L’autunno del 1944 fu il momento più drammatico della Resistenza. L’offensiva antipartigiana toccò il punto più alto e dappertutto si moltiplicarono le catture, le torture, le esecuzioni capitali, le impiccagioni, le stragi compiute sulla popolazione per rappresaglia contro qualche azione partigiana. Col 1° ottobre il maresciallo Kesserling ordinò l’attuazione di una «settimana di lotta» contro le bande dall’8 al 14, impiegando in essa «oltre ai reparti di lotta antibande delle SS e della polizia in Italia, anche tutte le riserve tattiche che si trovano in ognuna delle zone d’attacco, reparti scuola, unità di allarme e di comandi di piazza e aerea». Tutti i preparativi dovevano essere mascherati e le azioni effettive comunicate solo ai comandanti nei limiti assolutamente necessari e all’ultimo momento. Il feldmaresciallo contava molto sulla sorpresa e voleva che la lotta fosse condotta «con la massima asprezza» in vista degli obiettivi da raggiungere. In realtà la «settimana Kesserling» durò tutto l’autunno, con attacchi contemporanei in ogni regione e con decine di migliaia di uomini, sei divisioni tedesche e quattro divisioni fasciste più le milizie di partito, lanciati alla caccia e alla eliminazione totale dei partigiani.
Che cosa aveva reso possibile l’iniziativa nazifascista? Le cause sono molteplici e convergenti. Tra la primavera e l’estate del 1944 c’erano stati errori di valutazione nel credere prossimo l’arrivo degli alleati e imminente l’epilogo finale. Come osservò Rodolfo Morandi, in «Politica di classe» del gennaio 1945, si cadde in qualche eccesso nel preconizzare innanzi tempo l’insurrezione. Pure secondo il Carrocci se per alcuni si deve parlare di «errore» per altri si deve parlare di un consapevole disegno. «Ciò fu fatto per deliberata volontà dei capi, soprattutto di quelli comunisti» (La “Resistenza italiana”, Milano, Garzanti, 1963, p. 56). Luigi Longo, dal canto suo, ebbe poi francamente a scrivere: «Spesso abbiamo anticipato come un elemento di fatto, quello che, nel momento dato, era ancora solo un’indicazione» (“Sulla via dell’insurrezione nazionale”, Roma, 1954, p. XX). La lotta perdurava al di là di ogni previsione e solo uno sforzo di costante nobilitazione poteva evitare il ristagno, l’attendismo, la dispersione degli elementi meno decisi. V’è poi una seconda ragione. Paradossalmente si può dire che furono anche i successi conseguiti dai partigiani in tredici mesi di lotta, spinta al massimo delle possibilità, a costringere il nemico ad una reazione così violenta. Infatti i partigiani, dopo l’offensiva dei mesi precedenti, in concomitanza con l’avanzata da Alexander da Roma (4 giugno) a Firenze (13 agosto) controllavano le vie di comunicazione strategiche dell’esercito tedesco. La controffensiva nazifascista d’autunno mirò proprio a liberare le vie di comunicazione con la linea gotica, con la Germania (anche per poter apprestare le difese contro un’eventuale penetrazione oltralpe delle armate alleate) e con la Francia (con la quale le possibilità di collegamento erano divenute necessarie all’esercito tedesco in Italia, soprattutto dopo lo sbarco alleato in Provenza).
I nazifascisti potettero disporre di grandi forze per attaccare con decisione perché dall’agosto il fronte italiano rimase fermo, essendo divenuto secondario a causa dello sbarco in Francia. L’esercito di Kesserling, rinforzato da otto divisioni provenienti dall’Europa settentrionale e dalla Russia, era in grado di opporre sulla linea La Spezia-Rimini una resistenza molto più tenace di quella che Alexander avesse previsto. Non c’era in Alexander la volontà di non avanzare; egli, anzi, pensava di poter sfondare attraverso Lubiana e penetrare nella pianura ungherese, ma i suoi piani divennero ineseguibili del tutto nel momento in cui sembrava che la vittoria fosse a portata di mano, per il semplice fatto che si sottrassero ben sei divisioni al fronte italiano, per impiegarle appunto nella Francia meridionale. Il capo dello Stato maggiore inglese, Alanbrooke, era sicuro, come lo era sempre stato, che Hitler, finché fosse stato premuto in Italia, avrebbe continuato a resistere, per ragioni politiche, a questa pressione, anche a costo di indebolire fronti ben più importanti e più vicini al cuore del Reich. Alanbrooke era a ragione fortemente irritato perché il suo collega americano non era mai riuscito a capire quale trappola fosse l’Italia per l’esercito tedesco, data la riluttanza innata di Hitler a cedere terreno (Il dissidio è ben documentato da A. Bryant in “Trionfo in Occidente”, trad. it. Longanesi, 1966).
