Io credo che non esista filosofo più celebre di Socrate, tant’è vero che il suo nome è conosciuto anche da coloro che di filosofia non sanno nulla. In ogni caso è uno dei massimi filosofi che siano vissuti e sotto certi aspetti potrebbe essere anche considerato il più grande dal punto di vista esistenziale. La tesi che sosterrò è questa: Socrate è il più rivoluzionario dei filosofi antichi. Concluderò con alcune annotazioni sulla sua celeberrima moglie, tese ad una rivalutazione di Santippe e quindi riserverò una sorpresa, perché tutti hanno costruito l’immagine di Santippe come della donna più impossibile con cui convivere
Partirò dal giudizio che ha dato un grande filosofo a noi poco noto, Jan Patocka, che è stato chiamato il Socrate di Praga perché, come Socrate, è stato perseguitato per motivi politici. Questo filosofo ha scritto un bellissimo libro su Socrate, nel quale afferma che il posto di Socrate è stato uno solo, la vita, dalla quale non si è tirato fuori neppure per un istante per incarnare la sua fatica in un lavoro a se stante, che non si comprende se non calandosi con lui nella vita stessa [Jan Patocka, Socrate, Rusconi Libri 1999].
L’idea centrale di Socrate è questa: rispondere al famoso motto inciso sulla facciata del tempio di Delfi. “Conosci te stesso” era infatti il messaggio con cui Apollo accoglieva coloro che andavano ad interrogarlo per aver responsi dall’oracolo. Conosci te stesso vuol dire: uomo chi sei in sostanza? Questa, dicevano i greci, è la massima più importante e pone il problema più difficile da risolvere: io, uomo, chi sono? Tutta la filosofia greca in un certo senso ha cercato di rispondere, ma il primo che ha dato la risposta che ha rivoluzionato la cultura occidentale è proprio Socrate: “L’uomo è la sua anima”. Socrate è lo scopritore del concetto occidentale di anima, e la sua rivoluzione non è consistita solo nell’introdurre quest’idea, ma anche nel modo con cui l’ha introdotta, in altre parole nel suo metodo. Vorrei leggere un passo del Fedro di Platone in cui Socrate riassume il proprio pensiero. Mentre passano davanti ad un luogo in cui si affermava che Borea aveva rapito Orizia, il giovane Fedro chiede a Socrate se sia convinto della verità di questo racconto. Socrate risponde che la spiegazione più probabile è che il soffio di Borea abbia spinto Orizia giù dalle rupi vicine mentre giocava con l’amica Farmaceia e così si sarebbe sparsa la voce del rapimento da parte di Borea. E conclude la sua risposta: “Per queste cose io non ho tempo libero a disposizione. E la ragione di questo, mio caro, è la seguente. Io non sono ancora in grado di conoscere me stesso, come prescrive l’iscrizione di Delfi; perciò mi sembra ridicolo, non conoscendo ancora questo, indagare cose che mi sono estranee. Perciò, salutando e dando addio a tali cose e mantenendo fede alle credenze che si hanno di esse, come dicevo prima, vado esaminando non tali cose, ma me stesso, per vedere se non si dia il caso che io sia una qualche bestia assai intricata e pervasa di brame più di Tifone, o se, invece, io sia un essere più mansueto, più semplice, partecipe per natura di una sorte divina e senza fumosa arroganza”.
Ecco in sintesi il problema che si è posto il grande Socrate, ma Kierkegaard affermava che questo è il pensiero che esprime un’idea così forte che nessun uomo non può non porsi.
