Abbiamo detto “profilo di Manzoni”; ma forse – ci sia consentito l’innocuo gioco di parole – avremmo dovuto meglio intitolare questa succinta rievocazione “Manzoni di profilo”.
Potremmo rievocare, come spunto di suggestioni, il ritratto in dagherrotipo, l’unico che se ne conosca da parte del fotografo in questione, dovuto alle cure di Stefano Stampa; sotto il quale (ne ricorderete infatti, con l’aguzza effigie, il colore della lastra da foglia in disfacimento) verrebbe fatto di circoscrivere il “sugo” di una vita: da fotogramma, si direbbe, scattato un giorno di ottobre.
Lo Stampa, si sa, non era un genio; era un uomo talmente intriso di fedeltà e malinconia che ha potuto dar pretesto a una biografia della “famiglia Manzoni” per chiudere in dissolvenza” con la malattia e la morte di lui. Dissolvenza che reggeva, come tutte le famiglie di questa terra, anche i Manzoni (e i loro congiunti). Pittore mediocre, era un bizzoso memorialista. Però era un ottimo fotografo; la fotografia allora in embrione rientrava tra le sue fissazioni scientifiche (qualcuna gli riuscì persino a parteciparla al grande patrigno, l’interesse sull’ipnotismo). E quel dagherrotipo di Manzoni è bello.
Di vecchi dall’aria veneranda, quando pure non profetica, è ricca la nostra iconologia ottocentesca, da Manzoni – appunto – al Tommaseo, al Capponi. Manzoni giovane, nelle improbabili effigi che ne abbiamo, non spira mai il fascino di un’adulta vigoria, all’opposto del Foscolo e, già prima, del vate Alfieri o del segaligno Parini. La sua stagione di prestanza durò poco. A Parigi, fin dal primo soggiorno ch’ebbe a farvi, si scoprì la debolezza dei nervi. Non facciamo che dire cose notissime. Ma anche al capo estremo della vita, per tornare alla tarda immagine, l’uomo resta al di là dello spirito di coinvolgimento, di prodigo fervore che ci fa sostare talvolta davanti a un ritratto. Manzoni permane nella dignità del suo riserbo, senz’ombra di concessione e nemmeno di alterigia. Si limita a fissare differenziato, in assorta contemplazione di qualcosa che intimamente gli appartiene: forse, specularmente, della propria stessa identità. Fin qui la metafora fisiognomica.
Ma anche quando ne riapriamo il testo, perdura tra Manzoni e noi quel reciproco controllo fra autore e lettore, dove è stato così facile insinuare riserve, avversioni, dinieghi; né c’è forse rapporto così impervio, pur nell’illusiva scorrevolezza. Chi tratta dell’opera di lui non può fare a meno di verificare già all’inizio questa speciale, problematica situazione. Basterebbe a confermarlo la storia della critica. Meglio dunque darlo come cosa scontata, vedendo di adeguarne le ragioni. Il terreno – è facile constatarlo una volta di più, riassuntivamente, a questa scadenza centenaria – è minato.
Intanto una considerazione di massima. Nessuno scrittore di grande rilievo, nessun classico è stato come lui, in modo sommesso ma tagliente, in una posizione accuratamente differenziata rispetto al coinvolgimento spontaneo della pagina, se non all'”arte dello scrivere”.
Quando leggiamo il Manzoni prima della conversione, ci accorgiamo di aver davanti una figura interessante di apprendista letterario. Ma vediamo altresì di aver da fare con chi si applica al suo lavoro con curiosa manualità. Predomina non la spontanea connivenza alle passioni giovanili, a cominciare dagli amori, ma la reazione civile e morale, coi relativi giudizi politici e storici. Nessun dubbio che si possa parlare di quei versi come esempi di delicato sentire, di nobili indignazione di pudichi vagheggiamenti. Ma tutto ciò ovatta una sostanziale disaffezione per la pagina. Lo stesso scrittore, nei Sermoni, dichiara che il centro dei suoi interessi non è lì. La letteratura non è che un mezzo, uno strumento per difendere qualcosa che va al di là dell’obiettivo linguistico o stilistico. Ce lo dice con una specie di seduzione malinconica. E, trovandosi sottomano un linguaggio già formato, quello classicista e neoclassico, lascia intendere di aver preso a servirsene con accurata artigianalità, lasciando per dir così che le volute espressive operino per forza propria, tanto lui è estraneo quando si tratti di deviarle ad altri fini. Certo, c’è in questo una aliquota, inevitabile, d’immaturità. A quell’età non si poteva pretendere di possedere un linguaggio. Ma un nucleo d’interessi in tal senso specifici, sì. Come all’inverso un interesse, teso, di scrittura, una sottile, segreta, struggente applicazione alle ragioni, eminenti, dell’arte, troviamo fin dai primissimi esercizi in qualcuno che sopravverrà di lì a un solo decennio: Leopardi.
