La nascita di una nuova filosofia

  1. LA MERAVIGLIA E LA PROTESTA

Non c’è grande pensiero, che non sembri creare un mondo nuovo (1), che non conferisca una potenza evocatrice a termini che designano un’esperienza, su cui prima non s’era riflettuto abbastanza, dilatandone infinitamente il significato. La filosofia nasce sempre da un atto di meraviglia, come ben videro Platone e Aristotele (2), ma anche – e l’aggiunta è di Bergson – da un’appassionata protesta. La protesta di Bergson si levò contro impostazioni e pregiudiziali metodologiche che ai suoi occhi mutilavano la realtà, negando conoscibilità e valore a quei fatti d’esperienza verso i quali scattava una sorta di implacabile divieto di indagine.

Che cosa ha suscitato in Bergson quello stupore, da cui germina ogni autentica interrogazione filosofica, e contro che cosa egli ha protestato, dalla prima all’ultima opera, durante la sua vita (3)? Quando Bergson si era formato e negli anni del suo insegnamento secondario, il positivismo trionfava. Era ormai opinione diffusa che l’unico sapere «positivo» possibile fosse quello scientifico e che le sole discipline filosofiche legittimate a esistere fossero l’epistemologia – che indaga sul metodo con cui si costruisce la scienza, sui rapporti tra le scienze e sui criteri di una loro classificazione – e la sociologia, le cui conoscenze sono indispensabili per organizzare scientificamente l’umanità. Comte nella prima metà dell’Ottocento aveva impresso nella cultura e nell’opinione pubblica un vigoroso impulso in quella direzione; ma nella seconda metà del secolo quell’orientamento si era trasformato in una sorta di idolatria della scienza fisico-matematica e del meccanicismo, a cui si attribuiva carattere di assolutezza ed estensione universale. Una siffatta mentalità divenne pervasiva di tutto e i francesi per designarla coniarono un termine, scientisme (scientismo), quasi a significare – ma a provarlo sarebbe stato proprio Bergson – che la scienza sta allo scientismo, che ne è l’enfatizzazione fanatica, come l’arte autentica sta a quella malattia dello spirito che è l’estetismo. Il pensatore che meglio rappresentò quella forma mentis fu il Taine, per il quale tutti i fatti, e quindi anche i fatti di coscienza, non sono qualitativamente diversi fra loro, perché tutti determinati da un’unica legge, la legge della causalità meccanica. «C’è una causa per l’ambizione, il coraggio, la franchezza come per la digestione, il movimento muscolare e il calore animale. Il vizio e la virtù – scrive testualmente il Taine – sono prodotti come il vetriolo e lo zucchero». Il positivismo inglese, soprattutto con i suoi due maggiori esponenti, Herbert Spencer e John Stuart Mill, rifuggiva da impostazioni così grossolane. Per costoro noi non conosciamo né l’origine prima dell’universo, né il destino che attende l’uomo; e tale .segreto rimane inconoscibile: la metafisica è impossibile e occorre pertanto rinunciarvi. La loro rinuncia agnostica suona, però, come atto di rispetto e di riserbo, se paragonata con la negazione irridente dei Comte, dei Taine e soprattutto dei loro discepoli, che erano legione nelle università, nelle scuole di ogni ordine e grado, nella pubblicistica e nelle più diverse forme di comunicazione culturale.

A Bergson toccherà misurarsi con i presupposti che, malgrado le significative differenze, erano comuni a Spencer e a Taine; ma ciò che prepara e accompagna la ricostruzione filosofica intrapresa dal pensatore francese rimane l’esperienza, sempre presente nella sua coscienza e incessantemente approfondita, di ciò che era negato, o semplicemente ignorato dalle correnti filosofiche e culturali che occupavano quasi per intero la scena. È l’esperienza del perpetuo sbocciare della vita, dell’imprevedibile novità che si manifesta incessantemente nell’universo; della parziale, e qualche volta totale, non-coincidenza fra gli inizi e gli esiti, fra le cause e gli effetti, fra le mie rappresentazioni e l’avvenimento che si produce in me o davanti ai miei occhi, fra quello che attendo e quello che mi sarà dato. È la presenza, data a ognuno di noi in un arcobaleno di sfumature, della «qualità», e dunque della diversità, che la scienza disdegna a vantaggio del numero, non ritenendo dei fenomeni che gli aspetti quantitativi, anche se è la qualità che impreziosisce la vita e ne rivela la realtà sostanziale. Il reale, infatti, è sempre colorato, odorante e sonoro, resiste o cede alla pressione della mano. Ogni esistente ha qualcosa di incomparabile che fa la sua individualità. La qualità del reale è, dunque, il suo valore ed è offerta alla sensibilità di ognuno, dell’ignorante come del dotto, del bambino, che ne accoglie spontaneamente l’incanto, e dell’artista, che tenta di captare ed esprimere nel suo linguaggio la commozione che essa gli apporta (4).

