La pace, un valore universale

“Per dire addio alla guerra non basta dire buon giorno alla pace”. La questione è troppo seria, perché ci si fermi ai sogni velleitari e agli slogans. Il tema della pace non sopporta un approccio banale. Occorre, invece, esplorare della pace le molteplici dimensioni, i diversi coefficienti ed insieme afferrarne il valore universale, il carattere di sfida storica radicale: sfida da affrontare, oggi più che mai, con la più grande lucidità intellettuale e con il più grande coraggio.
Il discorso iniziato con i due precedenti “Quaderni di Humanitas” – Primo: i diritti dell’uomo e Per una cultura della pace – si arricchisce in questo terzo, Dimensioni della pace (Morcelliana, Brescia, 1988, pp.128,) di significativi apporti, perché in essi sono raccolti i testi integrali delle conferenze tenute a Brescia nel III e nel IV Colloquio Internazionale su “Pace, diritti dell’uomo, sviluppo dei popoli” nell’autunno del 1986 e 1987 per iniziativa congiunta del Comune di Brescia e della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.
Sul rapporto “Libertà della cultura e diritti dell’uomo” ha recato la sua testimonianza serena e dolorosa lo scrittore russo Andrej Sinjavskij. Nella disputa interiore fra l’allineamento con il potere e l’arte, Sinjavskij scelse l’arte e non si illuse, neppure per un istante di poter stampare nel suo Paese le sue opere. Individuato come l’autore degli scritti pubblicati col nome di Abram Terz, Sinjavskij fu processato, con l’amico Jurij Daniel, nel febbraio del ’66. Nel suo ultimo libro, Buona Notte! (Garzanti, Milano, 1987), ricorda la decisione presa in quei giorni di dichiararsi colpevole e di non sottomettersi: “No, non mi metterò a rivaleggiare in moralità coi campioni dell’ordine e del potere, rivestiti da una corazza ben più robusta di tutte le idee dubbie ed estemporanee che posso avere io in materia. E continuando interiormente la mia difesa, mi dissi: tu sei scrittore! E tutto il resto non conta! Crepa, ma sii te stesso!” (p.49).

Gorbaciov e l’Urss

Un’analisi penetrante delle speranze suscitate dal nuovo corso di Gorbaciov nell’Urss, e insieme dell’impotenza del sistema sovietico a riformare se stesso ci viene fornita da Leonid Plijusc, anch’egli reduce da un’esperienza allucinante: l’internamento, in piena sanità mentale, in un manicomio, perché dissidente. Nel ’69 aveva preso parte a Mosca alla fondazione del “Gruppo d’iniziativa per la difesa dei diritti dell’uomo nell’Urss”. Nel ’72 viene arrestato, processato e più tardi internato nell’ospedale psichiatrico “speciale” di Dnepropetrovsk. E’ rilasciato nel gennaio del 1976, anche perché da due anni si era sviluppata una campagna internazionale per la sua liberazione. Tra gli “operatori di pace” si è voluto interpellare Peter Gale, l’immunologo statunitense di fama mondiale, che sei giorni dopo l’incidente alla centrale di Chernobyl arrivò a Mosca per assistere i medici sovietici nell’effettuazione di trapianti di midollo osseo su alcune delle persone più colpite dalle radiazioni. L’esperienza di Chernobyl, narrata in prima persona da chi l’ha vissuta così nobilmente, costituisce un documento eccezionale e un monito. Se quel disastro evidenzia, infatti, la limitata capacità mondiale di rispondere ad incidenti di centrali nucleari, chi può mai pensare che ci possa essere una risposta medica ad una guerra termonucleare?
“La prospettiva dell’olocausto nucleare angoscia voi europei. Noi dell’America Latina sperimentiamo l’angoscia di un’altra prospettiva, quella della sopravvivenza giornaliera. Il problema quindi della sopravvivenza della razza umana, si pone per l’Europa non meno che per l’America latina, anche se in modi diversi.” Sono parole di Adolfo Perez Esquivel, l’amico e discepolo di don Helder Camara che ha portato e reso popolare la lotta non violenta in America Latina. E sono parole che colpiscono nel segno, evidenziando icasticamente, pur nella differenza di scenari politici ed economici, l’unità di destino della famiglia umana e, in ultima analisi, l’impossibilità del cosiddetto “primo e secondo mondo” di prescindere, mettendoli tra parentesi o persistendo nella cieca disumanità della logica dello sfruttamento, dai drammatici problemi del “Terzo mondo”.
Anche Abdus Salam è un uomo di fede e un apostolo della non violenza, come Perez Esquivel, ma è anche un eminente scienziato. La teoria della forza elettro-debole, per la quale ebbe il Nobel per la fisica nel ’79, traduce in progetto di ricerca scientifica l’ultimo sogno di Einstein, l’unificazione delle forze fondamentali. Abdus Salam ha dedicato tutte le sue forze al principio dell’unità, nella natura come nella famiglia umana. Lo scienziato pakistano non solo ha consacrato la sua vita alla ricerca, ma ha voluto che il progresso della scienza fosse posto al servizio dello sviluppo dei popoli. Egli ha ideato e realizzato un’impresa ardita e lungimirante, il Centro internazionale di Fisica teorica” di Trieste fondato nel ’64, per evitare che giovani scienziati di talento fossero esposti al rischio che aveva attraversato anche la sua vita: la morte scientifica per isolamento. E a questa finalità è diretta la sua attiva presenza anche negli organismi internazionali delle Nazioni Unite.

