Nei venti mesi che vanno dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 gli italiani sperimentarono direttamente sulla propria pelle il regime di schiavismo e di terrore imposto dal nazismo e nella gerarchia dell’oppressione vennero al terzo posto, dopo gli ebrei e i russi. Affratellati agli altri popoli, gli italiani presero coscienza della dimensione europea della crisi prodotta dal conflitto. E come gli ex prigionieri, inseriti nelle formazioni germaniche, affluirono nelle nostre bande partigiane, così tanti nostri soldati si affiancarono ai ribelli greci, iugoslavi, francesi.
Non si possono intendere le vicende italiane del 1943-45 senza richiamare alla memoria l’abisso di orrore in cui l’Europa era stata gettata. Nei territori occupati dai nazisti le popolazioni venivano deportate in massa. Dovunque era applicato il principio della responsabilità collettiva, che si concretizzava nell’uccisione di un gran numero di ostaggi. I principi razzisti venivano attuati con scrupolosa, raffinata barbarie. Sterminati nei loro ghetti e deportati nei campi di annientamento di Auschwitz, Buchenwald, Mauthausen, Dachau e nelle altre centinaia di campi minori, vennero trucidati non meno di 5 milioni di ebrei. Né va dimenticato che tra il giugno del 1941 e la primavera del 1945 la stessa sorte toccò ad altri 6 milioni di non ebrei. Il nazifascismo con la tirannide e il genocidio aveva distrutto ogni senso di ordine umano e divino, aveva offeso giustizia, legge, umanità, gratitudine e decenza. Resistere significò, dunque, rifiutare moralmente e politicamente il nazifascismo e, di conseguenza, scendere in lotta contro il dominio straniero e contro i governi e le forze che erano al suo servizio.
Rinchiusi negli stessi campi, i rappresentanti delle tre chiese cristiane – cattolici, evangelici e ortodossi – sotto la sferza di Satana riscoprirono la loro comune identità nel Vangelo e tornarono a riconoscersi fratelli, avendo compreso che l’era razziale, se fosse stata vittoriosa, avrebbe cancellato l’era cristiana. Carlo Manziana – il padre oratoriano che era stato tra i fondatori della Moecelliana e che dopo l’8 settembre 1943 fu deportato a Dachau – ci ha tante volte ricordato che nel lager cominciò il suo cammino il movimento ecumenico, che avrebbe segnato profondamente la seconda metà del secolo XX, contribuendo altresì a preparare in campo cattolico la svolta del Concilio Vaticano II. L’impero delle SS sull’Europa rese visibile a tutti quanto fosse nel vero un grande spirito europeo, lo storico olandese Johan Huizinga, quando nel 1935 aveva scritto che “con il nazismo forse per la prima volta l’umanità si trova di fronte a un decadimento dello spirito tale da menar diritto a un satanismo che innalza il male a norma e a segnale luminoso”.
Fu questa componente etica ed etico-religiosa di rifiuto del disumanesimo nazista a caratterizzare la Resistenza come opposizione radicale al razzismo, al nazionalismo imperialistico e al totalitarismo, condizionando e sovrastando il dibattito politico e la stessa lotta armata. Nel cuore della Resistenza europea e italiana ci fu anche – e ne fu l’espressione più alta – la ribellione per amore. Ci fu la Resistenza come rivolta morale. Di essa scrisse Teresio Olivelli sul secondo numero del Ribelle, il 26 marzo 1944: “Ribelli: così ci chiamano, così siamo e vogliamo essere… Siamo ribelli e la nostra è anzitutto una rivolta morale… Dinanzi alla più organizzata barbarie che sia mai esistita da quando Cristo levò la sua parola redentrice, in un momento in cui pare che non ci sia più nulla da salvare, bisogna gettare se stessi nell’inferno della vita con rischiosa ed intensa moralità, liberi non solo da ogni contaminazione, ma anche dalla tentazione degli affetti, con l’animo proteso alla nuova città. A questa nuova città – più libera, più giusta, più solidale, più cristiana – noi aneliamo. Per essa lottiamo perché sentiamo di essere l’esercito reale della nazione e dell’umanità”.
