Ringrazio anch’io per l’invito gli organizzatori di questo incontro, un invito accettato non senza qualche imbarazzo. Perché, parliamo questa sera di Olivelli di fronte a persone che hanno vissuto la sua stessa esperienza e che gli sono stati compagni. Non ho nemmeno la mediazione di un maestro, ma solo l’esperienza di un lettore di un’altra generazione per questa vicenda ed altre vicende, l’esperienza di un Olivelli incontrato per la prima volta nella sede di “Ricerca”, il mensile nazionale della Fuci che conservava, almeno in quegli anni, la “Preghiera del ribelle” appesa ad una parete e quindi la memoria di questo suo “fucino”. E tuttavia forse anche la rilettura da parte di chi non ha vissuto quella stagione può avere un senso se, come è stato detto, in quella esperienza noi riconosciamo non solo l’esperienza fondante una fase della storia, ma in qualche modo la radice della democrazia e della libertà presente, in cui non solo quella generazione, ma tutti, e ci auguriamo anche le future generazioni, possano vivere.
Voglio quindi cercare di individuare alcuni elementi che possono parlare oggi all’interno di questa vicenda, non tanto per vedere che cosa è rimasto ancora oggi vivo, ma che cosa, proprio oggi, pren-de vita in un certo senso nuova nel rileggere questa storia.
Il primo punto è che si tratta di una storia di persone, in questo caso di persone che vivevano nella vita intellettuale (e che quindi riscattavano l’accusa del tradimento degli intellettuali che era stata scagliata proprio in quegli anni), la scelta di vivere nel destino del proprio popolo, e quindi la teolo-gia dell’incarnazione che emerge con forza da queste vicende, una teologia non solo teorizzata, ma vissuta fino al sacrificio di sé. Il momento di svolta nell’esperienza di Olivelli, sono più o meno concordi tutti i biografi e forse quanti gli sono stati vicini possono ulteriormente confermarlo, è il momento della campagna di Russia, nel momento del ritorno, là dove Olivelli, scrivendo nella pri-mavera del ’43, commenta questa esperienza con le parole: “Troppo grande è il sacrificio. Troppo difficile imprimergli un senso, conferirgli una utilità. Resta il mito che non persuade, ma trascina”. Ecco, si consuma in questo riconoscimento del sacrificio troppo grande la svolta di Olivelli. Una svolta da un’adesione convinta al fascismo a quello che poi sarà l’impegno resistenziale, ma una svolta, come è stato giustamente notato (lo ricorda anche il professor Moretto nel suo saggio conte-nuto in questo fascicolo di Humanitas), nei confronti del regime, non nei confronti delle motivazio-ni che avevano portato Olivelli ad aderire al fascismo. In fondo le motivazioni erano proprio quelle di stare dalla parte del proprio popolo. E quindi anche questa svolta andrebbe riletta sulla base di questa comprensione più profonda e più generale. “Troppo grande quel sacrificio”: e l’accento non è tanto sul sacrificio, perché Olivelli era stato educato alla mentalità del sacrificio ed, anzi, forse proprio la sottolineatura che il fascismo aveva fatto del tema del sacrificio, della dedizione di sé nei confronti degli altri, poteva in qualche modo averlo anche affascinato. L’accento sta invece su quel “troppo grande”. Qui vi è la denuncia nei confronti di una politica che aveva superato ogni limite, che si era fatta totale, aveva inghiottito ogni frammento di umanità ed aveva reso l’uomo strumento dei disegni di potere. È qui, davanti al sacrificio dei compagni, che Olivelli matura il suo distacco da una politica totale come era quella del regime fascista e che in parte lui aveva ritenuto essere il modo corretto della politica. E forse in questo “troppo grande” vi è anche la confessione di una ge-nerazione che aveva creduto in questa politica totale.