La nuova filosofia rivendica, come mai prima era accaduto, la realtà sostanziale del divenire e del tempo, in cui gli esseri sono e trovano la loro consistenza. La polemica, che attraversa l’intera opera di Bergson, è diretta pertanto nei confronti di tutto ciò che nega, o svilisce, il divenire e il tempo, rendendo così del tutto inspiegabili lo zampillío di novità, il rilievo della qualità, la creazione continua, l’azione libera, l’esercizio della responsabilità, le invenzioni dell’eroismo morale e della santità. Gli uomini sperimentano fuori di ogni dubbio che tutto è nel mutamento e tuttavia, anche se in forme diverse, per ragioni pratiche o per bisogno di sicurezza, nel linguaggio corrente e perfino in quello della speculazione filosofica, si sforzano continuamente di abolirlo. È impressionante come riesca facile al pensiero snaturare il tempo riducendolo a spazio, distruggere la diversità percepita a vantaggio di un’identità astrattamente pensata, estinguere le differenze, cancellare la qualità per ridurla a quantità omogenea e a misura. Lo scandalo che Bergson non cesserà mai di denunciare è che il tempo sia apparso appunto uno scandalo per il pensiero, quasi fosse il luogo dove le cose non possono essere mai afferrate perché non sono mai compiute, un qualcosa che è lì solo per attestare una sorta di deficit. Per venticinque secoli, a partire da Parmenide e da Zenone di Elea, la concezione stazionaria ed eternista dell’essere ha avuto nettamente la meglio, anche se non professata apertamente e incorporata in sistemi di pensiero molto diversi fra loro.

La presa di posizione di Bergson diventa sempre più esplicita: il mutamento e il tempo non sono parvenze ingannevoli, qualcosa che concerne l’imperfetto (Aristotele diceva «il mondo sub-lunare»), il non-essere piuttosto che l’essere. È ora di sottrarsi al fascino della celebre sentenza che Platone formula «nel suo magnifico linguaggio» (L’Évolution créatrice, Oeuvres 1970, Édition du Centenaire, 763) e che sarà ripresa da Plotino: «il tempo è un’immagine mobile dell’eternità» (Timeo, 37 a). Sentenza secondo la quale è l’eternità il modello e il tempo ne è l’immagine evanescente e quasi inconsistente. L’idea fissa secondo cui c’è più nell’immobile che nel diveniente, e si passa dal primo al secondo per una caduta o per una diminuzione di essere, è uno degli archetipi della mentalità antica da cui l’umanità non si è mai del tutto liberata. La filosofia di Bergson sarà una sorta di rigorosa psicanalisi di queste credenze collettive divenute presupposti pseudo-metafisici. La nuova filosofia si presenta, dunque, come un rovesciamento della concezione tradizionale, non per una sorta di antitesi dialettica, ma solo perché, invece di dissolvere il mutamento e il tempo, essa mira a insediarci nell’uno e nell’altro per meglio afferrare come gli esseri diventano quello che sono. Filosofare significa, allora, scongelare gli esseri dalla loro falsa immobilità e mettersi in grado di ascoltare, per così dire, il fluire della realtà.

