In seguito all’inaugurazione della Mostra “La Rosa Bianca”, in palazzo Loggia, per iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura e dell’Assessorato alla cultura del Comune di Brescia, sono stati programmati tre incontri tra docenti universitari e classi di studenti. Il primo ha per tema “La resistenza ai fascismi”, relatore è il professor Giorgio Campanini, dell’Università di Parma. A suo avviso il paradosso della Seconda guerra mondiale si può così formulare: Hitler scatena il conflitto quando le democrazie sono militarmente impreparate e riluttanti a combattere e la macchina bellica tedesca appare invincibile, e tuttavia perde la guerra. Come mai Stati che non avevano neppure il servizio militare obbligatorio, riescono a vincere la sfida lanciata dalla più impressionante potenza bellica che l’umanità avesse mai conosciuto?
La risposta di Campanini comincia con una premessa. La contrapposizione frontale fra totalitarismo e democrazia nasceva da due visioni della vita e dello Stato radicalmente diverse. “Ciò che é esploso nel 1939, con l’inizio della seconda guerra mondiale, era un virus latente da lungo tempo nella coscienza europea”. Vi fu in Europa, infatti, sin dai primi anni del secolo un progressivo emergere di ideologie illiberali e anticristiane, che trovarono il loro terreno di cultura nella profonda crisi del dopoguerra, nei Paesi in cui più deboli erano le neonate istituzioni democratiche. In Germania si afferma il pensiero di Karl Schmitt, fondato essenzialmente sulla teoria della politica come contrapposizione fra «amico» e «nemico». Ma se la politica non è che una guerra mascherata, non resta che ricorrere alle tecniche di guerra, all’eliminazione di chi non la pensa come noi, alla obbedienza assoluta al capo che decide per tutti. È il cosiddetto decisionismo, cioè il rifiuto del confronto, del dialogo, della mediazione. In Francia conosce una grande fortuna Georges Sorel, il teorico della “violenza purificatrice”. Anche per lui la politica è la prosecuzione della guerra e la guerra esige che ci siano i vincitori e i vinti. La leadership spetta solo a chi sa usare l’arma della violenza con più accortezza e coerenza. Sorel, com’é noto, fu insieme a Marx e a Nietzsche uno degli autori a cui Mussolini si ispirò.
In Italia si afferma nei primi decenni del Novecento il pensiero di Giovanni Gentile che, nella sua dimensione politica, teorizza l’esaltazione dello Stato. La sola libertà possibile é quella che si esercita nello Stato, che è la sostanza etica al cui interno sono concepibili le singole persone e trova legittimità il loro operare. Quando Mussolini affermava che “tutto è nello Stato e nulla é fuori dello Stato” non faceva altro che tradurre in formule sloganistiche il pensiero del massimo filosofo del fascismo. Le conseguenze della vasta seminagione delle ideologie antidemocratiche si fecero evidenti negli anni del dopoguerra: nel 1925 il fascismo si trasformava in dittatura e nel 1933 Hitler saliva al potere. Quali che siano le differenze fra Mussolini e Hitler, rimane il fatto incontrovertibile che la riduzione della lotta politica a guerra civile e l’esaltazione ossessiva della politica di potenza rendeva praticamente inevitabile, prima o poi, la guerra tra le nazioni. Il nesso tra guerra e totalitarismo, nazionalistico in Italia e razzistico in Germania, era, per così dire, nel codice genetico dei regimi fascisti e nazisti, sì che non é difficile leggere la politica dei loro primi anni, quelli che taluni osservatori continuano a considerare nonostante tutto “positivi”, come una lunga preparazione alla guerra. Per il nazifascismo la guerra diventava la prova della verità, il terreno sul quale esso sarebbe stato alla fine giudicato. La guerra, dunque, come “igiene dei popoli” è “giudizio universale della Storia”.
A capire la forza di attrazione dei regimi totalitari e la loro estrema pericolosità per la pace mondiale furono i grandi spiriti, che ben presto divennero “grandi esuli”, da Luigi Sturzo a Thomas Mann, a Karl Popper; ma le stesse cose furono comprese da quei milioni di “piccoli esuli”, l’esercito di operai e contadini, insegnanti, intellettuali, ebrei e cristiani, uomini di qualsiasi fede politica pronti ad abbandonare la loro patria per non arrendersi all’oppressione. La vicenda dell’esilio ha segnato per sempre di se la storia di nazioni civili come la Francia, la Gran Bretagna e soprattutto gli Stati Uniti d’America che li accolsero, immettendo nella loro cultura una forte componente democratica, che avrebbe giovato molto anche a quel Paese. Con la guerra, e con il dilagare della dominazione nazista sull’Europa, nacque la resistenza in Norvegia, in Francia, in Olanda, in Belgio, in Danimarca, in Polonia, in Grecia, in Jugoslavia, in Cecoslovacchia, in Romania, in Ungheria, in Bulgaria: poi in Russia e, dopo l’8 settembre 1943, in Italia. Molte sono le componenti della resistenza a cominciare da quella militare, politica e ideologica; ma la componente etica e religiosa di opposizione al nazismo e ai suoi alleati, condizionò e sovrastò tutto il resto.
Nel cuore della resistenza europea e italiana ci fu anche la resistenza come rivolta morale, simboleggiata in Italia da Teresio Olivelli e in Germania dal gruppo della Rosa Bianca. L’impero delle SS e quel poco che si sapeva sui campi di eliminazione rese visibile a tutti il disumanesimo programmatico a cui portava il nazionalsocialismo e i vari fascismi suoi alleati. Riemergeva finalmente nella coscienza europea la consapevolezza che la nostra civiltà doveva tornare a battere quei sentieri che hanno nobilitato la sua storia, a partire da quel luogo profetico che è l’”Antigone” di Sofocle, la tragedia che duemilacinquecento anni addietro elevava alla dignità della grande arte uno degli aspetti costitutivi del nostro essere europei: il rifiuto di identificare legalità e giustizia, nella consapevolezza che vi sono leggi più alte che non quelle dello Stato, e ancor più di uno Stato che operi contrariamente al bene più alto dei popoli. In tal caso occorre obbedire a Dio piuttosto che agli uomini, secondo l’insegnamento di san Pietro.
Giornale di Brescia, 11.5.1995. Articolo scritto successivamente alla conferenza tenuta da Giorgio Campanini sul tema “La resistenza ai fascismi” organizzata dalla CCDC.