Questa dunque è una svolta, ma una svolta, come dicevo, non rispetto alla volontà di condividere il destino del proprio popolo, di stare dalla parte soprattutto dei più deboli, come già Olivelli aveva testimoniato anche da studente universitario. Ed è questo popolo disorientato che, dopo l’8 settembre, Olivelli non vuole abbandonare e la storia è nota: instradato verso la Germania continua a fuggire. Giustamente padre Manziana nella sua omelia ha sottolineato questo tema della fuga, la fuga attraverso le montagne, e quanto c’è di pregnante in questo nesso tra montagna e resistenza. È uscito proprio in questi giorni un numero speciale di una rivista di alpinismo che rivisita, nell’anniversario della Resistenza, il nesso tra montagna e Resistenza. Per noi era naturale, dicono tanti di allora, andare in montagna. Dove si poteva andare? C’è una frase di Meneghello che dice: “Dovevamo mettere in salvo i misteri”. I misteri, le cose più profonde, quelle cose che il crollo del regime sembrava trascinare con sé. E dove metterle in salvo quando la città crolla se non appunto in montagna, quella montagna così amata da Olivelli? Forse in questo moto di ascesa verso la montagna, e di discesa verso le catacombe della città, va riconosciuto non solo un tratto, una direzione della storia di Olivelli e di tanti resistenti, ma una direzione più profonda dell’agire politico. Un moto appunto di ascesa, che mette in salvo dalle rovine della città, e un moto di incarnazione, di discesa. Sui monti ventosi e nelle catacombe delle città: questi sono i due poli all’interno dei quali si distende e si dispiega l’agire politico. Questo stare dalla parte del popolo, l’ha ricordato prima il professor Moretto molto bene, è anche tipico della testimonianza di Bonhoeffer. Proprio Bonhoeffer può darci la chiave di lettura di questo condividere il destino del popolo, là dove rilegge l’etica della responsabilità, come etica della sostituzione vicaria. C’è un capitolo dell’Etica di Bonhoeffer, La struttura dell’azione responsabile, che sembra quasi scritto come un contrappunto al testo di Max Weber La politica come professione. Punto per punto sembra che Bonhoeffer voglia rispondere a Weber e voglia in qualche modo riscattare questo concetto così alto della responsabilità come era stato posto da Weber, ma così deturpato dai regimi totalitari. Non era forse Mussolini a rivendicare di essere responsabile dell’assassinio Matteotti in parlamento? Non era forse Hitler a dire – io sono il responsabile e mi assumo la responsabilità – nei confronti di quello che era successo dopo la stra-ge delle SA [Sturm Abteilungen, Sezioni di assalto]? Questa parola, responsabilità, rischiava di di-ventare una sorta di copertura per una politica che, spacciando appunto come dedizione alla causa le scelte contro l’umanità, diventava invece una politica irresponsabile e Bonhoeffer sottolinea come la responsabilità non sia una responsabilità nei confronti di una causa generica, ma sempre nei confronti di una persona o di persone concrete. Il modello della responsabilità è il modello dell’essere per altri, della radicale sostituzione, del prendere il posto dell’altro. E il prendere il posto dell’altro è assumere la colpa che ogni atto politico porta con sé e assumere anche la colpa dell’altro. Questo atto di responsabilità di Bonhoeffer nel partecipare alla congiura, e di Olivelli nel rientrare in Italia per partecipare alla Resistenza, è compiuto nella consapevolezza che questa scelta è un’assunzione di colpa. Lo sapevano, e lo dicevano molto bene, coloro che parteciparono alla congiura contro Hitler: “Quando noi avremo compiuto questo gesto sapremo che non potremo mai perdonarci di aver tradito in qualche modo. Ma se non compiremo questo gesto avremo tradito la nostra coscienza”. Proprio l’esperienza del totalitarismo mette in luce come ogni agire politico portasse con sé questa assunzione di colpa. Non vi era un agire innocente.
E questo ci introduce al secondo punto, che è il tema anche di stasera: la rivolta morale. In tutte queste esperienze di resistenze condotte con questa radicalità, vi è forse l’avvertire una sorta di compartecipazione alla colpa. Rivolta morale della Resistenza significa che la Resistenza non è solo una rivolta contro l’oppressore, ma è rivolta anche contro il servilismo che ha consentito all’oppressore di instaurare il suo regime. E quindi una lettura del totalitarismo non solo come un regime introdotto con la forza, con l’astuzia, da un gruppo di potere dall’alto, ma come qualche co-sa di più complesso, di più strisciante, che si era fatto strada dal basso in quegli anni in Italia e in Germania: lo spirito del gregge, l’istupidimento denunciato da Bonhoeffer nel testo Dieci anni dopo, ora in Resistenza e resa. In un articolo di Olivelli, citato da Caracciolo, la rivolta è anche rivolta “contro la massa pecorile pronta a tutti servire, a baciare le mani che la percuotono, contenta e grata se le è lasciato di mendicare nell’abominio e nella miseria una fievole vita. Contro una cultura fradicia […] contro gli ideali d’accatto, il banderuolismo astuto, l’inerzia infingarda, l’irresolutezza codarda…”
E ancora su questo tema si potrebbero richiamare i volantini della «Rosa Bianca», di quegli studenti della Resistenza tedesca che denunciavano la colpevolezza del popolo tedesco nei confronti del regime che si era installato in Germania. Scrivevano gli studenti della «Rosa Bianca»: “Ognuno vuole liberarsi da questa complicità, ciascuno cerca di farlo ma poi ricade nel sonno con la più grande tranquillità di coscienza. Ma egli non può scagionarsi: ciascuno è colpevole, colpevole, colpevole!”