2. IL MUTAMENTO DECISIVO

  1. L’addio a Spencer: il tempo della scienza fisico-matematica non è reale, ma fittizio.

La riflessione, semplicissima e originale, che suscitò «grande stupore» in Bergson e dette il primo avvio al «mutamento», fu la seguente: «Se tutti i movimenti dell’universo si producessero due o tre volte più rapidamente, non ci sarebbe nulla da modificare né nelle nostre formule, né nei numeri che noi vi facciamo entrare» (Essai sul les donnés immédiates de la conscience, Oeuvres 77-78). Al limite, se una rapidità infinita racchiudesse il successivo nell’istantaneo, nessuna formula scientifica sarebbe modificata. Che cosa sta a significare un’ipotesi del genere? Ha ventidue anni Bergson, quando lascia la Scuola Normale e va ad Angers, a insegnare filosofia nel Liceo di quella cittadina. Ad Angers si ferma due anni. Molto tempo dopo, rispondendo ad una lettera del pensatore statunitense William James, che gli aveva scritto per chiedergli qualche informazione biografica, dovendo preparare una conferenza sulla sua opera, il filosofo francese spiega in poche righe come egli vedesse allora la storia del suo spirito: «Per quanto riguarda avvenimenti notevoli, non ve ne sono stati nella mia vita. Ma, soggettivamente, non posso impedirmi di attribuire una grande importanza al mutamento sopravvenuto nel mio modo di pensare durante i due anni che seguirono alla mia uscita dalla Scuola Normale, dal 1881 al 1883». La lettera prosegue chiarendo in che cosa consiste tale «mutamento totale» e quale ne fu l’occasione. «Fino ad allora ero rimasto del tutto imbevuto delle teorie meccanicistiche alle quali ero giunto assai presto grazie alla lettura di Herbert Spencer, il filosofo al quale aderivo senza riserve. Mia intenzione era di consacrarmi a ciò che allora si chiamava la filosofia delle scienze; a tal fine avevo intrapreso, alla mia uscita alla Normale, l’esame di qualche nozione scientifica fondamentale. Fu l’analisi della nozione di tempo, così come interviene in meccanica o in fisica, che scompigliò tutte le mie idee. Mi accorsi con mio grande stupore che il tempo scientifico non dura, che non vi sarebbe stato nulla da mutare per la nostra conoscenza scientifica delle cose se la totalità del reale fosse spiegata d’un tratto, in un istante, e che la scienza positiva consiste essenzialmente nella eliminazione della durata. Questo fu il punto di partenza di una serie di meditazioni che mi portarono progressivamente a respingere quasi tutto ciò che avevo accettato fino ad allora e a mutare totalmente il mio punto di vista» (Écrits et paroles II, 1957-1959, 294-95 – Lettera del 9 maggio 1908). Se una delle nozioni scientifiche fondamentali è quella di tempo, e se l’analisi del tempo della scienza fisico-matematica mostra che esso è indifferente ed estraneo al mutamento reale, attestato invece in modo irrefutabile dalla vita della coscienza, ebbene allora si deve concludere che il fatto di cui noi siamo meglio garantiti è incontestabilmente la realtà del nostro io cosciente, la nostra coscienza, per la quale il tempo è una realtà sperimentata e la parola esistere significa appunto continuità e novità di durata nel mutamento. Il tempo vissuto è la nostra «durata reale» (durée réelle), che si può cogliere solo là dove è vissuta, cioè nella coscienza.

In precedenza, rispondendo a una lettera di Giovanni Papini, Bergson aveva sottolineato che il «mutamento» non era stato affatto un coup de foudre: «Fu gradatamente che passai dal punto di vista matematico e meccanico, in cui mi ero posto prima, al punto di vista psicologico. Da queste riflessioni è nato il Saggio sui dati immediati della coscienza in cui cercai di praticare un’introspezione assolutamente diretta e di cogliere la durata pura» (ibid. I, 204 – Lettera del 4 ottobre 1903). Il Saggio è, infatti, l’elaborazione e la stesura, avvenuta tra il 1883 e il 1887, a Clermont-Ferrand, di quelle considerazioni sul tempo scientifico che si affacciarono allo spirito di Bergson nel biennio di Angers, segnando la nascita di una filosofia nuova (5).

2. La fine dell’età cartesiana: la nuova alleanza tra filosofia e scienze della vita.

Alla mente del giovane filosofo apparve sempre più evento di straordinario significato che nel secolo XIX, che volgeva ormai alla fine, fossero sorte, e tendessero a darsi uno statuto epistemologico, la biologia, la psicologia e la sociologia, cioè scienze che osservano e sperimentano servendosi della matematica, ma senza il segreto pensiero che l’intelligibilità di ogni livello di realtà sia esclusivamente di tipo matematico.

Bergson comprese che sotto i suoi occhi si stava svolgendo la seconda rivoluzione scientifica – dopo la prima di Galilei, Cartesio e Newton – con lo sviluppo impetuoso della biologia, della psicologia e della sociologia. Sviluppo che metteva, però, in evidenza le idee di probabilità e di discontinuità, l’irriducibilità di ogni tipo di fenomeni vitali a ciò che sembra prepararli; quelle scienze nuove, inoltre, come aveva ben visto Boutroux, provavano nei loro rispettivi campi la contingenza delle leggi. Infatti più un fenomeno è complesso e si presenta sotto un aspetto preciso e determinato, meno è soggetto a necessità. A mano a mano che saliamo nella scala delle scienze, dalla logica e dalla matematica fino alla psicologia, noi troviamo più libertà: la ripetizione dell’identico, l’omogeneo e il necessario che regnano incontrastati solo nell’astratto, si manifestano, certamente, anche nei viventi, ma solo alla superficie. Le nuove scienze, dunque, facevano scricchiolare il presupposto meccanicistico, cioè uno schema arbitrariamente esteso da una parte della fisica, la meccanica, dove assolve una sua funzione, a tutto il reale, e a ogni conoscenza scientifica di esso, compreso l’uomo nelle molteplici forme della sua attività.