La rivoluzione che era in atto al tempo di Socrate comportava il passaggio dalla cultura dell’oralità alla cultura della scrittura come mezzo di comunicazione. Socrate è l’ultimo eroe dell’oralità dialettica; non ha scritto una sola parola, ma ha generato un movimento tale che tutti i suoi discepoli, dal primo all’ultimo, hanno scritto una serie di dialoghi “socratici”. La scrittura in Grecia è attestata già nel nono secolo, ma la scrittura recepita come messaggio comunicativo appartiene alla fine del quinto o agli inizi del quarto secolo. Si ritiene che nelle scuole dell’Attica a livello primario la scrittura cominciasse ad essere insegnata come prassi comune nell’ultimo trentennio del quinto secolo, cioè in un momento corrispondente all’attività di Socrate. Prima di allora, la scrittura era prevalentemente usata dagli scribi per documenti, lapidi, ecc… Anche i grandi poemi omerici non erano stati composti per essere pubblicati, ma come strumento per gli aedi che li apprendevano a memoria e li recitavano per il pubblico. La poesia aveva un ruolo notevolmente diverso rispetto a quello del mondo moderno e contemporaneo, che la intende spesso come diletto estetico. La poesia era lo strumento principale di comunicazione nell’ambito della cultura dell’oralità e si imponeva come indispensabile mezzo formativo e informativo di tutti, quasi una sorta di “enciclopedia” non solo della saggezza morale, ma anche del sapere tecnico e il suo linguaggio era il linguaggio di riferimento della comunità colta. Come avveniva dunque la “pubblicazione” di un testo? Attraverso la recitazione. E come avveniva la recezione? Imparandolo a memoria. Come avveniva la riutilizzazione? Ripetendolo continuamente, soprattutto nella scuola, dove i ragazzi, che erano quelli della più alta società, apprendevano attraverso il canto e la recitazione del maestro Omero, Esiodo, i poeti lirici, gnomici… Ma non solo. I rapsodi recitavano i poeti nei simposi e nelle feste, in abitazioni private come nelle piazze dei mercati. Quindi ciò che è determinante nell’ambito di una società non è il momento della “scoperta” della scrittura, ma il momento in cui essa diviene qualcosa di valido, di socialmente significativo, di fruibile come strumento di comunicazione. Che cosa comunicava la poesia? Comunicava immagini, personaggi, eventi. Quando è nata la filosofia è iniziata una rivoluzione enorme, perché si comincia a pensare non partendo dall’immagine, dal personaggio, dall’evento, ma da un enunciato concettuale astratto. Naturalmente la filosofia è nata prima in cerchie molto ristrette; per questo la vera azione rivoluzionaria di Socrate è consistita nel portare la filosofia a tutti, nel cominciare a parlare al mercato, nelle botteghe, dappertutto.
E che cosa ha fatto? Perché ha cominciato a sollevare contro di sé un furore così terribile? Nell’oralità mimetico-poetica tradizionale Socrate introduce una metodologia nuova, la dialettica, nella sua forma più semplice, che consisteva nel chiedere ad un interlocutore di ripetere quanto aveva detto e di spiegare quello che intendeva dire. Che è quanto dire: nella risposta che tu hai dato non c’è il risultato che io ti chiedevo, il punto al quale io volevo che tu arrivassi, le ragioni perché tu pensi così. Questo comportava una nuova terminologia e una nuova sintassi, che per essere comunicate e utilizzate non potevano fare ricorso alla sola memoria, anzi non erano appunto memorizzabili. Diventa necessario l’uso della parola scritta. Il metodo che Socrate introduce è questo: non devi continuare a ragionare ripetendo i versi di Omero, tu devi chiederti “ma perché faccio così? perché ho questo pensiero?” Quella che si va cercando è dunque la spiegazione concettuale.
Fino all’epoca socratica nella cultura orale mimetico-poetica il soggetto pensante si identificava con l’oggetto pensato, coscienza e oggetto erano per così dire immersi l’uno nell’altro; con Socrate invece nasce il momento della coscienza autonoma. A questo proposito leggo un passo di un famoso studioso della tecnica della comunicazione:
“Questa separazione del soggetto dalla parola ricordata è forse a sua volta il presupposto dell’impiego crescente (nel secolo di Socrate) di quello che Socrate aveva scoperto. Questo era il metodo della dialettica; non necessariamente quella forma evoluta di ragionamento logico concatenato che si trova nei dialoghi di Platone, ma l’espediente originario nella sua forma più semplice.[…] Ma il dire: che cosa intendi dire? Ripetilo! disturbava bruscamente il piacevole compiacimento offerto dalla formula o dall’immagine poetica. Significava usare parole diverse, e queste parole equivalenti non riuscivano poetiche; dovevano essere prosaiche.” [E. A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura da Omero a Platone, Laterza 1995]. Insomma: tu non devi dirmi ‘Achille diceva questo’, ma devi dire cosa pensi tu intorno ad Achille, non identificarti con Achille, o se ti identifichi con lui devi dire il perché di questa identificazione. In sostanza la dialettica serviva “a ridestare la coscienza dal suo linguaggio di sogno e a stimolarla a pensare astrattamente”.