La Chiesa cattolica

Tra gli organismi etici, chiamati per loro natura, a far scoprire e realizzare il valore della pace, ci sono le Chiese, e tra esse, la Chiesa cattolica. Alle domande, volutamente provocatorie: “Chiesa, che dici oggi della pace? Chiesa, che fai oggi per la pace?”, ha risposto Roger Etchegaray, il cardinale basco presidente della Commissione “Iustitia et Pax” con accenti di grande schiettezza. La Chiesa non sforna ricette utopistiche e non chiude gli occhi dinanzi alla triste realtà di Caino (“dalla fine della guerra ad oggi è stato calcolato che ci sono stati soltanto sessanta giorni di pace”). Il suo servizio è aprire di continuo un varco alla pace, in ogni concreta situazione storica, disegnando un percorso che gli uomini di buona volontà possono far proprio. La Chiesa lavora per l’etica della dissuasione, perché la misura della ragione trionfi sulla paura e sulla prepotenza. Di qui l’impegno ad appoggiare tutti gli organismi internazionali che possono concorrere a spegnere focolai di guerra. Il cardinale Etchegaray ha ricordato che scongiurare l’olocausto nucleare è urgente, ma occorre anche un impegno internazionale a non vendere più armi ai Paesi poveri e a ridurre drasticamente il debito estero che strangola i Paesi dell’ America Latina e dell’Africa.
Nella difesa dei diritti umani, e in particolare dei perseguitati per motivi di coscienza, da oltre un quarto di secolo, opera con una sua rigorosa metodologia e un impegno generosissimo, che vede in primo piano i giovani di tante nazioni, Amnesty International. La presidente mondiale di Amnesty, l’italiana Franca Sciuto, ha ricordato che la premessa e il paradigma di una così singolare e combattiva associazione è la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo votata il 10 dicembre 1948 – quarant’anni fa – dagli Stati membri delle Nazioni Unite. E’ questo patto comune e solenne che Amnesty assume a fondamento della sua lotta a tutto ciò che porta il sigillo dell’arbitrio. Il cammino percorso in questa lunga lotta contro la barbarie è incoraggiante, ma quello ancora da fare è tanto. Annualmente Amnesty pubblica un “rapporto” sulla situazione nel mondo dal punto di vista delle violazioni dei diritti umani.
L’ultimo, quello del 1987, dice che un governo su tre ha praticato la tortura; che nei regimi di destra e di sinistra i cittadini imprigionati senza regolare processo sono ancora tanti e che, a tutt’oggi, sono ben 130 gli Stati – sia democratici che totalitari- in cui vige la pena di morte. Amnesty International non nutre che un sogno: far sì che la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo diventi effettivamente universale.
Un’annotazione conclusiva. Il punto di vista che unifica così diversi modi di esplorare le prospettive della pace è molto semplice. La pace è la casa di tutti ed è insieme ciò che può rendere abitabile il mondo e umano il progresso.
Vi è una relazione essenziale, una reciproca causalità tra pace, diritti dell’uomo e sviluppo dei popoli. Rinunciare, anche solo in parte, al secondo e al terzo termine significa vanificare anche il primo.

Queste annotazioni fanno da premessa al quaderno di Humanitas “Dimensioni della pace”, in cui sono pubblicate le relazioni tenute a Brescia nel 1987 sul tema “Pace, diritti dell’uomo, sviluppo dei popoli”.