In una filosofia che vuol essere pensiero della vita, sforzo continuo e progressivo in unione a tutti coloro che intendono associarsi nel rispetto dell’esperienza, pensare non significa portare a esecuzione un progetto delineato sin dall’inizio, come se si trattasse di un mosaico o di un puzzle da comporre mediante tessere già esistenti; non vi sono catene di concetti da «dedurre», né verità precostituite alla ricerca stessa e tanto meno verità da «costruire» in vista di un sistema che ci dia l’«intero della vita». Alla esaltante ebbrezza dei sistemi, delle costruzioni meccaniche o dialettiche, bisogna finalmente opporre una lucida sobrietà, ossia lo sforzo incessante di stare ai fatti e ragionare sui fatti. Se perverremo ad afferrare qualcosa del tutto, ciò non sarà possibile che attraverso la messa a fuoco e l’approfondimento di un problema, e di un solo problema per volta. Questa è la sollecitazione che viene alla filosofia anche dalle scienze della vita, le quali sono lì a provare, con la loro stessa esistenza, che all’evidenza di tipo matematico si aggiunge adesso quella dei fatti esattamente stabiliti. Occorre fare finalmente, osserva Bergson, non quello che Cartesio fece nel suo tempo, ma ciò che avrebbe fatto nel nostro «dinanzi a una scienza più flessibile, nutrita di un’esperienza più vasta e disposta ad ammettere nei fenomeni della natura una complessità di organizzazione che non si può ridurre senza disagio al meccanicismo matematico» (Il parallelismo ecc., ora in Écrits et paroles 1, 141). Di qui l’ardita scelta di Bergson: «Occorre rompere i quadri matematici, tener conto delle scienze biologiche, psicologiche e sociologiche, e su questa più vasta base edificare una metafisica capace di salire sempre più in alto mediante lo sforzo continuo, progressivo, organizzato, di tutti i filosofi associati nello stesso rispetto dell’esperienza» (ibid., 153). La storia impone oggi una rottura dell’alleanza, conclusa da Platone e rinnovata da Cartesio, tra metafisica e matematica e, al suo posto, l’avvento dell’alleanza tra metafisica e scienze della vita. Questa è una di quelle idee di fondo che illuminano il significato storico del bergsonismo.

3. ZENONE DI ELEA, O L’INSOSTENIBILITÀ DELL’IMMOBILISMO

Due sono le strade attraverso le quali Bergson giunge a ritrovare il valore del tempo. La prima è, come s’è visto, la lettura critica dei Primi principi di Spencer, da cui trae origine la ricerca sul tempo della scienza; la seconda gli è offerta, per così dire, dall’insegnamento della filosofia. Bergson racconta all’amico Charles Du Bos (6) che nel 1884, dovendo tenere ai suoi allievi di Clermont Ferrand una lezione sugli argomenti di Zenone, vide con chiarezza l’insostenibilità della tesi centrale dell’eleatismo, che nega il divenire reale e quindi il tempo. Ebbene, quella negazione attraversa, in modo ora esplicito ora sotterraneo, non solo la filosofia greca, ma tanta parte del pensiero moderno e contemporaneo. Per liberare l’Occidente da Parmenide occorre, dunque, misurarsi con i paradossi di Zenone (7).

Il ragionamento di Zenone è semplice: ove si supponga che lo spazio e il tempo siano divisibili all’infinito, non si dà movimento. Per raggiungere il termine bisogna, infatti, che l’oggetto mobile arrivi a metà della corsa; ma vi sarà sempre, in uno spazio pensato come divisibile all’infinito, una metà della metà, e poi ancora una metà della metà, e così via. È il cosiddetto argomento della «dicotomia», o divisione in due, su cui in realtà poggiano gli altri, che di quello sono nulla più che esemplificazioni. Gli Eleati, insomma, riducono il movimento a una traiettoria divisibile all’infinito; ma se è così, l’oggetto mobile è tale solo in apparenza, perché noi siamo costretti a pensarlo immobile rispetto alla particella di spazio che esso occupa in ogni determinato istante. È del tutto impossibile, infatti, spiegare il movimento addizionando posizioni immobili. In ogni caso, dal punto di vista del pensatore eleate, neppure l’intervallo che separi un punto dall’altro sarà mai superato in quanto anch’esso è divisibile all’infinito. Achille raggiunge d’un balzo il punto in cui era la tartaruga, ma gli occorre fare ancora un passo per raggiungere il punto in cui essa si è portata mentre egli faceva il primo, e così di seguito, all’infinito. Ne consegue che «il pié veloce» per antonomasia non raggiungerà mai la lentissima tartaruga. Parimenti, se una freccia scoccata dall’arco è in ogni istante in un punto dato, ciò vuol dire che rispetto a quel punto è ferma; immobile in ciascun punto della traiettoria, essa è, pertanto, immobile durante tutto il tempo del suo …movimento. Il risultato a cui perviene Zenone è coerente ai presupposti eleatici che negano il divenire; ma è l’assunzione di quei presupposti che per Bergson è del tutto contraria all’esperienza, al buon senso e alla ragione.