Socrate è visto come un nemico da molti. Da chi? Da chi appunto difendeva la cultura tradizionale, perché egli sta distruggendo quello su cui tutti per secoli hanno vissuto. Ma capita che un personaggio, se è grande, lo si capisca molto bene non tanto sentendo gli amici che ne parlano, quanto i nemici più intelligenti, perché qualche volta accade che proprio i grandi nemici vedano meglio la grandezza di un personaggio che non i modesti amici. Il nemico più temibile che Socrate abbia avuto è Nietzsche, che ha scritto pagine terribili su Socrate, le più terribili, le più graffianti che io abbia letto contro qualsiasi uomo. Eppure egli stesso afferma: “Socrate, lo confesso, mi è talmente vicino, che devo quasi sempre combattere contro di lui”.
Secondo Nietzsche Socrate è stato come “l’eroe dialettico” che ha distrutto la tragedia greca: “L’opera d’arte della tragedia greca perì a causa di esso”. Un altro passo che Nietzsche scrive proprio da nemico fa capire, se rovesciato, la rivoluzione che Socrate metteva in atto: “Riconosciamo in Socrate l’avversario di Dionisio, il nuovo Orfeo che si leva contro Dionisio e, benché destinato ad essere dilaniato dalle Menadi del tribunale ateniese, costringe alla fuga il potentissimo dio”. In un altro punto Nietzsche riprende idee di Aristofane e le esprime in forma icastica: “Chi è costui che osa da solo negare la natura greca, quella che attraverso Omero, Pindaro, Eschilo, attraverso Fidia, attraverso Pericle, attraverso la Pizia e Dionisio, attraverso l’abisso più profondo e la cima più alta è sicura della nostra stupefatta adorazione? Quale forza demonica è questa, che può ardire di rovesciare nella polvere un tale filtro incantato? Quale semidio è questo, a cui il coro degli spiriti dei più nobili fra gli uomini deve gridare: ahi! Tu lo hai distrutto, il bel mondo, con polso possente; esso precipita, esso rovina!”
Queste parole fanno capire come mai Socrate sia stato condannato a morte, tra l’altro, e lo fanno capire con il linguaggio di un contemporaneo, di un moderno.
Di Socrate noi non sappiamo nulla. Platone ha pubblicato 34 opere di cui una sola, L’apologia di Socrate, ha nel titolo il suo nome, anche se è lui quasi sempre il personaggio fondamentale. Siamo sicuri che L’apologia di Socrate è un documento storico per almeno tre motivi. Il primo: Platone nelle sue opere cita il proprio nome tre volte, due nell’Apologia per dire che era presente al processo e che era addirittura in prima fila fra quelli che erano pronti a pagare la multa per Socrate pur di salvarlo, e una nel famoso Fedone, uno dei capolavori in cui si parla dell’immortalità dell’anima. Ma qui si autocita per dirci, proprio all’opposto che nell’Apologia, che lui non era presente il giorno della morte di Socrate: “Platone non c’era quel giorno, credo, era malato”. Il secondo motivo. Il processo di Socrate era un processo di Stato e la condanna una condanna di Stato, espressa da ben 500 giudici. Se Platone avesse detto il falso in questo suo scritto sarebbe stato condannato per vilipendio alla città, quindi quello che ha scritto è vero. Terzo motivo. Mentre nel Fedone egli intende parlare in larga misura del proprio pensiero (e lo fa capire chiaramente), nell’Apologia vuole parlare del Socrate storico e quindi non introduce la teoria dell’immortalità dell’anima (tesi centrale del pensiero di Platone) e i suoi fondamenti metafisici, ossia la grande teoria delle Idee, perché, appunto, vuole spiegare il processo di Socrate, riportare che cosa ha detto Socrate quel giorno e il motivo per cui è stato condannato. L’apologia di Socrate è dunque un documento.