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In un libro sbagliato, anche se scritto da una persona che stimo per altre ragioni, si è parlato della morte in Italia del concetto di patria dopo l’8 settembre 1943. No, non si capisce nulla della Resistenza se non si ricorda che essa segnò la riscoperta di un nuovo senso di patria, in antitesi alla retorica della politica di potenza e al nazionalismo bellicista del fascismo, in diretta connessione col nostro Risorgimento. Lo testimoniano le Lettere di condannati a morte della Resistenza (Einaudi, Torino 2002, sedicesima ristampa), che ad ogni lettura non cessano di stupirci per la purezza d’animo e la fierezza di coloro che le scrissero.
Franco Balbis, torinese, ufficiale in servizio permanente effettivo, scrive: “Con la coscienza di aver sempre voluto servire il mio Paese con lealtà e con onore, mi presento davanti al plotone di esecuzione col cuore assolutamente tranquillo e a testa alta. Possa il mio grido Viva l’Italia libera sovrastare e smorzare il crepitio dei moschetti che mi daranno la morte. Muoio per il bene e per l’avvenire della nostra patria, per la quale muoio felice!. E Mario Batà, romano, studente di ingegneria con una sola, lapidaria espressione dice ai genitori: “Perdonatemi se ho preposto la patria a voi”. L’operaio Guido Galimberti, bergamasco, non si esprime in termini diversi: “Care bimbe, ora non potete leggere questo mio ultimo saluto, ma lo leggerete un tempo nel quale potrete comprendere; allora apprenderete in questo foglio la morte di vostro padre e saprete che è morto da soldato e da italiano e che ha combattuto per avere un’Italia libera. Spero che non piangete quando leggerete questo mio scritto. Spero che quando sarete grandicelle, la mamma vi farà imparare ad amare l’Italia. L’amerete con tutto il cuore, addio”. Francesco Franchi, un umile cameriere bresciano, nella lettera inviata alla sorella, pur nell’impaccio dell’espressione e dell’incerta grafia, ci dà un’alta lezione di vita: “Oggi 2 dicembre 1943 ho avuto il processo, e le mie proteste non valsero a scongiurare la pena da loro già prefissa ancora prima d’interrogarmi… Sono stato condannato, sì, per bandito ma la vera causa è perché sono stato fedele alla mia patria”. E quando, siamo al 29 febbraio 1944, gli aguzzini danno alla fiamma verde Peppino Pelosi la notizia che quella stessa sera sarà giustiziato, quell’ufficiale dell’esercito che sulle montagne continuava a servire la patria, scrive nella lettera-testamento: “Chiudo questa mia vita serenamente. Non ho rimpianti nel lasciarla perché coscientemente l’ho offerta per questa terra che immensamente ho amato, e anche ora offro questo mio ultimo istante per la pace nel mondo, e soprattutto per la mia diletta patria, alla quale auguro figli più degni di me e un avvenire splendente”.
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Nel primo Risorgimento l’amore della patria ebbe sempre un significato non esclusivo – secondo le grandi parole di Mazzini: “Io amo la mia patria perché amo tutte la patrie” – e fu strettamente congiunto ad una prospettiva limpidamente europeistica. Passando in rassegna all’Istituto Storico della Resistenza bresciana, gli originali della stampa clandestina apparsa tra il maggio e il settembre del 1943, mi sono commosso nel constatare quanto fosse viva in quelle prime pubblicazioni la coscienza che la nuova Italia non poteva avere un futuro libero e degno se non in un’Europa riconciliata, decisa a costruire giorno dopo giorno la sua unità politica ed economica. Anche qui si vede quanto profonda sia la continuità tra il primo Risorgimento e la Resistenza, che ben può dirsi il nostro secondo Risorgimento. “Sapremo perdonare anche ai tedeschi – si legge nel primo numero di Risorgimento liberale del 18 agosto 1943 – quando saremo nella comunità di un’Europa libera e civile. Ad un’Europa libera, affratellata nello sforzo di rinascita, tendono le speranze di tutto il nostro popolo”. E nel maggio 1943, in piena clandestinità, L’unità europea aveva scritto: “Alla fine di questa guerra l’unificazione dell’Europa rappresenterà un compito possibile ed essenziale: il solo capace di far cessare per sempre la guerra fra i popoli del nostro continente e di ridare alla sua storia un nuovo significato, un ruolo più alto”.
NOTA: testo, rivisto dell’Autore, della conferenza tenuta il 22.4.2002 a Brescia su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura. Testo pubblicato su Humanitas (n.5 del 2003).