Carissimi amici, sono qui perché il carissimo Matteo Perrini mi ha fatto violenza. E vorrei pregarvi subito di capovolgere quel manifesto, perché c’è in alto il mio nome e sotto gli altri. Io, così, introduco quel che diranno gli altri, facendo alcune modestissime osservazioni che sono espressione della mia sensibilità, che non si è inaridita circa i valori spirituali della resistenza. Vi confesso che ho difficoltà a parlare, prima di tutto per una inadeguatezza di espressione; ma anche perché non ho avuto una compiuta esperienza di quanto ho letto in questo libro di Dario Morelli. Ho visto che fino ad un certo punto potevo dire di essere anch’io personalmente coinvolto; poi sono andato in Germania, e tutto quello che ho letto, in un certo qual modo, era per me nuovo. E quindi ecco che già la mia conversazione nasce imperfetta; e poi in età avanzata, che tende alla ripetizione. Quando devo parlare di questo argomento, sento che vado ripetendo ogni volta le stesse cose. Forse qualcuno di voi le avrà già sentite. E poi finisce che il vecchio, gira e rigira, va a parlare di sé stesso; spero che questo non accada. Vi confesso una cosa: l’esperienza mi ha mostrato che l’udienza circa questi valori della resistenza non si trova con facile reperibilità. Ricordo che quando sono andato a supplicare vari editori di pubblicare il libro che vi ho presentato poco fa, mi hanno detto che questo argomento non interessa più; non ha, quindi, valore commerciale. E così si è accantonato. Finalmente però, l’autore che ci teneva tanto che uscisse in italiano, era già morto; così l‘ho potuto far avere ai vescovi polacchi che si trovavano per il concilio, e precisamente nel momento in cui Paolo VI riceveva l’incoronazione. E’ innegabile che certe gonfiature patriottiche risorgimentali condizionano l’evocazione del fenomeno della resistenza. Si dice, con tutto rispetto, che i garibaldini crescessero di numero tutti gli anni; forse anche la resistenza ha potuto essere, nella sua rievocazione, accusata di indurre a questo. Tuttavia oso parlare, prima di tutto per riconoscenza a Dio che mi ha tratto dal pelago alla riva; ma devo aggiungere con una confessione pubblica che quando ho abbracciato, in Polonia, quel padre di famiglia, cui si era sostituito il beato Massimiliano Kolbe mi sono domandato: “Perché tu, vescovo, sei ancora vivo?”. Per una deferenza agli amici defunti e anche a quelli viventi: a questa dà occasione il libro di Morelli su “Don Vender e gli altri.” E si presenta, almeno alla mia impressione, come un grande murales. Che direttamente o indirettamente costituisce una piccola epopea di persone e di avvenimenti. Sono presenti, in rassegna esemplare, partigiani, prigionieri, ausiliarie (anche questa è una categoria da non dimenticare: erano coloro che soccorrevano dal di fuori i prigionieri, impossibilitati ad avere sufficiente nutrimento). Oso parlare in questa sede, che non soltanto vide danzare la regina di Cipro, Caterina Cornaro, ma soprattutto si sa che qui l’unica cattedra libera, durante il fascismo, fu tale grazie a quel grande profeta che fu padre degli altri. Egli, sin dal primo profilarsi della teologia (e anche qui Morelli ha il merito di averci dato, nell’ultimo quaderno della resistenza, la certezza inequivocabile del suo atteggiamento fin dalle origini) stabilì le distanze e pagò poi subito di persona. La resistenza non fu episodio improvviso ed impreparato, come ho sostenuto anche quando ho avuto occasione di parlare nel trentennale o nel venticinquesimale a Cremona, nel palazzo di Cittanova; ma è la logica conseguenza di una radicata e maturata convinzione e di una non breve e sofferta esperienza. La