E non era che, in anticipo, un modo di porsi di fronte alla pagina. E qui – allo scopo di venire avanti in modo conseguente – facciamo un salto di non pochi anni. Anni fondamentali. Quale, infatti, la particolare inflessione, l’arcatura metrica, la timbratura verbale di fondo che si svela quando riprendiamo in mano il quaderno, anzi il codice degli Inni sacri? Anche in tal caso – si pensi alla Resurrezione – la verifica è che il pathos, lo spirito di adesione e di esplicitazione rispetto a valori sovrastanti, va al di là della parola scritta. Sappiamo che il linguaggio degli Inni, e del Manzoni poeta in generale, è tutt’altro che definitivo. E’ bensì una lingua provvisoria, vacillante fra le costrizioni tradizionali, gli usi e magari i vezzi ribaditi da secoli, e un istinto d’identificazione, un’esigenza di personalizzarsi – con parole, locuzioni, incisi – di un’incontenibile irruenza, a frammenti (si direbbe) di roccia. Il discorso degli Inni, specie del primo, è quello di chi si affaccia su un mondo letterariamente incondito per acconciarsi poi a mettere in uso accorgimenti convenzionali. L'”E’ risorto” che apre come una folgorazione l’inno, e che costituì un problema per gli interpreti, forse lo sarà anche in avvenire: perché sopravviene da tutt’altra scaturigine che letteraria. E’ il Manzoni ancora ebbro di conversione, intriso del relativo travaglio, che martella sul metallo di un duplice asserto paolino (“…E’ risorto…”; “Io lo giuro…”) le tergiversazioni, le superstiti contraddizioni e le ultime convulse insorgenze dell’uomo razionale, tacitandole con un dogmatico: “Io lo giuro, per Colui Che da’ morti il suscitò.”
Ma il travaglioso dibattito tra spirito di verità morale e parola non si ferma a quel punto. E tutti sappiamo quanto siano controversi altri luoghi (Gadda diceva “vacillanti nello sfumato d’una indeterminatezza che vorrebbe alonarsi di vaghi sensi poetici”) Né alludiamo – esempio ormai classico – all’orma che calpesta la polvere del Cinque Maggio; o, nella stessa ode, alla dibattuta figura del naufrago che sta già nell’acqua o ancora sulla tolda della nave; per non dire poi del cantico all’urna che (si diverte a puntualizzare Gadda) “era viceversa una tomba”, o del “Nui”, “usando il plurale di maestà per se stesso nel momento di chinar la fronte al Massimo Fattore”; ecc.
Nel Natale, la figura del masso, emblema del peccato originale, stride, quando il masso si fa trarre su da “una virtude amica”: in natura miracoli del genere non avvengono. Ma c’è più che qualche altra – vera o presumibile – “spadellata” (Gadda); c’è lo stridore di passione incatenata che dà luogo a un aspro incremento; come (un esempio) le “liete voglie sane” della Pentecoste. Andrea Zanzotto ci trovava (scrive) “l’inconciliabilità dei termini di collage agognato ma non mai verificabile tra la santità e le voglie”, o altrimenti “un’antinomia intrinseca all’eros”, e io in complesso la denuncia involontaria di uno “stato d’allarme”. Meglio ancora, De Robertis ebbe a mettere in luce la densità compressa e balenante (proprio, aggiungeremmo, fino a rasentare l’antinomicità) di certe strofe e, in genere, dell’intero carattere poetico manzoniano.
E’ ovvio che a Manzoni non sfugge la razionalità dei termini in gioco. E’ che al di là del linguaggio con la sua dimidiata capacità di assorbire, al di là stesso del quidpositum linguistico e stilistico a cui si era piegato riluttante, dichiarando di voler fare versi anche peggiori ma differenti, c’era per lui, trascendente, una ratio in nome della quale avrebbe magari buttato a mare l’elaborazione mondana del verbo. Non che vogliamo proporre l’idea di un Manzoni anti-artista nel momento stesso in cui si cimenta, pindaricamente, nella lirica. Ma un Manzoni legato alla tormentosa e magari contraddittoria estetica del Vero. Basterebbe, per comprendere, la stessa inopinata adozione metrica; dove la canzonetta sacra succede ai ben più autorevoli, prestigiosi metri classici.
Il curioso, e l’affascinante, è poi che proprio su questo margine di contesa, su questa sorta di letterario vuoto torricelliano si istituisce la stessa grande arte di Manzoni, voltando in parola ciò che poteva apparire soltanto un problema di coscienza. Più lo scrittore avanza nell’opera, più si adegua il procedimento espressivo; ma si aggrava con irrimediabile alterità la frattura tra il risultato scritto dell’operazione e ciò che lo insidia.
E un’altra osservazione s’impone a questo punto. La lirica manzoniana non parte, come di solito, da un sentimento direttamente esperito dal protagonista per antonomasia, il “poeta” in persona propria: sgorga bensì da una prospezione obiettivata dell’autore come tale; prospezione e obiettivazione corale all’origine, intendendo coro come personaggio-attore e di un’assemblage teatrale, secondo la tradizione classica; poi, in seguito, sempre più scenica, promossa da una teatralità che non tarderà a spezzare il vincolo lirico.
Chi ben guardi, negli Inni sacri sono figure naturali e soprannaturali che intervengono di volta in volta, in continua alternanza di parti. Venendo più avanti, esemplare lo schema soggiacente al Cinque Maggio, dove l’autore sta sul punto di spersonalizzarsi nel suo “genio” (scritto dapprima con la maiuscola, poi con la minuscola per non rassomigliare troppo al Genio della figurativa neoclassica) e segue poi il suo protagonista Napoleone con l’animo di un inventore storico scenico e tragico. Le liriche manzoniane non sono cioè che delle tragedie in nuce. E la loro materia prima è né più né meno materia obiettiva storica o sul punto di farsi tale, che arriverà di lì a breve a darsi una forma proprio teatrale.
