La ragione di questa conversazione è un libretto che l’editrice Morcelliana di Brescia ha pensato di proporre per riflettere sul contagio di oggi. Il libretto si intitola La peste a Milano e propone i capitoli del romanzo manzoniano dedicati alla peste: il XXXI, il XXXII e il XXXIV, con l’aggiunta di quel capolavoro, perché tale si deve chiamare, che è la Storia della colonna infame, con in appendice un’appassionata e appassionante lettura che Mino Martinazzoli fece di questa vicenda. Che cos’è un classico, se non un libro che riesce a parlarci continuamente dell’oggi? Tale è il romanzo di Manzoni. Certo, la peste che infuriò a Milano nel 1630 non è un elemento marginale del romanzo. Manzoni, quando stese la prima introduzione al suo scritto, disse che voleva mostrare ai lettori se in quell’anno ci fosse stato un po’ di guerra, un po’ di fame, un po’ di peste. Ripeteva, in sostanza, l’invocazione dei riti delle rogazioni: “a peste, fame, et bello, libera nos Domine!”. Manzoni è un grande storico, oltre che un grande scrittore, e la sua ricostruzione del contagio del 1630 è veramente meticolosa, fatta su fonti a stampa dell’epoca, ma anche su manoscritti allora inediti, come per esempio il De pestilentia del Cardinal Federico Borromeo da dove ha tratto episodi che a noi sembrerebbero di sua intenzione: come la pagina toccante sulla madre di Cecilia, oppure il particolare del lazzaretto dove gli orfanelli che piangono vengono allattati dalle caprette che sentono che il loro latte occorre a sfamarli.
Quali sono gli elementi di ieri e di oggi che possono essere costanti? Molto, naturalmente, è cambiato. La storia, e soprattutto la scienza, ha fatto molti passi, però Manzoni ci mostra che ci sono delle onde lunghe, che sono appunto di tipo psicologico: è il comportamento e la condotta degli uomini che, in situazioni storiche diverse, si riproduce. Pensiamo, ad esempio, al coraggioso medico cinese che per primo scoprì il contagio e venne non creduto e, anzi, perseguitato dalle autorità cinesi prima di perdere la vita per il contagio che aveva contratto. Qualcosa del genere capitò al protofisico Lodovico Settala, il quale non riusciva a persuadere le autorità che il morbo stava serpeggiando. Il governatore spagnolo aveva cose più importanti a cui pensare: la guerra con l’assedio di Casale, i festeggiamenti per la nascita del figlio del re. E, dunque, Settala non venne creduto. Non solo! Suo figlio, che insieme a un medico incaricato girava per la città, rischiò il linciaggio da parte della folla, che li accusava di essere quelli che vogliono per forza che ci sia la peste. Insomma, c’erano cose di carattere politico ed economico, allora come adesso, che accecavano gli occhi.
Poi Manzoni che cosa nota? Di colpo i negazionisti si accorgono che non possono più nascondere la verità, cercano di mascherarla con dei trucchi eufemistici, parlano di febbri maligne. Anche oggi tante volte ricorriamo a quella che Manzoni chiama “trufferia verbale”: l’inceneritore lo chiamiamo termovalorizzatore e via discorrendo. E poi, però, anziché prendere atto razionalmente del contagio e prendere provvedimenti, si comincia a dare la caccia alle streghe, agli untori. Dice Manzoni che quando la paura e la rabbia – e la miscela esplosiva che paura e rabbia formano -prendono il sopravvento sulla ragione, si scatena la caccia agli untori. E non è solo questo il meccanismo che, per fortuna in modo più attenuato, si verifica oggi come allora. C’è, per esempio, la paura del forestiero: le prime persone a cui i milanesi danno la caccia come sospetti sono i forestieri, specialmente se francesi, specialmente anche se bresciani (Brescia apparteneva a Venezia, quindi a uno Stato ostile). Qualcosa del genere è accaduto anche oggi: all’inizio i cinesi davano la colpa a un intrigo americano, poi gli italiani hanno dato la colpa ai cinesi e infine gli europei hanno dato la colpa agli italiani.
Un altro elemento di contatto tra la realtà di ieri e di oggi è la preoccupazione di trovare il paziente zero. Gli storici del Seicento, dice Manzoni, si preoccupano di vedere se il primo che contrasse il morbo era un soldato valtellinese, piuttosto che uno di Lecco al servizio degli spagnoli. Come se fosse importante preservare la memoria di questo nome, quando, dice Manzoni, i morti si stentavano a contare a migliaia e la maggior parte di questi sono rimasti anonimi nella storia. E poi c’è anche la reiterata presenza di chi, in queste situazioni di peste, di fame, di guerra (l’abbiamo visto in tante esperienze storiche) profitta: i mercanti d’armi, i borsaneristi, i cialtroni che spacciano medicine in realtà inesistenti.
In questo quadro, naturalmente molto buio, Manzoni vede anche il bene: presenta la figura di religiosi luminosi come il cardinale, al quale pure rimprovera di aver permesso quella processione che ha moltiplicato il contagio, e come la figura storica del padre Felice che governava il lazzaretto. Naturalmente inutile dire che anche oggi tra il tanto dolore ci si consola vedendo come tante persone generose sappiano affrontare il contagio.