Bergson affronta per la prima volta i sofismi di Zenone esplicitamente nel secondo capitolo del Saggio. Sfugge a Zenone e anche ai suoi critici – osserva Bergson – che ci sono due elementi da distinguere nel movimento: da un lato c’è lo spazio percorso, dall’altro c’è l’atto con il quale lo si percorre, e c’è pure la sintesi, operata dalla nostra coscienza, delle posizioni successive per le quali il mobile è passato: «una sintesi per così dire qualitativa, un’organizzazione graduale delle nostre sensazioni successive con le altre» (Essai sul les donnés immédiates de la conscience, Oeuvres 74). Ebbene, «il primo di questi elementi è una quantità omogenea, il secondo non ha realtà che nella nostra coscienza ed è, pertanto, una qualità, o se si vuole un’intensità» (ibid., 75). Nel nostro modo di pensare, invece, e ancor più nel linguaggio, si verifica una mescolanza tra la rappresentazione estensiva dello spazio percorso e la percezione intensiva del movimento. In tal modo «noi attribuiamo al movimento la divisibilità dello spazio che percorre, dimenticando che si può dividere una cosa, non un atto» (ibid.). L’«illusione degli Eleati» dipende dall’aver essi identificato un atto indivisibile come il movimento con lo spazio omogeneo che gli è sotteso, e quindi la successione con la simultaneità, la durata con l’estensione, la qualità con la quantità (ibid., 156). E l’illusione, si badi, non è solo un errore: è una maniera abitualmente sbagliata di vedere le cose. La scienza, che opera di continuo con le nozioni di tempo e di spazio, si è resa conto della «illusione degli Eleati»? Niente affatto – risponde Bergson. «La scienza non opera sul tempo e sul movimento se non a condizione di eliminare prima di tutto l’elemento essenziale e qualitativo: dal tempo la durata, e dal movimento la mobilità» (ibid., 77). Con questa affermazione l’Autore del Saggio collega esplicitamente la critica del tempo fisico-matematico di Spencer e la confutazione dei paradossi di Zenone. L’una e l’altra, in effetti, pur riguardando due momenti molto lontani fra loro nella storia del pensiero, colpiscono un unico bersaglio, un unico pregiudizio: la confusione tra il tempo e lo spazio.

In Materia e memoria, nel quarto capitolo, rivolgendosi idealmente ai maestri e ai seguaci dell’eleatismo, Bergson scrive: «Voi sostituite la traiettoria al tragitto, e poiché il tragitto ha sottesa la traiettoria, credete che coincida con essa. Ma come potrebbe coincidere un progresso con una cosa, un movimento con un’immobilità?» (Matière et mémoire, Oeuvres 325). Si consideri, ad esempio, il tragitto della mia mano da A in B. Esso è dato alla mia coscienza come un tutto indiviso. Ma dal momento che descrive nello spazio una traiettoria, che posso rappresentarmi come una linea geometrica, per una sorta di simmetria io sono portato a dividere in parti separate, che chiamo istanti, anche il movimento e il tempo che lo misura, in corrispondenza della traiettoria e dei suoi punti. Si può, dunque, affermare che «il movimento immediatamente percepito è un fatto molto chiaro e le contraddizioni segnalate dalle scuole di Elea riguardano molto meno il movimento stesso che una riorganizzazione artificiale di esso da parte dello spirito» (ibid., 328-329).