La vera originalità poetica del Manzoni degli inni e delle grandi odi consiste in ciò, che si lascia coinvolgere dalla materia con cui tratta alla stregua del tragediografo o del narratore; coinvolgimento che nel lirico si coglie nella ribollente concentrazione dei contenuti (etici, storici, fisiognomici) e nella addensazione dialettica della parola a partire, appunto, dagli Inni prima ancora che nella incessante, cangevole permutazione prospettica.
Anche nella prosa di allora questa dialettica o, meglio, questa coniugazione forzata di opposti, si incrementa. Nella Morale Cattolica che è un testo straordinariamente denotativo, e fu messo da parte da chi computa l’opera di uno scrittore muovendo dai punti di arrivo non da quelli di partenza – Manzoni fa quella che diremmo una prova di voce di eccezionale importanza, anche se l’impegno per dir così fonico è fin troppo evidente. Il De Robertis mise in rilievo l’effetto di anticipazione di alcune pagine, definendole, in vista del Cardinale del romanzo, federiciane. Ebbene, questa sottesa, calcolata, oratoria, quella selezione di toni, quegli arpeggi, accordi e disaccordi, quelle sovreccitazioni vocali, neppur essi sanno di esercitazione astratta. Era – si ricordi – una prosa mediata da modelli secenteschi. Ché se non era il Seicento del padre Segneri (che pure Manzoni riconosceva “sommo ingegno”), trattandosi di Bossuet, Massillon, Bourdaloue, Seicento rimaneva.
E se l’estetica di sfondo non era davvero quella dell’imitazione, persistevano il “docere”, il “vero condito in molli versi” che un grande poeta già quasi barocco, detestato forse da Manzoni perché aveva scoperto troppo le carte trascurando le cautele, aveva esaltato.
Si trattava, in altri termini, di un ammirabile ricalco di voce, guidato da un sistema organico di convincimenti. E’ un Manzoni che parla come gli avverrebbe di fare se intervenisse, non in prima, ma in terza persona. Nello stesso tempo si avverte che proprio questo celarsi dietro un’altra figura (non importa che poi nella Morale Cattolica una esplicita figura non ci sia, salvo quella, neppure gradita, dell’apologeta) è il punto, il nodo focalizzante, la giusta insinuazione-impostazione di voce che si addice a Manzoni. C’è, si direbbe, latente, una duplicità di situazione. Manzoni, si può giurare, è un autore che non si farà mai cogliere alla sprovvista; per così dire, con le mani nel sacco. Se sacco sia, non arriva mai ad esaurirsi anche se ogni volta crediamo di aver toccato il fondo.
Qualche anno fa, l’amico Getto, emerito conoscitore di secentisti (e di Manzoni) designò una fonte, verosimile, dei Promessi Sposi. Oggi un amabile scrittore, Giuseppe Bonaviri, ci persuade a credere che Manzoni abbia giocato un ennesimo tiro al lettore, propenso a giurare sulla felicità dell’incipit paesaggistico del lago di Como, provando che si tratterebbe di un ricalco dal padre Bartoli dell’Asia nella Istoria della Compagnia di Gesù, parte 1, XXV paragrafo. Che sarebbe, oltre tutto, un bel modo di testificare l’autenticità, a sua volta fittizia, dell’autografo dell’Anonimo. Da parte nostra, crediamo che un pizzico di credibilità ci sia in queste e in altre eventuali escogitazioni di fonti. Ma proprio ciò conferma l’animo con cui Manzoni operava sulla materia letteraria: l’animo di un coperto, affabilissimo demiurgo, simile al mago che interviene nei poemi cavallereschi, senza distruggere però la libertà di scelta del personaggio (cioè, del lettore).
Il capolavoro di Manzoni, lo sappiamo da sempre, è tutt’insieme romanzo e parvenza di romanzo; infatti è anche apologo, fiaba, “ballo per i poveri”, senza dire poi che è un cospicuo “fatras” tramato ad edificazione e ammonimento di chi legge. Colui che scrive ha tutta l’aria di essere, concordemente all’epoca romantica, un autore in vena di effondersi nel genere letterario sul tappeto, il romanzo. Eppure è anche, e verrebbe da dire soprattutto, un moralista. Tant’è vero che ci fu chi, con innegabile pesantezza di mano, altri direbbe con “animadversio”, parlò di opera di propaganda (è vero poi che quella propaganda Manzoni non aveva nessun padrone potente che gliela ripagasse). Sarebbe in altri termini come se parlassimo dei Promessi Sposi mirando alle illustrazioni del Gonin o, peggio, a quelle di Guttuso. Resta però che lo scrittore per definizione, l’artista, non è che un mediatore.