Nell’Apologia sono riportati i concetti fondamentali che Socrate ha espresso e due passi, in particolare, riassumono quello che lui ha voluto fare. Il punto chiave sta nel particolare evento dell’Oracolo di Delfi, con il responso su Socrate come il più sapiente dei Greci. Leggiamo le parole di Socrate: “Ora non fate chiasso, cittadini ateniesi, neppure se vi potrà sembrare che io dica cose grandi. Infatti, ciò che vi riferirò non è un discorso mio, ma lo attribuirò a colui che lo ha detto, ben degno di fiducia da parte vostra. Della mia sapienza, se pure è sapienza, e di quale essa sia, vi porterò come testimone il dio di Delfi. Certamente voi conoscete Cherefonte. Costui fu mio amico dalla giovinezza e fu amico del vostro partito popolare, e in quest’ultimo esilio andò in esilio con voi e con voi ritornò. E sapete anche che tipo era Cherefonte e come era risoluto in ogni cosa che intraprendeva. Ebbene, un giorno recatosi a Delfi, ebbe l’ardire di interrogare l’oracolo su questo. Come ho detto, cittadini ateniesi, non fate chiasso. Cherefonte domandò, dunque, se c’era qualcuno più sapiente di me. E la Pizia rispose che più sapiente di me non c’era nessuno”. Socrate aggiunge: “Che cosa dice il Dio è un enigma perché io non so nulla”. Il testo prosegue mettendo in rilievo l’imbarazzo di Socrate e la decisione di interrogare quelli che tutti consideravano “sapienti” per poi andare dal dio e dirgli: “Questo qui è più sapiente di me; e tu invece hai affermato che sono io”. Una cosa molto bella che Nietzsche stesso individua: Socrate credeva negli dei, ma che cosa fa? Non crede al verdetto del dio e lo sottopone a giudizio, mettendo in atto il famoso metodo elenctico. I primi che prende in esame sono i politici. Il risultato qual è stato? Che i politici non sanno e credono di sapere e la differenza è solo questa: lui, Socrate, non sa e sa di non sapere, mentre gli altri non sanno e non sanno di non sapere. La stessa cosa fa con i poeti, e infine con i tecnici, quelli considerati competenti nelle loro arti. Socrate conclude che gli artigiani sono molto bravi, però commettono un errore gravissimo, quello stesso che viene compiuto ancora ai nostri giorni dagli specialisti di vari settori: essi ritengono che la loro sia una conoscenza assoluta, mentre possiedono solo conoscenze specifiche (quindi limitate); cioè confondono il sapere particolare con il sapere generale. La conclusione a cui arriva Socrate è questa: “Sapete cosa voleva dire il dio? Che il vero sapiente è Socrate perché Socrate sa di non sapere. Invece, cittadini, si dà il caso che, in realtà, sapiente sia il dio e che il suo oracolo voglia dire appunto questo, che la sapienza umana ha poco o nessun valore. Il dio sembra che parli di proprio di me Socrate e invece fa uso del mio nome, servendosi di me come esempio e modello”.
Dobbiamo avere l’umiltà di dire che in questo senso Socrate aveva perfettamente ragione. Del resto Popper ha addirittura affermato che la vera scienza è quella sempre falsificabile; il che è quanto dire che l’uomo non può possedere saperi assoluti, in quanto il sapere assoluto è di Dio. I Greci dunque hanno creato la parola perfetta per indicare il cultore della scienza: filosofo vuol dire amico o ricercatore del sapere, mentre sofòs, sapiente, è il dio e questa è la tesi che Socrate ha sostenuto. Quindi egli afferma di possedere una sapienza umana, cioè una sapienza a misura d’uomo e non la verità assoluta.
Socrate ha una sola idea assoluta. Leggiamo il passo dell’Apologia che meglio di ogni altro esprime il suo credo filosofico: “Ottimo uomo, dal momento che sei ateniese, cittadino della Città più grande e più famosa per sapienza e per potenza, non ti vergogni di occuparti delle ricchezze per guadagnarne il più possibile e della fama e dell’onore, e invece non ti occupi e non ti dai pensiero della saggezza, della verità e della tua anima, in modo che diventi il più possibile buona? E se qualcuno di voi dissentirà su questo e sosterrà di prendersene cura, io non lo lascerò andare immediatamente, né me ne andrò io, ma lo interrogherò, lo sottoporrò ad esame e lo confuterò. E se mi risulterà che egli non possegga virtù, se non a parole, lo biasimerò, in quanto tiene in pochissimo conto le cose che hanno il maggior valore, e in maggior conto le cose che ne hanno molto poco. E farò questo con chiunque incontrerò, sia giovane sia vecchio […] Infatti io vado intorno facendo nient’altro se non cercare di persuadere voi, e più giovani e più vecchi, che non dei corpi dovete prendervi cura, né delle ricchezze, né di alcun’altra cosa prima e con maggior impegno che dell’anima, in modo che diventi buona il più possibile, sostenendo che la virtù non nasce dalle ricchezze, ma che dalla virtù stessa nascono le ricchezze e tutti gli altri beni per gli uomini sia in privato che in pubblico”.