La riflessione sui paradossi di Zenone ritorna nel quarto capitolo dell’Evoluzione creatrice. L’argomento vittorioso è riformulato con la massima chiarezza possibile. Al movimento, una volta effettuato, ha depositato lungo il tragitto una traiettoria pensata come immobile, sul conto della quale si possono contare tante stazioni quante se ne vorrà (8). Di là se ne conclude che il movimento, anche quando è in via di effettuazione, depone in ogni istante al di sotto di sé una posizione con la quale viene a coincidere. Zenone non vede che se si può dividere a volontà la traiettoria, una volta che sia stata prodotta, non si saprebbe dividere il suo prodursi, che è un atto in progresso e non una cosa» (L’Évolution créatrice, Oeuvres 756). L’Eleate, in fondo, fa leva su una pretesa assurda, ma profondamente radicata nella nostra intelligenza: «fabbricare una transizione con degli stati», «con ciò che è fatto ricostruire ciò che si fa» (avec ce qui est fait reconstituer ce qui se fait, ibid., .759). Noi ci esprimiamo necessariamente con parole e a causa delle immagini spaziali, di cui è intessuto il nostro linguaggio, pensiamo per lo più nello spazio, ossia spazializzando tutto. In questa situazione venne a trovarsi anche la filosofia, fin da quando aprì gli occhi (ibid., 755), e si può dire che in ciò consiste il suo peccato d’origine.

Insomma, l’eleatismo come filosofia professata è morto, anche se non mancano isolati pensatori «neo-parmenidei», ma esso «domina in una specie di subconscio metafisico», come dice acutamente il Gouhier, («Introduzione» alle Oeuvres bergsoniane, Édition du Centenaire, PUF, 1959, 19702, XV), perché in un certo senso la nostra intelligenza lo secerne naturalmente. Questo spiega perché la critica degli argomenti di Zenone ritorna per oltre vent’anni – dal Saggio, che è del 1889, alla conferenza La percezione del cambiamento, tenuta nel 1911 – allo stesso modo di un tema musicale. Bergson ha conferito a quel pensatore del V secolo a.C. il ruolo di contrapposizione semantica estrema nei confronti della prospettiva che egli andava elaborando. Forse, però, il posto curiosamente importante che occupa Zenone di Elea nel bergsonismo ha anche il valore di segnale. Bergson è ben consapevole di ciò che l’umanità pensante deve ai greci e ai latini (profonda è la sua ammirazione specialmente per Socrate, Platone e Plotino); ma egli si rifiuta di essere iscritto all’una o all’altra scuola della filosofia classica, rispetto alla quale fin dall’inizio si pone in un rapporto che non è di dipendenza e neppure di continuità, marcando anzi i punti di rottura sia sul piano metodologico, sia su quello metafisico (9).

NOTE

1- Bergson apparve ben presto come l’esploratore di un mondo nuovo, reale e tuttavia nascosto ai più. Questo aspetto è messo bene in evidenza da un altro maestro del pensiero contemporaneo, Louis Lavelle. «Alcuni spiriti – scrive Lavelle – possiedono una potenza misteriosa d’irradiazione; sin dal primo incontro essi c’imprimono una specie di marchio, che scuote la nostra vita segreta, sospende tutte le nostre preoccupazioni particolari, e c’invita a penetrare in un mondo più luminoso e più puro, dove le cose perdono il loro peso, e ricevono una trasparenza spirituale. Henri Bergson era uno di questi spiriti privilegiati; quasi tutti gli uomini della nostra generazione hanno ceduto al suo influsso sottile, che si è esercitato su di loro come un fascino. Essi ricordano quelle lezioni di filosofia, in cui era loro insegnato il mondo interiore. Bergson è uno dei rari filosofi, che la gloria abbia visitati; ma essa l’avvolse nel suo splendore senza mai penetrare sin nell’intimo dei suo pensiero, senza mai ottenere da lui il minimo compiacimento a risponderle. Le sue lezioni avevano conosciuto una volta un successo senza pari; ma quel successo non sembrava giungere sino a lui, egli ne rimaneva assente: si accontentava di seguire i moti intimi del proprio spirito con una perfetta e inflessibile docilità, senza lasciare nell’ombra nessuna difficoltà, senza risparmiare all’uditorio nessuna sottigliezza. Essendo egli tutto intero attento a se stesso, né gli sguardi rivolti verso di lui, né l’aspettazione che faceva nascere, né la risposta oscura di tante coscienze, alle quali apriva un orizzonte sconosciuto e tuttavia familiare, lo deviavano dal suo vero cammino. Nessuno era più solitario in un’intimità, ch’egli concedeva a tutti» (La filosofia francese tra le due guerre 1918-1940, trad.it. Morcelliana, Brescia, 1949, pp. 51-53 passim).