presenza dell’amico Bendiscioli mi richiama ai suoi due libri, tanto coraggiosi quanto documentati, espressione culturale dell’ambiente cattolico bresciano. Per fortuna che l’amico Don Vender non conosceva quella letteratura italiana, perché certamente il caro amico non sarebbe qui, almeno a portare il peso della deportazione come il sottoscritto. Dalle conferenze in Episcopio compiute per geniale e coraggiosa iniziativa, ai radiomessaggi stessi di Pio XII, senza contare gli scritti di Maritain. E perché non ricordarli? Quando mi sono trovato ad Andalo, ho incontrato, tra gli altri, il vescovo di Clermont Ferrand. Io avevo un bel volume intitolato “La persona umana in pericolo”. C’è un bellissimo discorso, veramente magistrale; io e i giovani che gravitavano nella Fuci ci siamo nutriti di tutte queste cose. Ricordo che la dichiarazione di guerra alla Francia nel 1940 (ed era ad ascoltare la radio con me proprio il compianto amico Stefano Bazoli), ci colpì rinnovando l’esacerbazione suscitata dalla guerra in Etiopia fino alla campagna contro l’Austria. Valori irrinunciabili furono compromessi fatalmente, valori umani pazientemente enucleati ed esaltati da duemila anni di cristianesimo. Vorrei rimandarvi ad uno scritto di Jean Guitton, dove c’è una pagina in cui egli dimostra che tutti questi valori esaltati e sulle labbra di tutti, salvo poi essere realizzati, in un modo o nell’altro hanno una loro matrice cristiana (la donna, la libertà, ecc.). E qui potremmo fare una piccola rassegna di questi valori, che non vuole essere comunque esaustiva. Prima di tutto la verità e le deformazioni ideologiche. Non posso dimenticare che il provveditore di Pisa aveva raccomandato agli insegnanti delle scuole medie di minimizzare la rivoluzione francese. Di questi ridimensionamenti a quei tempi ne avevamo parecchi. Poi, se leggiamo i libri, il coraggio di mentire. E poi l’esaltazione del superuomo. Io non voglio toccare la persona privata di Gentile; però non possiamo dimenticare che la sua filosofia è stata quella che ha dato un sostegno ideologico alla concezione dello stato totalitario e al santo manganello. La giustizia. Le discriminazioni sociali, politiche, razziste; mi par di vedere ancora i ragazzi ebrei al liceo scientifico, segregati dagli altri, mentre dovevano fare la maturità, sembravano degli appestati. Ecco, io vorrei rimandarvi ad una novella bellissima e poco conosciuta, di un giudice che in tempo nazista deve giudicare suo figlio, che ha ucciso una che viene dal regime e non può condannarlo. La libertà. La soffocazione di iniziative che non fossero statali, del regime. Ricordo che avevo messo assieme un gruppo di artisti, che venivano molto volentieri; ma ad un certo punto è venuto anche per loro l’ordine di non farlo più, e non si è più fatto. Sono piccoli esempi di queste arbitrarietà. Persino legittime manifestazioni religiose, morali e culturali venivano soffocate, se potevano portare nocumento all’ideologia imperante. Poi la pace. Questo nazionalismo ad oltranza vide la nascita di imperialismi colonialistici. Qui mi è caro ricordare Sandro Monicelli: egli ha dimostrato coraggiosamente che il triangolo Roma Berlino Tokio sarebbe stato fatale. Ma soprattutto mi sembra che, specialmente nell’ambiente dei nostri giovani, sia stato fondamentale il tema dell’amore. Questo valore supremo della morale cristiana è stato compromesso, addirittura calpestato, mentre la dottrina dell’odio veniva ufficialmente conclamata. Ora restringo un pochino il campo della mia osservazione e mi permetto di dire che la Fuci bresciana non trovò difficoltà a passare dalla cultura della meditazione all’impegno della resistenza.