Jan Patočka scrive che qui è nata l’Europa, l’Europa che non è un’entità geografica, ma l’unità di un’idea e questa idea è quella che per primo Socrate ha formulato. In quest’idea risulta particolarmente rivelativo il concetto di enkráteia, cioè il dominio di sé, la cui creazione, con il relativo termine, risale certamente a Socrate. Secondo il suo concetto di enkráteia chi si lascia vincere dai piaceri del corpo è il vero schiavo. Di qui nasce il concetto occidentale di libertà, in quanto prima di Socrate la parola libertà aveva un significato quasi esclusivamente giuridico e politico; con Socrate invece assume un significato morale, è la libertà dai peggiori padroni: gli istinti, le passioni irrazionali del corpo, da cui ci si deve liberare, raggiungendo di conseguenza anche la felicità. Socrate afferma di non credere possibile che l’uomo migliore riceva danno dall’uomo peggiore, perché l’uomo peggiore può distruggere il tuo corpo, non la tua anima, la quale rimane quella che è.
Con Socrate nasce così anche il nuovo concetto di bellezza. Socrate, così brutto che la sua bruttezza è diventata leggendaria, era sempre circondato da giovani belli. E lui, bruttissimo, diventava l’amato e i giovani belli che lo attorniavano gli amanti. Perché? Platone nella sua grandezza ce lo fa ben comprendere. Bellezza non è quella che appare: se tu sei la tua anima, tu non sei bello per il tuo corpo, ma sei bello per quello che tu costruisci dentro di te, cioè nella tua anima e allora uno apparentemente bello può essere orrendo nell’anima e, viceversa, uno brutto può essere bello.
Altro concetto su cui quasi nessuno insiste: Socrate è colui che ha formalizzato e ha definito la rivoluzione della non-violenza. Platone gli fa dire nel Critone: “Compiere ingiustizia è, per chi la compie, turpe e in nessun modo si deve fare ingiustizia. Neppure se si subisce ingiustizia si deve rendere ingiustizia […] Dunque né bisogna restituire ingiustizia, né bisogna far del male ad alcuno degli uomini, neppure se, per opera loro, si patisca qualsiasi cosa”. Questa è una rivoluzione morale di una portata veramente straordinaria. Ancora Platone gli fa dire che la via d’uscita di fronte alla condanna non è scappare o far guerra, ma questa: “Tu vinci se convinci”. Al di sopra di questa forma di rivoluzione non violenta c’è solo quella dell’agape, dell’amore cristiano. Ma questa alla grecità rimase totalmente sconosciuta, cosicché quella socratica resta la più alta che il mondo pagano abbia conosciuto.
Vorrei ora richiamare l’attenzione sulla moglie di Socrate, Santippe, che egli aveva sposato in età avanzata, più precisamente fra i 50 e i 55 anni. Infatti quando fu condannato a morte (a circa settant’anni, nel 399) aveva tre figli: il primo aveva meno di vent’anni, gli altri due erano ancora bambini (l’ultimo non camminava ancora, era portato in braccio da Santippe). L’aveva sposata dopo i cinquant’anni per dovere di cittadino ateniese e secondo il costume ateniese, come scrive anche Jan Patočka: “… si è certamente trattato di un tradizionale matrimonio di forma attica, cioè senza rapporto interiore personale tra gli sposi, ove la donna era essenzialmente la governante della casa e l’educatrice dei figli minori, mentre il marito viveva soprattutto in pubblico”. Sta di fatto che Socrate trascurò quasi totalmente gli affari connessi con il mantenimento della famiglia e non si preoccupò di amministrare in modo adeguato i pochi suoi beni. Di Santippe le fonti antiche danno un giudizio estremamente negativo, tanto che Diogene Laerzio raccoglie la serie più significativa delle scenette tra Socrate e Santippe, diventate proverbiali. Eccone alcune.
«Una volta Santippe prima l’ingiuriò, poi gli versò addosso l’acqua; egli commentò agli amici che erano con lui: “Non dicevo che il tuono di Santippe sarebbe finito in pioggia?”
Ad Alcibiade che gli diceva che il minaccioso brontolio di Santippe era insopportabile, replicò: “Ma io mi ci sono abituato, come se udissi il rumore incessante di un argano. E tu, soggiunse, non sopporti lo starnazzare delle oche?” e poiché Alcibiade obbiettò: “Ma esse mi producono uova e paperi”, Socrate replicò: “Ma anche a me Santippe genera figli”.