2- Scrive Platone nel Teeteto: «L’uomo è l’unico animale che ha lo stupore di esistere» (155 d). Gli fa eco Aristotele nella Metafisica: «Gli uomini furono mossi a filosofare, allora [alle origini] come ora, dalla meraviglia» (I, 2, 982 6 14). Tommaso d’Aquino chiosa con grande finezza: «Il motivo per cui il filosofo è vicino al poeta è questo: l’uno e l’altro hanno a che fare con ciò che desta stupore» (Commento alla Metafisica di Aristotele 1, 3).

3- Jean de La Harpe riporta quest’affermazione di Bergson: «I miei libri sono sempre stati l’espressione di un malcontento, di una protesta» e aggiunge: «Lo disse con un tono quasi veemente» (J. de La Harpe, Souvenirs personnels d’un entretien avec Bergson, in Henri Bergson, Èd. La Baconnière, Neuchâtel, 1942). Georges Davy osserva giustamente che i titoli dei libri di Bergson sono già di per sé una «sfida» (H. Bergson 1859-1941, estratto dalla «Revue Universitaire», 1941, nn. 4-5, p. 5). Nella seconda parte dell’Introduzione a Il pensiero e il diveniente Bergson scrive: «Tutta la nostra attività filosofica fu una protesta». Contro che cosa? Contro le soluzioni verbali, i giochi dialettici, il deduttivismo matematico trasposto sul terreno filosofico (La pensée et le mouvant, Oeuvres 1330).

4- «Bergson confessava che il sentimento più costante e più profondo che egli provava era precisamente quello della novità permanente della realtà, che per lui dava alle cose più familiari una giovinezza continuamente risuscitata» (L. Lavelle, op. cit., p. 57).

5- Delle implicazioni della «svolta» imboccata Bergson sarebbe divenuto pienamente consapevole solo in progresso di tempo, gradualmente. A veder bene essa comportava un distacco non solo dal «falso» evoluzionismo di Spencer e dall’immobilismo di Zenone d’Elea, ma anche dal matematismo universale platonico-cartesiano. Come Cartesio, anche Bergson voleva «una filosofia scientificamente stabilita», ma non condivideva il programma cartesiano tendente a fare di una scienza, la matematica, la madre e l’archetipo di tutte le scienze, il «metodo per ben condurre la ragione a cercare la verità nelle scienze», come è detto nel titolo stesso del Discorso del metodo. Pur ammirando il genio di Cartesio, Bergson, che peraltro era stato da giovane fortemente attratto dagli studi matematici, non condivide del suo sistema né i presupposti dommatici (assolutezza eterna delle verità matematiche, innatismo, determinismo meccanicistico, dualismo), né la filosofia della natura. Un mondo che fosse «pura estensione diversificata dal movimento» sarebbe un universo non abitato in alcun modo dalla qualità e, dunque, deserto di bellezza.

6- Nel suo diario Charles Du Bos racconta, in data 22 febbraio 1922, quanto gli disse Bergson in occasione di una sua visita al filosofo. Quando Bergson studiava all’università, la cultura filosofica si divideva in due campi: quello, assai più numeroso, secondo cui Kant aveva posto i problemi nella loro forma definitiva, e quello che si allineava sull’evoluzionismo di Spencer. «lo appartenevo a questo secondo gruppo – confida Bergson all’amico-. Mi rendo conto oggi che ciò che mi attirava in Spencer era il carattere concreto del suo spirito, il suo desiderio di ricondurre lo spirito sul terreno dei fatti. A poco a poco, abbandonai uno dopo l’altra tutte le sue vedute; tuttavia fu molto più tardi, nell’Evoluzione creatrice, che io presi pienamente coscienza del lato del tutto fittizio dell’evoluzionismo spenceriano. All’inizio del mio soggiorno a Clermont-Ferrand, negli anni 1883 – 1884, ciò che mi fermarono furono i capitoli dei Primi principi, sulle nozioni fondamentali, in particolare su quella di tempo… Mi resi conto allora che l’idea di tempo, com’era comunemente intesa, metteva capo a difficoltà insormontabili. Io vedevo che il tempo non poteva essere quello che si diceva, ma non vedevo ancora chiaramente che cosa fosse. Questo fu il punto di partenza, ancora troppo vago… Cominciai a vedere più nettamente in quale direzione occorreva cercare un giorno mentre spiegavo ai miei studenti, alla lavagna, i sofismi di Zenone…» (Journal 1922-23, Corréa, Parigi, 1946). Il resoconto della conversazione tra il Du Bos e Bergson è ampiamente riportato in Oeuvres, pp. 1541-1543.