Anche su questo punto credo che Croce, nella sua palinodia, affermando che Manzoni aveva ascoltato le ragioni dell’arte, non colpisse nel giusto. Quanto meno, Manzoni non intendeva l’arte come l’avrebbe intesa, nella sua estetica, Croce. Secondo noi, sarebbe semmai da riconoscere questo: che l’acme dell’operazione manzoniana consiste nell’insinuare con inarrivabile prestigio idee che servivano a tutt’altra causa. Moravia ribadirebbe: nel fare propaganda. Ma va pur detto che non c’è mai stato al mondo autore di massime o brillante scrittore di apologhi, da Confucio a Marco Aurelio, da Fedro a La Fontaine, che non volesse insinuare principi attinti da una filosofia: da un’etica. Anche chi aveva l’aria di essere mero aforista vi soggiaceva. La Rochefoucauld era un inconsapevole libertino, anche se presumeva di dar fondo al naturale scetticismo di un gran signore disilluso. Non parliamo di Pascal, che moralista fu in modo integrale, senza nemmeno curarsi, come il duca coevo, di sfaccettare la penna.
Manzoni comincia dunque assoggettando la propria, peranco imperfetta, dottrina linguistica, poetica, alle esigenze di un credo morale, spirituale, religioso. Sviluppa poi il discorso nelle forme di un genere tradizionale, la tragedia, elaborandone i criteri e qui concentra la speculazione dello storico e l’esemplarità del moralista.
A che cosa gli è servita l’esperienza del lirico? A tagliar corto anzitutto con la tradizione “sublime” della poetica neoclassica. Quando si pensa da questo punto di vista all’Alfieri, al Parini, al Foscolo, ci si accorge che anche nel “genere” lirico era venuto decisamente sul proscenio il Poeta per definizione: il poeta-vate, il poeta-profeta. Quello neoclassico o protoromantico è uno stupendo sfondo scenico con un solo attore recitante: “Con le speranze mie parlo e deliro” dice Foscolo.
Manzoni con gli Inni Sacri non si sogna neanche un attimo di mettere in scena se stesso (ci si era provato qua e là nelle poesie giovanili): “sceneggia” le ricorrenze, le figure sacre, i sentimenti di una fede religiosa, la sua. Senza capire questa radice della lirica manzoniana, il giudizio rischia di rimanere perplesso. Ed è a queste considerazioni che bisogna riportare anche la ragione dell’esperienza che ne consegue, quella teatrale, ovvero tragica: che, sfrondando via via dal contesto le frange esteriormente sceniche, puntualizza con inesorabile consecazione il discorso in un solo centro, e qui trova il suo autentico nesso e peso di gravità, con un’asciuttezza radicale che non si trova neppure, a quel grado interiorizzato, nelle tragedie dell’Alfieri.
Il cuore nascosto della sua tragedia non è dunque la variegata riproduzione di una società alla Scott o, meglio, alla Hugo; non è, come in Hugo, lo sfruttamento dei temi della nuova letteratura, in forma del terribile, del grottesco, del sublime; non la riprova artistica di una tesi storica. Tutto questo c’è: ma come sollecitazione latente. A Manzoni preme, una volta di più, fare i conti con quella ricognizione di voce sull’assoluto metafisico, che va colto anzitutto negli Inni. In tal modo il Carmagnola non sarà un affascinante protagonista, vittima e vincitore insieme, alla Egniont, né un eroe solitario in veste da masnadiero, ma l’individuo che, nel fondo di una segreta, stabilisce finalmente il confronto con Dio. E tutta la tragedia non è in sostanza che quel colloquio e soliloquio.
Gli farà pendant l’altro e più articolato, decisivo soliloquio di Adelchi morente di fronte al padre e a Carlo. A quel punto Manzoni è in grado di valutare la materia storica nei vari risvolti secondo il margine opinabile che le compete, non foss’altro per l’impossibilità di decifrarne il soggetto ultimo: l’intimo foro dell’uomo. In tal modo passa al vaglio il giudizio storico collettivo, grazie anche alla sollecitazione per via di sintesi lirica dei cori. Quanto ai singoli, di Ermengarda non rimane, si sa, che un baleno di dolore trascolorato nell’eterno; di Adelchi, il dramma dell’individuo che si dibatte in modo immeritato nei vincoli ufficiali; e la situazione, sia pure con tutte le cadenze patetiche che Manzoni mette in opera, diverge dallo storicismo neutralizzante come dal soggettivismo romantico.
Come ha smontato i meccanismi in uso della storia, l’operazione manzoniana si adopera decisamente a smontare quelli letterari. La conseguenza è che, d’ora in avanti, Manzoni sceglierà un non-genere. Nessuno dei modelli narrativi in corso appare infatti accettabile a quell’inflessibile rigorismo e radicalismo. C’era stato dapprima, come è noto, un progetto di poema, sulla fondazione di Venezia; poi altro progetto di poema, a sfondo tra idillico e sociale, sulla Vaccina. E’ probabile che anche il Grossi col suo poema dei Lombardi alla prima crociata intervenisse nelle meditazioni dell’amico.
Comunque, attingendo specialmente alle confidenze epistolari al Fauriel, non è difficile cogliere di grado in grado le idee intorno al romanzo. Romanzo storico, con l’intesa però che la storia sia un punto di fuga, non d’arrivo; narrazione, che eviti però come il diavolo l’acqua santa il romanzesco; moralità, senza fare del moralismo, se non si vuol compromettere l’operazione. Le tracce dichiarate di moralità resteranno semmai nel centone (dove è più centone) del Fermo e Lucia. Riguardo a quest’ultimo punto, moralità come esplorazione impavida del bene e del male, trascendendo l’ammonimento stesso dei maestri francesi. Perché, secondo questo triste credente consapevole che è Manzoni, lo spettacolo del male osservato senza compiacenze vale più e meglio di qualsiasi cauteloso moralismo.