E qui io dovrei far passare delle figure di giovani religiosissimi e anche intelligentissimi, i quali hanno assunto un atteggiamento di incondizionata generosità. Rileggevo questo diario di uno di loro, dall’intelligenza più modesta degli altri ventidue, ma così significativo. Si vedeva come questo figliolo candido e senza rancori che si offriva per portare il suo contributo, voleva essere risoluto a morire per un’idea, e voi sapete che quando hanno trovato la sua imitazione di Cristo sul petto insanguinato, la nota suonava così: “Signore che io faccia la tua volontà, che io porti la croce della storia del crocifisso”. Abbiamo letta la preghiera di Teresio, una delle espressioni più significative della sua profonda spiritualità. Averlo conosciuto personalmente mi permette di poter dire che sempre, nella sua vita di giovine, di soldato, di insegnante, il pensiero religioso è al vertice, anche se agli inizi ha potuto avere dei tentennamenti riguardo alla ideologia; ad un determinato momento però, egli ha assunto una posizione che lo ha reso diverso e che l’ ha pagato di persona. E quando io ho trovato i superstiti alla vigilia della liberazione, e ho chiesto loro e di Teresio e di Rolando, mi hanno risposto: “Teresio è morto per noi, Teresio era un santo”. Così pure il carissimo Rolando, un ragazzone pieno di energia, di vitalità, di religione, ci ha lasciato una preghiera, che però non sono riuscito a trovare; ve l’avrei letta volentieri, perché per conto mio è alla pari con quella di Teresio, se non la supera: “Ribelli per amore”. Non è una frase enfatica, ma un’espressione autentica di fede, di convinzione e di impegno, assunta allora da giovani pensosi, disinteressati, generosi, disposti, come ha detto tanto bene Dario, e lo ringrazio di averlo detto: più disposti a farsi uccidere che non ad uccidere. (…) Non per diminuire il valore del sacrificio di altri, di cui si passa in rassegna qui nel libro di Morelli, ma il libro stesso ha voluto essere un omaggio alla memoria di Don Giacomo Vender. E non possiamo non ammirare in lui l’espressione più genuina e più significativa. Egli, come in guerra ha condiviso il nome di Cristo, il pericolo, il logorio dei suoi uomini, così liberamente si è lasciato coinvolgere nel rischio della resistenza, manifestando tutta la ricchezza del suo animo sacerdotale, e tutte le risorse della sua geniale personalità. La sua penna, e lo vediamo dagli scritti, è rapida ed espressiva, sia in guerra, sia in carcere. Vorrei leggervi ora due passi che mi sembrano particolarmente significativi. Il primo è stato scritto durante il suo servizio nella Croazia. Lo leggo per far sentire la profonda religiosità di questo uomo:
“La vita e il presidio stagna gli spiriti e li putrefà, e il mio ministero in queste ore di ozio si fa difficilissimo. Sono amato sì per simpatia e per il ricordo di quello che ho fatto, ma non raccolgo”.
Un altro passo che mi sembra molto significativo è in quel bel capitolo che Morelli scrive in prigione:
“Mancò il pensiero che sommuove le cose nel loro vero, che coglie le ragioni della verità stessa, che si dirige con un moto d’amore verso l’uomo perché immagine ed eterno non cada in servitù, non pieghi al gioco degli istinti ed alle prepotenze; fu abbandonato alla corrente lavica fascista, ne rimase imprigionato, impietrito: è l’ora di svincolare questa divina potenza che presiede al triplice gioco della vita – Idea, amore, fazione – dalla crosta duramente informe, è ora di liberare gli spiriti dall’inferno nazifascista”.