7- Zenone di Elea nacque, appunto, a Elea, che sorgeva nella Magna Grecia, in Campania, verso la fine del VI secolo a.C., o all’inizio del V. Concittadino e discepolo di Parmenide, quasi certamente gli succedette nella direzione della scuola. Dal dialogo platonico Parmenide si desume che in giovinezza scrisse un libro in cui illustrava i suoi argomenti contro il movimento e quelli, meno noti, contro la molteplicità. Avendo preso parte a una congiura contro il tiranno Nearco, fu scoperto e imprigionato. Sottoposto a interrogatorio, a chi gli chiedeva i nomi dei complici denunciò sarcasticamente tutti gli amici del tiranno. Tragica la sua fine: fu trafitto mentre cercava di strappare con i denti un orecchio a Nearco, a cui aveva detto di voler confidare certi particolari (Diogene Laerzio, Vita dei filosofi IX, 26; trad. it. in 2 voll. M. Gigante, Laterza, Bari, 1976.

Platone dice di Zenone: «Parlava con un’arte da far sembrare agli uditori le medesime cose nello stesso tempo simili e dissimili, una e molte, immobili e mobili» (Fedro 261 d), collegando così le sottigliezze e i paradossi dell’eleate con i procedimenti dei sofisti. Aristotele considera Zenone il fondatore della dialettica, pur rifiutandone l’immobilismo (Diogene Laerzio, op.cit. VIII, 57 e IX, 25). La dialettica zenoniana contribuì alla formazione delle varie tecniche di argomentazione e al nascere della logica; essa evidenziò, ad esempio, un tipo di dimostrazione, quella che poi sarà detta per assurdo. Sul piano teoretico «la serrata polemica che Zenone condusse contro le apparenze fenomeniche del molteplice e del movimento, dimostrando la loro intrinseca contraddittorietà, doveva togliere strutturalmente qualsiasi possibilità di dare loro una plausibilità anche relativa (anche quella relativa plausibilità che ai fenomeni aveva concesso Parmenide), sicché la doxa doveva risultare sempre e solo fallace». (G. Reale, Storia della filosofia antica, Vita e Pensiero, Milano, 1987, Vol. I, p. 141).

Per i testi di Zenone, per la loro esegesi e, più in generale, per un’informazione complessiva sullo stato della questione si vedano: E. Zeller, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, vol. III Eleati, a cura di G. Reale, trad. it. La Nuova Italia, Firenze, 1967; M. Untersteiner, Zenone, Testimonianze e frammenti, La Nuova Italia, Firenze, 1970.

8- Zenone distende il movimento lungo la linea che esso ha tracciata, la quale in astratto è decomponibile all’infinito in quanto «non ha una sua organizzazione interna» (L’Évolution créatrice, Oeuvres 757).

9- «Sono ben lontano dal credere che i filosofi greci ci abbiano consegnato la verità definitiva. Io stesso ho dedicato cento pagine dell’Evoluzione creatrice a dimostrare che le principali difficoltà teoriche, contro le quali ci dibattiamo ancora oggi, dipendono dal fatto che spesso filosofi e scienziati ritornano, senza rendersene conto, al punto di vista dei Greci. Ma, proprio perché il nostro spirito è ancora impregnato d’ellenismo, noi non possiamo dispensarci dallo studio della filosofia ellenica. Questo è già necessario quando ci si accontenta di filosofare alla maniera dei Greci. Ma è ancora più necessario quando si vuol filosofare altrimenti» (H. Bergson in un intervento sulla Revue de métaphisique et de morale del gennaio 1908, riportato in Mélanges, 757). Occorre ricordare che la rottura di Bergson con la componente ellenica della tradizione filosofica europea non comporta affatto né il misconoscimento del suo valore fondamentale, né la sua esclusione dalla formazione umanistica dei giovani. «Lo spirito classico è propriamente una reazione contro il press’a poco (L’ésprit classique est justement une réaction contre l’à peu près)», dichiara Bergson nel maggio 1922 in una relazione su Gli studi greco-latini e la riforma dell’insegnamento secondario (Mélanges, 1366). In un testo precedente, Fantasmi di viventi e ricerca psichica, del 1913, Bergson afferma che la precisione, il rigore, il bisogno della prova, l’abitudine a distinguere fra ciò che è semplicemente possibile o probabile e ciò che è certo non sono qualità naturali dell’intelligenza e forse non sarebbero mai apparse nel mondo, se non ci fosse stato «in un angolo della Grecia un piccolo popolo al quale il press’a poco non bastava e che perciò inventò la precisione» (L’énergie spirituelle, Oeuvres 877).

NOTA: testo tratto da Henri Bergson, Le due fonti della morale e della religione. Saggio introduttivo, traduzione e commento di Matteo Perrini, La Scuola Editrice, Brescia 1996, pp. 21-27, esaurito.