Quale possa esser allora il punto geografico del nuovo romanzo, non si sa, o almeno Manzoni non si esprime; viene un attimo in mente che si tratti di un non-essere, per l’assenza di una od altra componente. E il bello è che con uno scrittore in vena di disaffezione letteraria, moralista che verifica minuziosamente gli effetti del male, indagatore di problemi estetici che ha dissezionato i generi letterari (e seguiterà dopo più implacabilmente che mai a sezionarli), credente che contesta la pavidità dei preti della sua chiesa, venga fuori alla fine il romanzo più perfetto possibile, che già al Croce negatore faceva pensare alla perfezione di una statua greca.
Un romanzo – diremmo a questo punto, tentando di vedere le cose a posteriori, non a priori – che evita sia di tradursi nello svigorito, giannettinesco pedagogismo dei futuri narratori così detti manzoniani; sia di piombare nella totale obiettività, la naturalità inesorabile in cui tra breve verranno a sigillarsi Flaubert come Verga, Zola come De Roberto. In Manzoni la piaga è ancora aperta, non gocciola all’interno; è ancora protesta contro l’aspra tragedia dello stato umano, grido lamentoso verso i deserti del cielo, sconsolata aspettazione che la teologica speranza non edulcora e, quando tenta di farlo, in quell’istante si cristallizza, diventa effigie cimiteriale, alla stregua della “Bella Immortal benefica Fede” dell’ode napoleonica.
Anche dopo il romanzo lo spirito cogitativo di Manzoni continua a evolvere, si può dire, fino all’ultimo giorno. Ma il romanzo è il momento centrale che tutto recepisce in potenza e in atto, lasciandoci insieme perplessi e conquistati, come avviene, appunto, imbattendoci in un nucleo siffatto da evitare qualsiasi formula possibile (forse, quella di moderno poema?).
Che Manzoni non addivenga alla pura obiettività – un passo cioè al di qua del naturalismo – non dipende soltanto dall’inevitabile condizionamento della cronologia. Troppi sono i dèmoni, e con i dèmoni gli angeli che ha messo in giro, perché possa contentarsi dello stato di perfetta abiezione di Gervasia o di Nanà. Manzoni crede alla variegata complessità dell’animo umano. Crede che nel bruto sia sempre in tempo, baudelairianamente, a svegliarsi l’angelo. E quando ha avuto davanti il male allo stato per dir così puro, ha messo in opera una attenzione inesorabile. Così per Don Rodrigo, per Egidio; così per la stessa Monaca. Don Rodrigo non è agli occhi del suo disilluso analista soltanto un irresponsabile, agitato da orgoglio e sensualità. E’ qualcosa di peggio: ce lo dice il divieto che ha fatto a don Abbondio di celebrare le nozze. Divieto che è il cardine del romanzo. E’ geloso come può esserlo un pervertito dell’integrità di colei che concupisce; e il suo arrovellarsi – l’arrovellarsi che gli si può bene attribuire, e che esplode quando la vittima gli è sfuggita dalle mani – sui contatti fra lei e Renzo, è pari, all’inverso, allo spiare cupido del Nerone del Britannicus raciniano quando osserva la bella e dolce Giunia nella sua desolazione (cupida attenzione da mostro in nuce, che il Contini attribuiva invece, “esattamente al rovescio”, all’Innominato che scruta Lucia piangente). Quanto alla Monaca, basterebbe rilevare l’inflessibile misericordia (se è lecito dir così) con cui lo scrittore registra, e scandisce, l’involuzione della “sventurata”.
A differenza dì chi, come il De Lollis, poneva Manzoni nella immediata antecedenza di Flaubert, noi crediamo che quella linea porti a Dostoevskij. Ce ne dà ulteriore conferma un altro caposaldo manzoniano, la lotta con l’angelo più arrischiata che Manzoni abbia tentato: quella della Colonna Infame. Forse in nessun testo letterario prima dei Karamazov, abbiamo captato l’atroce contrasto di pietà e giustizia che fa impallidire un attimo di odio perfino Alioscia, al culmine del suo colloquio con Ivan. Forse, senza una affine, disperata contemplazione della solitudine senza scampo, in mezzo a torture inenarrabili, per una colpa inesistente, nel carcere secentesco di Milano, dell’iniquamente incriminata vittima, Manzoni resterebbe nell’orbita narrativa dei suoi tempi, al presente, e al futuro prossimo. Area rispetto a cui, è giocoforza ammetterlo, gli mancavano non poche, anzi importantissime carte. In confronto al romanticismo, infatti, non gli manca soltanto (come voleva Lukács) il vitale sentimento di una storia nazionale (che da noi non c’era); gli mancava l’impeto che traccia un solco di fuoco dal Werther goethiano a Hoffmann, a Kleist, da Stendhal a Balzac e, oltre Manica, alle sorelle Brönte. Rispetto al naturalismo, era assente nei Promessi Sposi l’integralità dura della rappresentazione della vita, quel che di perfettamente bloccato ci colpisce in Madame Bovary o nei Malavoglia.
Dicevamo Dostoevskij. Ma anche qui spiccano le divergenze; né si dice tanto in vista della situazione sociale, morale, cronologica; ma perché si tratta di una ben diversa istanza cristiana.