L’8 ottobre – come s’è detto – Kesserling aveva scatenato l’offensiva antipartigiana, con un dispiegamento di uomini e di mezzi impressionante. Il giorno seguente, il 9, Churchill si era accordato con Stalin nella spartizione dell’Europa in sfere d’influenza o addirittura di dominio. Ricorderà Churchill: «Scrissi su un foglietto di carta le mie proposte: Romania, novanta per cento alla Russia, dieci a noi; in Grecia, novanta all’Inghilterra e dieci alla Russia, in Ungheria cinquanta e cinquanta, in Jugoslavia cinquanta e cinquanta, in Bulgaria settantacinque alla Russia. Passai il foglietto a Stalin, il quale vi segnò sopra un visto a matita». In quel foglio si taceva della martoriata Polonia. Sappiamo come poi si siano sostanzialmente modificati quegli accordi, e a vantaggio di chi, ma nel momento in cui i «big» decidevano del destino dell’Europa, molti pensarono che veniva a cadere, almeno in parte, l’interesse inglese ad affrettare la liberazione dell’Italia per avanzare nei Balcani. In realtà, anche a questa ipotesi interpretativa ci sarebbe da apportare qualche limitazione, se è vero, seconda la testimonianza di un protagonista molto attendibile, Alanbrooke, che alla conferenza di Mosca furono ancora i russi, e per bocca di Stalin, a proporre un’invasione inglese dell’Istria e un attacco combinato su Vienna, perché la resistenza tedesca nella valle del Danubio si stava dimostrando più tenace del previsto ed essi avevano bisogno dell’aiuto dei loro alleati per superare il punto morto. Furono ancora una volta gli americani a rifiutarsi di mandare in Italia altre truppe, avendo Eisenhover dichiarato che in Francia dovevano essere impegnate anche le riserve.
Non c’è bisogno quindi di trasformare il disappunto più che comprensibile e l’amarezza profonda dei partigiani in accuse spropositate di machiavellismo da parte alleata. «Certo la Resistenza è una preoccupazione politica per gli anglo-americani, si sa che il generale Alexander ripete di frequente: “Ces partisans me génent beaucoup”, ma è assurdo pensare a un calcolo diabolico, all’offensiva sospesa perché il ribellismo, ormai sceso in campo aperto, vi si bruci». «Non esiste nessun calcolo diabolico – osserva Giorgio bocca “Storia dell’Italia partigiana”, Universale Laterza, Bari, 1967, pp. 423 – 442) – ma alcuni fatti nuovi politici e strategici che sciolgono l’equivoco dell’estate»: in Italia ci sarà un altro inverno di guerra in trincea e, dunque, anche un altro durissimo inverno di guerra partigiana. La realtà è, senza alcun dubbio, divenuta sempre più tragica in tante zone d’Italia per i partigiani. Per questo il famoso «proclama Alexander» trasmesso da Radio Londra il 13 novembre cadde nel momento più disgraziato e, al di là delle pur ragionevoli motivazioni di ordine militare, suonò come un ordine di smobilitazione, mentre infuriava la repressione nazifascista. «Da Domodossola al Grappa, dalle Valli bresciane all’Istria è tutto un calvario. E, suprema ironia, il generale Alexander moltiplica gli appelli ai patrioti italiani! Ma tutto questo era nel conto», scriveva Zenit (E. Petrini) nel numero 17 de «Il Ribelle». E continuava: «Il ribellismo italiano non muore. Più scarno, purificato, si abbarbica alla montagna, la sola sua vera alleata, si rifugia nei quartieri operai delle città e nelle campagne, i suoi veri vivai. Simile al fratello polacco, combatte senza speranza nell’aiuto altrui, perché combatte per un’idea: per la libertà, per l’umanità. La nostra ribellione più alta che non la stessa guerra: per questo contro di noi ci si accanisce, per questo siamo lasciati soli». Battista, che era poi Laura Bianchini, nel numero 20 de «Il Ribelle», che porta la data emblematica del 25 dicembre, dà voce ai pensieri e ai propositi di tutti con parole semplici e forti: «Avevamo sperato che questo Natale ci avrebbe trovati liberi, pronti per la ricostruzione. Invece il martirio dell’Italia, e nostro, non è finito. A denti stretti terremo il nostro posto e continueremo a portare, ora per ora, il peso delle giornate buie. Il bruciante amore di patria e la libertà che ci ha gettato, coscienti, nel crogiolo, non ha perduto nulla nel suo segreto ardore; e questo ci dà una sicura fiducia di perseverare fino in fondo. E ci dà pace».
Giornale di Brescia, 29 dicembre 1974.