La peste però svolge anche un ruolo nella finzione narrativa: la finzione di un romanzo che è, sì, un romanzo storico (ripetiamo che Manzoni fece sempre ricerche di prima mano da storico illuminato e acutissimo), ma è anche un romanzo di idee. Il finale, spesso trascurato, è quello che verte sul “sugo della storia”, come lo chiama Manzoni. Renzo e Lucia, i due protagonisti, si interrogano su quale sia il senso da ricavare dalle loro azioni, abbandonano la posizione estrema inizialmente assunta: Renzo dice che tutto accade per colpa degli uomini e che, quindi, con la buona volontà gli uomini possono rimediare a tutto; Lucia, invece, dice che c’è la provvidenza o il castigo di Dio. I due discutono e alla fine dicono che il male viene per colpa degli uomini o senza colpa degli uomini e che, in ogni caso, l’uso di ragione e di fede (per Manzoni la ragione è altrettanto importante della fede) può aiutare a sopportare meglio. Hanno percorso una parabola, per dire così: Renzo è stato un rivoltoso, ha partecipato ai tumulti di Milano, ha pensato di farsi giustizia da sé e poi, invece, è diventato un operoso industriale, che da piccolo artigiano è diventato un industriale; Lucia, in un momento di paura, ha pensato di prendere la via del convento e poi è riuscita a superare questa posizione estrema: un voto pronunciato in un momento sbagliato. Trovano la loro morale, il sugo della storia, che è anche quello del Manzoni.
Quale è, invece, il sugo della storia per Don Abbondio? Per Don Abbondio il sugo della storia è la peste che ha fatto fuori Don Rodrigo, è una “scopa” che ha portato via Don Rodrigo. Ecco, la piccolezza morale di questo personaggio, che trasforma la sua figura comica in grottesca. Manzoni per far vedere che di fronte ad eventi storici così importanti Don Abbondio ha perso l’occasione di una conversione, di un mutamento mentale. Quello a cui, mi pare, tutti noi siamo chiamati in questo momento di contagio e di paura.
Veniamo alla Storia della colonna infame, che non è qualcosa di estraneo al romanzo. Nacque dentro alle pagine del romanzo, poi si gonfiò troppo e Manzoni decide di farne un’operetta a parte. Ma vuole, però, che venga pubblicata in appendice al romanzo come sua ideale prosecuzione. Ecco, è un’ideale prosecuzione e difatti, nell’edizione del 1840-42, la parola “fine” non compare dopo la conclusione de I promessi sposi, ma compare dopo la Storia della colonna infame. È lì che finisce il libro. Manzoni vuol far capire che il lieto fine del romanzo è un lieto fine parziale, che l’uomo è sempre chiamato ad affrontare prove dure. E la prova durissima che lui esamina nella Storia della colonna infame è la caccia agli untori, il processo, la tortura e la condanna a morte di due innocenti che venne ricordata in una colonna che doveva suonare a perpetua infamia dei condannati e che resta, invece, a perpetua infamia dei giudici.
In questa ricostruzione meticolosa, ma anche narrativamente molto bella, Manzoni recupera i frammenti del processo e mostra come, ancora una volta, l’assenza di ragione (non parla di principi cristiani) porta a conseguenze mostruose: il cocktail di paura e di rabbia, il pregiudizio. Un povero funzionario della sanità che, in un giorno di pioggia si ferma vicino a un muro guardando un foglio che doveva indicargli la strada, viene accusato da una donnetta di essere un untore. E quando si giustifica, dicendo che camminava rasente al muro perché pioveva, a causa del pregiudizio i giudici dicono che ha scelto un giorno di pioggia per contagiare più persone. Viene sottoposto a tortura, chiama in causa un altro innocente e, tormentati, i due finiscono col dire soltanto ciò che i giudici volevano sentirsi dire, pur di togliere la tortura. Qui viene fuori la dipendenza di Manzoni da quel capolavoro del diritto che fu l’operetta Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria (suo nonno, il padre di sua madre), il quale collaborò anche con Pietro Verri (zio di Manzoni), che aveva scritto le osservazioni sulla tortura. Tortura, dice Manzoni, che è orrenda come pena, ma altrettanto orrenda e stupida come mezzo di inchiesta, perché il torturato, se non sopporta il dolore, confessa anche se è innocente, mentre un delinquente abituato a resistere alle sofferenze non confessa anche se colpevole.
Però Manzoni fa alla fine una critica anche a Verri: lo rimprovera di attribuire la colpa ai secoli bui del Seicento, all’ignoranza generale del tempo. Manzoni dice che dare la colpa alla società del tempo, significa dare la colpa a tutti e cioè a nessuno. E qui viene fuori il suo personalismo cristiano. Renzo Negri, uno degli studiosi che pose il dito su questo aspetto negli anni in cui la contestazione del ’68 – piena anche di nobili aspirazioni – era degenerata nel terrorismo rosso e nero, diceva: “Manzoni ci insegna che dare la colpa al sistema significa assolvere l’uomo che, invece, con la ragione e la retta coscienza avrebbe potuto, anche con le leggi del Seicento, capire che quei due poveri condannati erano, in realtà, degli innocenti”. Insomma, riproporre il libretto La peste a Milano costringe noi a ripensare a tante cose che pur essendo avvenute nel passato, attraverso il di Manzoni, sono in grado di parlarci anche del momento perennemente attuale che noi viviamo.
(Testo non rivisto dall’Autore)