In tal senso, in Manzoni tutto è convogliato fatalmente, imperiosamente, entro una condizione e un modo d’essere rigidamente concepiti; concepiti, intendiamo, a certi determinati fini. Manzoni non dibatte nel suo romanzo una fede controversa, a fondo perduto; egli, che possiede, detiene una forma di cristianesimo monolitico e senza crepe, mette in causa semmai il suo e altrui rapporto dell’uomo con Dio. Non troveremo perciò tracce di quell’antagonismo che percorre quasi un brivido immedicabile, talvolta come un rictus, i romanzi dostoevskiani. L’uomo manzoniano nasce già acquisito a una totale sudditanza. Dio è colui che agita, inquieta, determina: che esalta e annichila. L’individuo non può che subire questa vicenda. Non può esserci grandezza o presunzione tali da disputare con Dio. Dio si riconosce, o si nega. Si lotta con Lui per imparare a convivere non per un confronto, quasi in satanico antagonismo. Non ci sono eroi del male in Manzoni; ci sono primi attori del peccato che perpetrano il male per incoscienza o bestialità. La sola lotta concepibile vuol dire travaglio per acquisire una verità a cui eravamo immaturi. L’individuo manzoniano, in tal modo, non è mai un convertito nel senso eversivo, testualmente, della parola, nell’esercizio libertario delle sue facoltà; è un uomo, un individuo in grado di capire o non capire, di cogliere o non saper cogliere la realtà – la sola realtà indefettibile – dell’esistenza.
Quando un tale individuo si avvia alla conversione, è subito acquisito a una Ragione incommensurabilmente superiore: “Dov’è silenzio e tenebre” dice del suo massimo convertito “la gloria che passò”. La tormentosa ricerca umana, anziché come è sembrata di carattere creativo, ha risolvente solo una previsione: l’epifania religiosa. Aliud non datur. Una volta avvenuta la conversione, il rapporto col divino si esplicita in quel modo: con la preghiera.
Si prega, certo, con più o minor calore, con maggiore o minore abbandono, secondo le proprie limitate capacità di partecipare alla Grazia. Ma i cancelli della fede, una volta chiusi alle spalle, non consentono diversivi. Dio è lassù: sublime, inaccessibile. La fievole voce umana non può che commettergli i suoi reiterati, perpetui sospiri: i suoi inesauribili, immitigati perché. Il cielo dov’Egli siede è il “cupo empireo”; Egli è il “Santo inaccessibile”; quando l’uomo prega, sente un sacro terrore agitarsi nell’animo; se gli sembra che Dio si avvicini, non ha da far altro che prostrarsi, e confondersi con la polvere. Perfino quando Dio gli assicura il perdono per mezzo dei suoi ministri, l’angoscia, col senso annichilente di sé, non diminuisce: “Ma il Perdonatore” dirà Manzoni in persona prossimo ormai alla morte “mi avrà perdonato?”. Se poi prega, non potrà fare a meno di tenersi d’occhio – letteralmente – grazie a uno specchio (la testimonianza è del Bonghi, troppo bella per essere inventata), strumento d’inflessibile vigilanza, perché l’attenzione non si rallenti. Dio sovrasta i nostri giorni e le notti, i rapporti col prossimo e quelli ancora più impervi con sé. Se il tormento dei grandi slavi denunzierà una faccia dialettica, su un piano di confronto, quello manzoniano si intrinseca all’individuo senza neppure un attimo, non si dice di contraddittorio, ma neppure di evasione liberatoria e di oblio. Non c’è alla fine che prendere in toto o lasciare. Ma lasciare non è nemmeno concepibile: tanto varrebbe abdicare alla stessa ragione che ci guida.
Il romanzo manzoniano, in tal modo, non è che un simbolo della peregrinazione dell’individuo attraverso quel pallido emblema esistenziale che è la storia con le sue vicissitudini – paci, guerre, travagli di ogni sorta -, in vista, o meglio, nel confortante e intimidatorio sentimento dello sfocio che ci aspetta: “Amatevi come compagni di viaggio, con questo pensiero d’avere a lasciarvi, e con la speranza di ritrovarvi per sempre” ammonisce padre Cristoforo i due promessi ormai ricongiunti; e su un piano universale, mirando più lontano oltre le evenienze individuali, ha detto poco prima: “Guarda chi è Colui che castiga! Colui che giudica, e non è giudicato! Colui che flagella e che perdona!”
Aveva dunque ragione lo Scalvini in una pagina famosa a parlare per il grande romanzo di una cattedrale, anziché della volta libera dei cieli? La metafora è suggestiva. Ma forse è impropria. Lo Scalvini pensava troppo, romanticamente, ai cieli, anziché a quel cielo capovolto che è l’uomo interiore. E’ solo nell’humus religioso dell’individuo che si avverano in Manzoni casi e personaggi. Cioè, ribadiamo, quando il romanzo si apre, non si schiude una controversia o per lo meno un procedimento dialettico. I giochi, in assoluto, sono fatti. E qui è la sola, incontestabile misura di giudizio dei Promessi Sposi. Stiamo dentro il midollo del discorso, non in attesa di una scelta da compiere. E’ la fede – quella fede, quella concezione della vita – nell’atto di scendere a penetrare i cuori e a cospargerli e saturarli di pentimento; è la fede discesa dagli asserti biblici, evangelici, patristici che immette la sua straordinaria, sovrabbondante linfa negli interstizi dell’esistenza soggettiva come, ampiamente, in quelli della vita comune. Ed è una voce casta, essenziale, ma assertiva e recidente come una lama che percepiamo in queste pagine. Una voce “dentro”, diciamo pure al di qua della contesa; la stessa tragicità della vita si misura, secondo Manzoni, a filo del mistero che ci è imposto da una legge trascendente.
