Magno, vissuti in epoche di universale rovina, gettarono le fondamenta della nuova Europa: nella decadenza generale essi fecero della chiesa cattolica il centro di riorganizzazione delle forze della vita. I barbari germanici dettero all’Europa l’elemento etnico nuovo da cui sarebbero sorti i futuri popoli europei. Convertendo i barbari a Cristo, la chiesa li immise nel circuito della civiltà e così incorporò quelle gentes all’Europa. Strumenti mirabili di un’opera così vasta, che si prolunga per secoli, furono il papato e il monachesimo. L’avanguardia tenace ed eroica della evangelizzazione dell’Europa barbarica fu costituita dagli anglo-irlandesi, che nell’VIII secolo pervennero ad un incontrastato primato di servizio. Fu uno di loro, san Bonifacio di Crediton, trucidato dai frisoni nel 754, il grande riformatore della chiesa franca e insieme l’apostolo della Germania, il fondatore della chiesa tedesca medioevale, colui che portò la fede di Cristo nel verde cuore della Germania, cioè nell’Assia e nella Turingia. Per opera di san Bonifacio, la Germania cominciò a diventare un membro vivente della società europea a tal punto che nel 961 con Ottone I assunse addirittura la leadership del continente. Verso la fine del secolo X e agli inizi del secolo XI, anche il nord vichingo e normanno è cristianizzato. Nel 1026 il pellegrinaggio di Canuto il Grande a Roma attestava l’incorporazione dei popoli nordici alla cristianità e l’Europa si allargava finalmente alle inviolate regioni del nord. In quello stesso tempo, mille anni fa, pervenendo alla fede cattolica si danno coscienza di popolo e convengono in qualche modo in unità politica i piccoli slavi di Polonia e di Boemia e gli ungheresi. È la missione dei «santi coronati» Ladislao, Venceslao, Stefano, iniziatori per i loro popoli di una storia nazionale post-barbarica. Grazie alla loro opera emerge la nuova realtà dell’Europa orientale. Dal punto di vista etnico l’Europa aveva trovato il suo definitivo assestamento: i popoli europei sono ancora oggi quelli che entrarono a far parte della civiltà europea intorno al mille.
Gli sviluppi successivi della storia del nostro continente – in un intreccio di miseria e grandezza, di oblii e di rinnovata consapevolezza dei valori che fondano e caratterizzano la nostra civiltà – attestano che «L’Europa è stata unita culturalmente e spiritualmente anche nelle epoche di maggiore divisione politica e statuale» (D. A. Seeber). Le grandi università medioevali, l’umanesimo filosofico e teologico del XIII secolo, con Tommaso e Bonaventura, l’umanesimo rinascimentale di Pico, di Ficino, di Erasmo, di Moro, sono fatti di straordinaria eloquenza e rappresentano un patrimonio comune di idee e di aspirazioni. L’emergenza degli stati nazionali e la bella fecondità delle letterature nazionali non cancellano per sé la comunanza delle origini, delle fonti d’ispirazione, degli stessi parametri morali e religiosi. Dante non sarebbe nemmeno concepibile senza Virgilio e senza Francesco d’Assisi, senza Tommaso d’Aquino e Petrarca non s’intenderebbe prescindendo da Agostino e da Cicerone. Il senso di appartenenza a una patria più ampia, all’Europa, non si spezza neppure con la frattura religiosa fra il protestantesimo e il cattolicesimo. L’Europa come società degli spiriti, fu fermamente sentita nel Seicento e nel Settecento. Fu l’Europa degli artisti, dei letterati, dei giuristi, degli scienziati, dei filosofi, delle accademie: l’Europa degli scambi culturali, del confronto critico, dell’integrazione di apporti multiformi e tuttavia cospiranti a costruire una comune e più alta civiltà. L’illuminismo avvertì l’importanza di un simile compito, ma fraintese grossolanamente un’epoca intera della storia dell’Europa, il medioevo, e, ancor peggio, uno degli apporti decisivi senza di cui l’Europa non sarebbe: il cristianesimo. Il romanticismo e la storiografia dell’Ottocento e del Novecento apportarono le necessarie variazioni alla visione illuministica.
Giornale di Brescia, 17 ottobre 1980.