Una volta in pieno mercato Santippe gli strappò il mantello, e i suoi amici lo incitavano a menare le mani per punirla. “Sì, per Zeus, disse, perché mentre noi facciamo il pugilato ciascuno di voi faccia il tifo, forza Socrate! Brava Santippe”.
Diceva che con una donna di carattere aspro bisogna comportarsi come i cavalieri con i cavalli focosi: “Come quelli dopo aver domato i cavalli furiosi la spuntano facilmente su gli altri, così anch’io abituato a convivere con Santippe mi troverò a mio agio con tutti gli altri uomini”».
Capace di ripensare a fondo la figura di questa donna è stato solo un grande romanziere italiano, Alfredo Panzini, nel romanzo dal titolo Santippe.
Citerò due passi che fanno giustizia dei giudizi malevoli su Santippe.
«Un giorno – scrive Panzini – io stavo guardando Socrate, personaggio molto conosciuto, e lo guardavo non soltanto perché lui fu, come tutti sanno, il fondatore di quella che si chiama filosofia morale, ma perché lui spiccava, assai brutto, in mezzo ad una corona di splendenti giovani. E come sotto la scrittura di un codice antico avviene di scoprire le tracce di una seconda scrittura, così io dietro Socrate vedevo accampare, entro contorni nebulosi, una figura enorme, rossiccia, quasi furiosa.
“Oh, ma chi è costei?” dissi prendendo la lente.
Non uno dei discepoli di Socrate, certamente!
Anzi i suoi discepoli, i bei giovani splendenti di giovinezza, si rivolgevano verso quella figura con un sentimento di dolore, di meraviglia o di riso.
Allora, dopo aver molto guardato, ben conobbi chi era colei: essa era Santippe, la mala femmina, rossa di pelo, la tormentatrice dell’eroe, la moglie di Socrate, Santippe, dico.
Da quel tempo la mia ammirazione per il popolo ellenico è venuta crescendo.
Perché è cosa nota che gli Elleni ci hanno lasciato anche i modelli più vari e straordinari del tipo femminile; da Elena, dalla chioma fiorita, per cui tanti eroi morirono volentieri; ad Aspasia, donna intellettuale che teneva un salotto e rovinò la politica del suo paese; a Penelople, straordinaria, che giunse ad ingannare gli amanti per mantenere fede al marito, il quale non soltanto era lontano, ma dicevano anzi che era morto.
Tutti i tipi, dico, ha fornito la Grecia, del furore guerriero, del furore erotico… Clitennestra lorda di sangue e di lussuria ed Antigone, la santa della terra, più bella di Ofelia! Tutti i tipi. Eppure io sentivo che mancava qualche cosa. Ora, trovata Santippe, non mancava più niente!
Ma mi pareva ben impossibile che i Greci avessero tralasciato di consegnare all’umanità uno dei modelli più comuni, come quello che anche oggi va sotto la denominazione di Santippe.
Noi abbiamo fatto una grande scoperta viaggiando per la necropoli dei morti ellenici. Noi abbiamo scoperto l’infelice Santippe».
Qui, e soprattutto nella pagina finale, ben si comprende la finezza dello scrittore. Dice infatti:
«Ora è ben più triste la casa di Socrate: nemmeno più le strida di Santippe! Ella fa andare sul tagliere il setaccio per cuocere sul testo una focaccia, una crescia, un pulmento qualsiasi […].
– Se vi salta in mente di andar dietro all’Andreia (valore), all’Aretè (virtù), alla Sofrosine (sapienza), al Ti en écaston, – dice Santippe ai figliuoli, – io vi sbatto questo setaccio sulla testa e ve ne faccio una berretta -.
E la notte è venuta.
Ma di chi è il suono dei vecchi sandali? Di chi è quella voce armoniosa ed ironica?
Chi è?
E Santippe balza sul giaciglio: un soffio come di un bacio si posa sui rossi capelli, biancheggianti ormai, un ardore come di lacrime cadenti, e una voce risponde e mormora: è Socrate, tuo marito».
[A. Panzini, Santippe. Piccolo romanzo fra l’antico e il moderno, Milano, Treves 1914; riedito da Mondadori nel 1954]
NOTA: testo, non rivisto dell’Autore, della conferenza tenuta il 26.1.2001 a Brescia su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.