Quanto all’aspetto personale, Manzoni sta dentro la sua “noche obscura”, anche se ci sta con la congerie problematica dell’individuo comune, e del mistico non gli appartiene che la “notte”; della santità l’aspirazione, o meglio l’idealizzazione ammirativa. Armato com’era di strumenti d’indagine morale e teologica di primissima scelta, era costretto a commisurarli su un terreno in gran parte laico e mondano. Com’era inaccessibile alla controversia nel senso dostoevskiano della parola, Manzoni non poteva né ambiva farsi specchio di situazioni e modi d’essere mistici.
Se aveva descritto, con l’Innominato, un dramma interiore che si consuma su un piano interamente religioso, secondo una fenomenologia della conversione verificata sui testi dei sermonnaires d’oltralpe, non era in grado dì verificare, e nemmeno intendeva farlo, le vibrazioni dello spirito mistico che avrebbero potuto venirgli (è un’ipotesi) da altre fonti: ad esempio, da Fénelon e dai quietisti. Il suo modello di nobiltà e dignità umana, Federigo, è una perfetta, ineccepibile effigie di fronte a cui si avverte nello scrittore l’ammirante affettuosa considerazione. E’ un gentiluomo della virtù, tanto più seducente con la sua nobile grazia, la dignità e nobiltà del comportamento, e la raffinatissima temperie di cristiana modestia: non un fratello o un padre.
Manzoni sapeva che i santi non s’incontrano che eccezionalmente sulla terra; e quando s’incontrano, aprono le braccia per convertire, sconvolgendoci a fondo, prima dì scendere a commisurarci nelle miserie. Ne apprenderà qualcosa anche don Abbondio. Sapeva cioè Manzoni che i venerandi sacerdoti, i frati generosi, i prelati perfettamente esemplari non mancano mai. Ma non faceva assegnamento su quell’unico che ciascuno vorrebbe aver incontrato. Sapeva che, se è possibile avere per un attimo accanto un cardinal Federigo, il cugino di lui, il Santo, resta al di sopra della nostra verifica, e non possiamo far altro che applicarci, idealizzandolo, a una devota contemplazione.
Ma qui era, e si conferma, anche l’umile, rassegnata, familiare sapienza, l’impagabile dono di domesticità, sfumato equilibrio, confortevole solidarietà “minore” di Manzoni. Il quale ci propone in sostanza gli argomenti per tirare avanti rassegnandoci, che è una delle cose più difficili a dire, e a fare, risparmiandoci previsioni esaltanti che alla sua severa probità sembravano, sappiamo, degli escamotages romanzeschi. Ci dà qualcosa di più inconsueto e raro delle splendide devastazioni dell’orgoglio, degli slanci appassionati e delle eroiche abdicazioni a cui la narrativa in grande di altri maestri d’anima ci ha abituati. E, diremmo, il persuasore discreto, il dottore del quotidiano, l’aforista della coscienza usuale, il genio – diciamolo pure – dell’insignificante elevato a valore d’anima, del banale fatto mira dell’occhio di Dio, che ci fa riconoscere nel suo il libro ideale degli anni disincantati. E’ sua la mozartiana disciplina di sublime temperanza che a un lettore di Manzoni, Hofmannsthal, sembrava connaturata italianamente al genio dei Promessi Sposi; quella temperanza che un altro grande scrittore, Henry James, avrebbe colto acutamente nella identità morale del popolo italiano: “La filosofia di un popolo che ha vissuto a lungo e molto intensamente, che non ha scoperto scorciatoie verso la felicità e nessun modo efficace di evitare le sofferenze, giungendo a considerare la sorte media come un fatto di così gran peso da costringere l’uomo a non opporgli nessuna contromisura”.
Dietro la stupenda scalmana che abbagliava altri scrittori, Manzoni scorgeva il tessuto di travaglio che costella l’esistenza, tagliando corto alle magnifiche illusioni, anche se ne avvertiva con perfetta lucidità i contraccolpi. Col diavolo aveva fatto i suoi conti, con non minor perspicacia, va detto, del marchese de Sade. Lo provano certi sulfurei aforismi, postille scritte in margine che lasciava cadere con negligenza. Ma non se ne lasciava affascinare neppure un attimo. Con questa sapienza attinta da una discesa agli inferi, si faceva reduce sulla terra infinitamente più armato per intendere la peripezia del vivere quotidiano. Scartando gli atteggiamenti eroici che alle lunghe non risolvono nulla, o ci danno appena un’apparenza di catarsi, la sua microscopia esistenziale gli faceva cogliere lo stato di presagio che s’infiltra anche nelle ore, e nelle bocche, più comuni.
