Nel 1989, nel bicentenario della rivoluzione francese, assistemmo ad un evento di importanza epocale: la caduta del Muro di Berlino che, due anni dopo, nel ’91, avrebbe portato alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Pochi tra i leader politici italiani capirono che quell’evento significava non solo la fine di Yalta e della guerra fredda tra Unione Sovietica e Stati Uniti, ma anche del sistema politico italiano. In alcuni momenti drammatici della storia spesso fu la stessa classe al potere ad avviare il passaggio a una nuova fase politica; non è stato così per la classe dirigente italiana a cui mancava la coscienza della gravità della crisi che minava dal di dentro, delegittimandolo, il regime partitocratico. Quello che è successo è sotto gli occhi di tutti. Per l’effetto combinato del rivolgimento del quadro internazionale e per l’eccesso, francamente intollerabile, di corruzione messo in luce dall’iniziativa giudiziaria, il sistema politico italiano è crollato su se stesso, senza che si fossero approntate soluzioni di ricambio e una qualche via di uscita. Non mancò, a dire il vero, chi riuscì a catalizzare sulla sua persona, per qualche tempo, la speranza di una democrazia pulita e di un ritorno allo Stato di diritto; ma il personaggio non aveva, purtroppo, la statura e la forza propulsiva che la situazione esigeva. Al crollo del sistema è seguita una fase di transizione assai confusa e difficile, anche se necessaria almeno per far uscire il Paese dal baratro in cui era sprofondata nel dopo Moro la finanza pubblica. La transizione ebbe inizio con il governo Amato e continua tuttora.
Nel surriscaldato clima politico di questi ultimi anni, reso esasperante anche dal susseguirsi delle consultazioni elettorali, si sono moltiplicate come funghi le interpretazioni di comodo dei nostri ultimi cinquant’anni di storia. È diventato addirittura un luogo comune giudicare cinque decenni della vita di un popolo come se si trattasse di un unicum, senza compiere neppure lo sforzo elementare di una plausibile periodizzazione, in assenza della quale i fatti scompaiono e la concretezza dei riferimenti svanisce nel fumo della chiacchiera e della propaganda settaria. Condannare o assolvere in toto da ogni colpa mezzo secolo di storia è, infatti, operazione di bassa lega, che disonora quanti di essa si servono per interessi di individui, di clan, di partiti nuovi e vecchi. Le apologie di ciò che non è difendibile così come le invettive, la giustificazione in blocco o il rifiuto in blocco di ciò che è successo nel nostro Paese sono semplificazioni strumentali rozze e profondamente diseducative delle coscienze.
Mi sia permesso accennare a qualche esempio. La critica alla degenerazione dei partiti – caduti tra il ’91 e il ’92 ai livelli più bassi di incapacità realizzatrice sul terreno politico e di corruzione sistematica – era ed è ben fondata, né va disonestamente minimizzata. Ma ecco che di lì si è passati ad attaccare con inaudita violenza la stessa Carta Costituzionale – che Piero Calamandrei definiva “frutto di una scelta voluta, meditata, paziente, ragionata” – e a invocarne una nuova, come se i gravi guasti ci fossero venuti dall’attuazione dei suoi principi e non già dalla loro tacita o palese violazione. Discorso questo che diventa subito chiaro se solo si pensi ai modi in cui è stato costantemente aggirato, per limitarci ad uno tra i molti casi, l’art.81, secondo il quale ogni legge che importi nuove e maggiori spese di quelle previste dal bilancio “deve indicare i mezzi per farvi fronte”.
Un altro dei più ricorrenti e infondati leit-motiv delle pseudo-storie in circolazione è appiccicare l’etichetta di “consociativismo” a tutta la storia della Repubblica. Chi lo fa dimentica sia che il nostro Paese è stato segnato per troppi anni da conflitti sociali politici e ideologici di estrema durezza, sia che la stagione dell’appoggio esterno del Pci al governo fu di assai breve durata. Il cosiddetto “compromesso storico” nacque in una situazione terribilmente drammatica, quando la necessità di fronteggiare il terrorismo sovrastava ogni altra considerazione. Era, infatti, indispensabile alla salvezza della democrazia, in quel momento, una copertura a sinistra per isolare il partito armato e batterlo. Moro lo comprese e fu proprio lui, purtroppo, a pagare in prima persona, con la sua stessa vita. Ma anche il Pci fu pesantemente penalizzato in termini di voti. La storia dell’Italia repubblicana vieta di porre sullo stesso piano i grandi spiriti che, nell’arco di mezzo secolo, servirono la Patria con appassionata dedizione, e coloro che la Patria l’hanno infangata. Vi è nella storia della Prima Repubblica una pluralità di personaggi, di forze sociali, di aspetti e di fasi che permette di cogliere di volta in volta i contrasti e le convergenze, ma anche le conquiste, le realizzazioni positive, le trasformazioni profonde realizzate tra il 1945 e il 1995. Basti pensare alla grande trasformazione che ha profondamente cambiato le condizioni di vita della larga maggioranza degli abitanti. Si tratta soprattutto della parte della popolazione radicata da secoli in un ristretto mondo rurale, o confinata da generazioni in limitati orizzonti di marginalità geografica e di subalternità sociale. Tali trasformazioni non hanno riguardato solo le condizioni esterne di vita, ma hanno influito profondamente anche sul carattere nazionale degli italiani. Bisogna, però, chiedersi: perché il benessere economico non ha favorito una crescita morale e perché l’esercizio dei diritti civili, politici e sociali non ha rafforzato il senso della cittadinanza? Quali risposte a queste domande sono oggi in grado di dare gli studi sull’Italia repubblicana. Quali ipotesi, al di là dei risultati già raggiunti, si possono formulare?
È facile constatare che chiunque voglia riflettere e capire un impegno deve pur prenderlo: per accostarsi finalmente alla riflessione storica propriamente detta occorre rinunciare ai passe-partout delle astrazioni generiche, alla ripetitività di giudizi non esaminati criticamente, agli stereotipi delle polemiche di parte, alle certezze precostituite. Ogni verità esige, per chi voglia afferrarne almeno un lembo, particolare pazienza critica. La ricerca storica ha suoi propri procedimenti, che già di per sé concorrono perlomeno a ridurre drasticamente il ricorso alla menzogna e all’uso settario di una sola parte della verità, nonché il sospetto di indulgenza e di favoritismo: dopo il trionfo spropositato dei pamphlettisti e dei politologi, questo è il momento di ripensare la storia del nostro passato – prossimo per noi vecchi, remoto per i nostri nipoti – in compagnia degli storici. E all’Italia non fanno difetto. Per queste ragioni abbiamo apprezzato vivamente che il convegno di studi, tenuto nel novembre scorso all’Università Cattolica di Milano, aveva per tema “Le interpretazioni della Repubblica” e abbiamo voluto che a parlarne nella nostra città fosse il prof. Agostino Giovagnoli, che di quel convegno è stato l’autorevole coordinatore. Solo gli animali e i bambini vivono immersi nell’immediato, noi uomini siamo animali di cultura e dunque non possiamo fare a meno della conoscenza storica. Questo è particolarmente vero per le età, come la nostra, in cui si preparano riforme e rivolgimenti. Esse devono essere particolarmente attente al passato, a quello del quale vogliono spezzare i fili, e a quello di cui vogliono riannodarli per continuare a intesserli.
Giornale di Brescia, 7.4.1997. Articolo scritto in occasione della conferenza di Agostino Giovagnoli su “Le interpretazioni della Repubblica”.