In un regime così totalitario come quello tedesco, certamente più restrittivo rispetto a quello italiano, individuano tuttavia una forma di corresponsabilità anche nei cittadini. E qui la Resistenza come rivolta morale fa capire che la libertà non può essere identificata con una conquista esteriore, che venga donata dall’alto. È invece una conquista interiore, è un atto che ognuno deve compiere al suo interno. Olivelli scrive: “Mai ci sentimmo così liberi come quando ritrovammo nel fondo della nostra coscienza la capacità di ribellarsi alla passiva accettazione del fatto brutale, di insorgere contro il bovino aggiogamento allo straniero, di risorgere a una vita di intensa e rischiosa moralità”. E più oltre, “Non vi sono liberatori, solo uomini che si liberano”. Era qui espresso anche il rifiuto di leader politici che si erano presentati come salvatori della patria, come liberatori.
Vi è poi un terzo elemento che è significativo, e forse talvolta lasciato in ombra, che riguarda quel momento, sia pur breve e frammentario, di progettazione del futuro, che è contenuto in queste storie di resistenti. Nell’attività di Olivelli non c’è solo un’attività di animazione, ma c’è anche un’attività, come in altri gruppi della Resistenza, di elaborazione per l’Italia del futuro. E così c’è anche in Germania, non direttamente nell’esperienza di Bonhoeffer, ma nei circoli con cui Bonhoeffer era pure in contatto, soprattutto nel Circolo di Kreisau, attorno a von Moltke. Anche in Italia vi sono molti esempi di manifesti, di codici, di progetti. Ed è interessante notare come all’interno di questo sforzo di progettazione del futuro non vi sia solo, centrale, questo tema della libertà, chiaramente in funzione antitotalitaria, ma vi sia anche un fortissimo senso della giustizia sociale, della solidarietà, qualcosa che è andato smarrito via via negli anni, ma che invece in quel momento risultava particolarmente forte. Anche nel testo che Olivelli aveva elaborato [Schema di discussione di un programma ricostruttivo ad ispirazione cristiana] vi è la dura condanna dei regimi materialisti, dei regimi capitalisti, dei regimi imperialisti, che erano visti come uno dei fattori che aveva in qualche modo contribuito poi allo sviluppo del totalitarismo. E non certo per una vicinanza al socialismo marxista che, anzi, era decisamente osteggiato e rifiutato, ma per un recupero invece dei contenuti del cristianesimo sociale e delle Encicliche sociali. Questo dell’ordinamento delle solidarietà è un tema che andrebbe forse oggi ripreso e che in quelle fasi veniva messo al centro non solo come ordinamento degli Stati, ma come ordinamento di rapporti tra gli Stati. E sono fortissimi in questi momenti di guerra i progetti di un assetto, di una comunità internazionale, solidale. “Nell’ambito di questa – si legge appunto nel documento di Olivelli – al di là di ogni particolarismo, verranno difesi e propugnati i diritti di tutti gli uomini e di ogni popolo all’esistenza, allo sviluppo, alla partecipazione, ai beni della terra”. Contro il nazionalismo, contro il prevalere dei paesi ricchi sui paesi poveri, contro i rapporti predatori.
E, infine, un ultimo punto: il senso di questo sacrificio. Questo nostro itinerario è iniziato con la ri-flessione sull’esperienza russa, con le parole “Troppo grande questo sacrificio” e l’itinerario di Olivelli si conclude con un sacrificio. E così quello degli altri resistenti qui stasera ricordati. È stata molto bella la sottolineatura del professor Moretto sul cristianesimo di Olivelli e di Bonhoeffer, che non era certo un cristianesimo della debolezza, della rassegnazione, del sacrificio inteso appunto come qualche cosa che deturpa la vita e la comprime, ma come qualche cosa che sottolinea la forza, la passionalità, l’entusiasmo, la corporeità. È quanto di Péguy, di Mounier, di Bernanos (sono autori carissimi anche a Bonhoeffer) si potrebbe ritrovare in questa spiritualità. “Esagerarsi per mantenersi intensi”: questa è una delle parole d’ordine. E qui mi pare che si possa quasi vedere la vicenda di Olivelli come il riscatto di una possibile concezione sacrificale della politica o di una concezione militante del cristianesimo che poteva avere degli esiti trionfalistici. Proprio l’esito della vicenda di Olivelli riscatta invece questo pericolo, là dove l’azione dell’uomo si apre all’azione di Dio, non nel senso che rivendica l’azione di Dio a sostegno del proprio progetto, ma nel senso che si mette in ascolto e si modella sulla scia di un disegno più ampio. Si fa imitazione e incorporazione. E Olivelli medita, è già stato ricordato prima, su questo tema della espiazione come via attraverso cui si prepara la resurrezione. È proprio Bonhoeffer ad aiutarci a leggere questo elemento: il senso della sofferenza non è nella sofferenza stessa, ma nel rapporto con la croce di Cristo. Scrive infatti Bonhoeffer: «Noi certo non siamo Cristo e non siamo chiamati a redimere il mondo con le nostre azioni e la nostra sofferenza; non dobbiamo proporci l’impossibile né angosciarci per non esserne all’altezza; non siamo il Signore, ma strumenti nelle mani del Signore della storia, e possiamo condividere realmente le sofferenze degli altri uomini solo in misura molto limitata. Noi non siamo Cristo, ma se vogliamo essere cristiani dobbiamo condividere la sua grandezza di cuore nell’azione responsabile, che accetta liberamente l’ora e si espone al pericolo, e nell’autentica compassione che nasce non dalla paura, ma dall’amore liberatore e redentore di Cristo per tutti coloro che soffrono. Attendere inattivi e stare ottusamente alla finestra non sono atteggiamenti cristiani».