In Vender era presente un amaro realismo e nello stesso tempo dominava un sereno ottimismo. Don Vender ci appare con l’ardimento del profeta che annunzia la verità scaturita da Dio, e denunzia la menzogna che parla dalla violenza; in un suo famoso scritto, egli commenta il verso di Dante “facemmo dei remi un folle volo”, scelto da Mussolini come verso preferito, e ne fa un contrappunto dove mette in evidenza questo aspetto infernale di un regime che si affermava nella violenza e nella prepotenza. La carità divampa nel suo cuore: è quello che emerge da quanto è stato raccolto in questo libro; egli non pensava mai a sé stesso, si preoccupava soltanto ed esclusivamente degli altri. La sua temerarietà è sostenuta da un’illimitata fiducia nella Provvidenza; egli non conosceva flessioni e non ammetteva scoraggiamenti. Mi par di sentirlo ancora. Allora, in quel luogo infernale, incoraggiava tutti quelli che avevano momenti difficili e di depressione. Sono parole di stimolo che hanno fatto di lui un trascinatore, un capo, un maestro. Con la stessa linearità con la quale era passato dal servizio di una parrocchia di città a quella di cappellano sul fronte orientale, e quindi ad assumersi l’onere della assistenza ai partigiani, dei suoi compagni di carcere, accettò poi l’impegno di delegato, per giungere alla costruzione di una parrocchia suggestiva. I suoi ultimi giorni furono amareggiati dalla scritta dei contestatori, che ebbero la rozza spudoratezza di bollarlo quale fascista. Mestamente commentò: “Sono i figli dei fascisti?”.
Qui la mia modesta riflessione, è pungolata dalla convinzione che tra fascismo e certo antifascismo ci sono delle remote e latenti convivenze. A motivo di una radice comune che potremmo esprimere con alcune parole come illuminismo, immanentismo, storicismo. Quale analogia, possiamo anche domandarci, vi può essere tra contestazione e resistenza? Non possiamo negare che almeno in alcuni la contestazione espresse una esigenza di autenticità, di coerenza e di pulizia. Ma l’assunzione di una mentalità orizzontalista e quindi immanentistica ha compromesso proprio quei valori che si volevano promuovere. Ribellismo e brigatismo non si possono confondere, come estremi atteggiamenti di uno stesso ideale. Sarebbe un imperdonabile equivoco, tra legittimità di difesa e arbitrarietà di violenza. Né crediate che con il radicalismo libertario siamo usciti dall’equivoco: da questo esasperato privatismo, che chiede complicità di servizi allo stato e che nulla ha a che fare con il primato della persona, emerge ancora lo spettro del super uomo grazie alle rinnovate simpatie per Nietzsche. Anarchia e tirannia finiscono per toccarsi, perché negano il binomio vitale persona – comunità. Che cosa si prefigge questa nostra rievocazione? E’ un doveroso, affettuoso e commosso omaggio a quegli amici che non sono più tra noi e che idealmente ed esemplarmente hanno pagato di persona il prezzo di valori irrinunciabili. Ma ci preoccupiamo tanto, e a ragione, perché le nuove generazioni poco conoscono; nessuno è estraneo a questo periodo in cui proprio i giovani hanno impegnato sé stessi con mirabile abnegazione per un ideale religioso, morale e civile. E’ giusto quindi che facciamo conoscere, anche se troppo tardi, dopo 37 anni di libertà democratica, quanto sia costata la libertà e quali ne siano stati gli umili, ma eroici artefici. Confesso che quando avevo vent’anni mi era più spontaneo rivolgermi al passato. Il mio lungo ministero mi ha impegnato nel presente. Ma ora che sto compiendo ottant’anni il mio sguardo indaga il futuro, non per presunzione profetica, ma per poter indicare una meta tra le realtà penultime introspettive delle ultime supreme realtà alle nuove generazioni, che si presentano più disponibili ad accettare maestri e consigli. Ed era proprio questo l’assillo che in piena resistenza urgeva il grande cuore di Teresio Olivelli e che spesso era un bell’oggetto di dialogo. Ma per la credibilità di questo eccezionale passato non basta fare della storia, anche se scientificamente impegnata, quindi oggettiva e per quanto possibile esauriente; occorre far memoria nel senso obiettivo della parola, cioè rendere presente, operabile e partecipante al passato con una testimonianza viva e attuale, fedele e continuatrice di un ideale incarnato nel sacrificio e amorosamente comprensiva di nuove istanze autentiche. C’è da chiedersi se la liberazione in senso politico e ideologico è stata accompagnata da una liberazione in senso ascetico interiore. E quindi capace di una assunzione di responsabilità nel servizio della società e nella comprensione delle sue istanze. Lascio la parola ad altri.
NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 28.4.1982 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.