Certo, il conforto della fede. Ma un conforto che non annullava, tutt’altro, la dibattuta medietà della condizione normale dell’uomo, capace si di percepire le insinuazioni dall’alto, ma proprio come insinuazioni, cioè teologiche speranze che lo lasciano sempre impensierito dinanzi al nodo, al tessuto dell’esistere quotidiano: da ciò in Manzoni il diapason, il ritmo e diciamo la luce che sono soltanto suoi: la temperie autunnale dei paesaggi dove la ricchezza dei colori sfuma nel presentimento di altre stagioni; il rapimento del futuro che ci sorprende in momenti in apparenza disimpegnati; la lievitazione dal male, quando un raggio batte sulle acque notturne di un lago o si riflette nella vetrata di un fosco castello; il senso e gusto del focolare, ad avventura esistenziale compiuta, quando l’animo si placa, e l’attimo, come nel verso di Borges, è labile ed eterno.
Certo, al di sopra di tutto la divina Provvidenza. Ma quella voce non ci raggiunge che nei momenti di grazia; la ragione è incapace di darne una formulazione tangibile che ci serva da talismano contro le insidie della vita. Inconfessata, persiste la coscienza che il tempo, su cui credevamo di contare, vale poco più di un battito in un complesso di vicende; e vien fuori la consapevolezza che, quando crediamo di agire in base a sollecitazioni autonome, non facciamo che seguire le spinte di un’invisibile marea.
Manzoni finisce, lo sappiamo, con l’accento slontanato di una favola. Finisce in dissolvenza. Ma non ci s’illuda. Non è, la sua, la linea dei trasognati realisti della seconda generazione romantica. Dopo aver sfilacciato la vicenda, il suo racconto si equipara all’enigmatica sollecitudine dei narratori di fiabe.
Favola, allora? oppure romanzo: o, ancora, epopea in prosa?
Forse, pensa il lettore, dramma religiosamente occulto scritto in caratteri apparentemente mondani. Epopea che attinge alla storia e al concreto naturale della vita, per vanificarne religiosamente la sostanza.
Sul piano dei grandi raffronti, può venire in mente a questo punto Tolstoj. Ma la dissezione dei fatti opera, nell’ottocentista lombardo, per via endoscopica. Non c’è in vista nessun eroe storico da dissacrare, ci sono tutt’al più delle caricature. Quanto ai movimenti di massa, nessun attributivo sacrale ad alcuno; invasioni, saccheggi, turbe di gente in fuga, malattie, non sono alla resa dei conti che effimere parvenze di gesti, proiezioni d’ombra, flatus vocis: vanità.
A poco a poco, con gli anni, l’impegno letterario divenne per Manzoni un fatto quasi estrinseco. Non che gli si fosse appannato neppure per un attimo il gusto; anche le facoltà poetiche resistevano intatte, come avrebbe mostrato nei versi d’occasione che continuò a comporre fino agli ultimi tempi della vita. Di quando in quando rifletteva sulla condizione del letterato, ed erano le sue confidenze bellissime, quasi delle missive all’ignoto. Così una volta, in età appena adulta, scrivendo a un’autrice degna di stima con la quale evitò accuratamente di coinvolgersi, la Saluzzo; più tardi nel rispondere a un sollecitatore casuale, che trattò, disse, come un interlocutore ideale, alla stregua del folletto familiare nella carcere del Tasso del dialogo leopardiano: il giovane Coen. Ormai, dell’impegno letterario gli premeva l’unico aspetto che gli sembrava degno di uno spirito serio: il problema – sociale, civile – della lingua. Il quale, nonché una bizzarra fissazione d’indole espressiva, va giudicato come una prescrizione normativa morale. Era così alieno da ciò che aveva formato il centro dei suoi impegni da aver perfino dimenticato episodi, frasi, versi dell’opera propria. A un amico che gli citava versi che aveva scritto, domandò di chi fossero. In tutt’altra bocca, sarebbe stato un lapsus di falsa modestia, di pessimo gusto.
Quando riprese a meditare sulla formula del romanzo, scrisse a confutazione il Discorso sopra il romanzo storico. Nei colloqui serali con familiari e amici rammentava episodi e amicizie di un tempo alla stregua di piacevoli fiabe. Della sua cantafavola parlava con la benevolenza sfocata che ha un vecchio per le passioni di gioventù. Criticava i grandi della nostra letteratura col puntiglio, inflessibile, di un maestro di scuola.
Perfino la sua prassi religiosa fu insidiata dal formalismo. Il giansenismo, che non l’aveva mai intaccato nella cristallina ortodossia, si riaffacciava nelle ambagi della pratica devozionale. Per sovrappiù, quando il trauma degli ultimi tempi ne incrinò il fragile equilibrio psico-somatico, sopravvenne l’angoscia dei peccati, straziante lotta con gli scrupoli che aveva sempre coltivato esorcizzandoli con l’umile devozione. Gli vennero meno le parole che aveva sempre avuto per gli altri, lui che era stato un inesauribile conversatore. Il solo dialogo di rilievo ebbe luogo in modo sconcertante, nelle fasi ancora lucide, con un altro se stesso, che gli rimandava come un’eco sdoppiata da una logica in delirio interrogativi, accuse, dubbi. A quel punto non era il credente che veniva meno, ma era un difficile itinerario spirituale che si acutizzava, aggravandosi.
Alla nostra economia indagatrice di posteri, dell’ultimo Manzoni rimane qualcosa che può sembrare molto poco; in realtà ci riporta a una attitudine inconfondibile: un occhio che scruta come nell’antico dagherrotipo, su uno sfondo immitigato di mansuetudine e di tenebre.
NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura il 25.2.1985.