Vorrei allora concludere dicendo che Olivelli e i resistenti non vanno qui ricordati, rispettati, a loro non va riconosciuto di aver ragione perché sono morti per le loro idee. Fosse così non sarebbero che esempi di quella logica del morire per le belle idee che era tanta parte della cultura ottocentesca e novecentesca, di una cultura che sacralizzava la politica (ricordate i martiri della patria), che faceva della politica una dea avida di sacrifici umani. In questo la Resistenza sarebbe un secondo Risorgimento, ma nella sua versione più discutibile. E invece la grandezza di questo insegnamento sta pro-prio nel superamento della visione sacrificale della politica attraverso la partecipazione al sacrificio di Cristo. Il potere si nutre e si sostanzia di sacrifici umani e proprio in questi anni, ’43 – ’45, si misura lo scontro che è stato davvero uno scontro anche teologico. Da un lato il regime, che per com-pattarsi compiva l’estremo sacrificio del capro espiatorio, la strage degli innocenti, lo sterminio del popolo ebraico, il sacrificio dell’altro, usato come collante sociale. Prima il professor Moretto ricordava chiacchierando il fratricidio che è alla base della città degli uomini, e si ricordino i riti delle S.S., così profondamente interpretati da Dossetti nella sua splendida introduzione al volume di L. Gherardi Le querce di Montesole, una strage nelle prigioni di Marzabotto, in cui le S.S, compivano stragi di bambini, di donne, di sacerdoti, con questi riti, con questa sorta di liturgie sacrificali. E dall’altro lato il sacrificio di sé come partecipazione alla vicenda di Cristo. Non il fratricidio, ma il dare la vita per il fratello spezza la catena dei sacrifici umani, esce dalla logica infernale della città costruita sull’assassinio del fratello, desacralizza il potere e lo denuda definitivamente. Sono davvero i martiri gli unici a poter fronteggiare l’anticristo e gli unici a poter in qualche modo uscire da questa visione sacrificale della politica. Nel 1848 Kierkegaard, un pensatore assolutamente non politico, l’aveva in qualche modo profetizzato. Nel momento in cui il quarto stato entra nella storia, le masse entrano nella storia, non saranno più i re e i papi a governare, ma solo i martiri potranno governare. Olivelli e gli altri resistenti non sono allora morti per le belle idee, perché in questa visione restiamo nella visione sacrificale della politica, e ognuno si può aggrappare ai suoi morti, anche dall’altra parte ci sono i morti per le belle idee, e su questo piano ci rimarrebbe in mano solo la memoria mesta di una guerra civile. Ma non era questa l’interpretazione che Olivelli e Bonhoeffer davano; nessuno si sognava di combattere una guerra civile in quel momento. Era invece, più semplicemente, un dare la vita per gli altri. In ciò Olivelli e gli altri resistenti hanno partecipato a questa misteriosa espiazione di cui ci parla Guardini nella sua commemorazione degli studenti della «Rosa Bianca», là dove dice: «Nessuno può dire dove è stata sofferta la liberazione che conduce la sua vita alla libertà. E nessuna conoscenza scientifica può stabilire sulla base di quali espiazioni di un’epoca viene concessa la grazia di un nuovo inizio, di cui essa poi approfitta come se fosse un fatto naturale».
Custodire questa memoria della sofferenza, memoria passionis, è un impegno per conservare e rinnovare l’origine della nostra libertà presente.
Testo, non rivisto dell’Autore, dell’incontro tenuto il 28.3.1995 a Brescia su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.