Il nome di Boris Pasternàk è noto a tutti, anche a coloro che non avevano mai letto una sua riga, perché il caso di Pasternàk aveva sconvolto il mondo, come ricorderete, quando il suo romanzo Il dottor Živago, proibito in Unione Sovietica, venne pubblicato all’estero nel 1957 e ricevette il premio Nobel nel 1958. Quindi lo scandalo politico era sotto gli occhi di tutti, era in primo piano. Ed era un vero peccato, perché aveva impedito a molti di conoscere in profondità Pasternàk, che è veramente un grande personaggio del nostro secolo. Per la cultura russa Pasternàk significa un modo completamente nuovo di vedere le cose, di sentire e di esprimersi, un modo nuovo ed originale di concepire la poesia, che scaturisce dalla sua originale visione del mondo, dalla sua filosofia.
Boris Pasternàk nacque nel 1890 da una famiglia di raffinati intellettuali russi: suo padre Leonid Pasternàk era un famoso pittore, tanto che Tolstoj gli aveva affidato l’illustrazione della prima edizione del romanzo Resurrezione e così Pasternàk ragazzo lo aveva potuto conoscere; sua madre, Rosa Kaufman era pianista. Boris da ragazzo aveva studiato pianoforte e quando aveva conosciuto il grande compositore russo Skrjabin, che frequentava la loro casa, si era dedicato alla composizione e si preparava per la carriera musicale. Ma improvvisamente nel 1909 aveva abbandonato la musica. Questa decisione è stata dettata dalle troppo severe esigenze verso se stesso. Pasternàk aveva deciso che non avrebbe mai raggiunto dei grandi risultati in questo campo, ma conservò l’amore per la musica per tutta la vita e lo testimoniano molte sue poesie.
La sua seconda passione è stata la filosofia. Nel 1912 andò a studiare filosofia nell’università di Marburgo, dove insegnava in quel tempo il famoso filosofo Hermann Cohen, che aveva apprezzato molto il giovane studente e gli aveva proposto di scrivere una dissertazione e quindi di intraprendere la carriera filosofica. Ma nel momento decisivo, per la seconda volta, improvvisamente Pasternàk si è bruciato i ponti, ha abbandonato la filosofia ed è tornato in Russia. Eppure tutta la sua opera poetica è piena di filosofia ed è piena di meditazioni e di riflessioni. Troviamo nelle sue poesie degli aforismi acuti e inaspettati e persino vere e proprie formule filosofiche. Una della sue poesie è intitolata, per esempio, La definizione della poesia, un’altra La definizione della creazione, un’altra ancora La definizione dell’anima, anche se poi non segue una vera definizione filosofica, ma un’immagine poetica molto complessa e sofisticata. Il 10 febbraio del 1913 Pasternàk aveva tenuto una conferenza pubblica dal titolo Il simbolismo e l’immortalità, che rappresenta la più completa espressione della sua filosofia. Si potrebbe pensare che Pasternàk avesse assimilato il neokantismo, visto che aveva seguito i corsi del professor Cohen, ma in realtà la sua filosofia è più vicina alla dottrina fenomenologica di Husserl e alla sua concezione della soggettività senza soggetto. Come in Husserl, anche in Pasternàk il centro dell’attenzione non è il problema della conoscenza, come era stato in tutta la filosofia precedente, ma il problema del soggetto che conosce, cioè il rifiuto di spezzare il processo di conoscenza in due parti: il soggetto e l’oggetto. In questa sua conferenza Pasternàk sostiene che la soggettività non è la qualità dell’uomo singolo, ma è una qualità sovra individuale del genere umano, l’intersoggettività; ogni uomo partecipa così, grazie a questa capacità, alla vita dell’umanità e alla sua storia; il poeta, l’artista, è mortale, ma la gioia di vivere che egli aveva provato ed espresso è immortale e continua a vivere anche dopo la sua morte nelle sue opere. La soggettività è la caratteristica della qualità stessa e non del soggetto; le qualità hanno la loro coscienza che non è legata alla vita dell’individuo, ed è la soggettività libera, l’anima viva dell’uomo che viene alienata in favore della soggettività libera e, appunto, dell’immortalità. Quindi l’immortalità è poeta, dice Pasternàk, il poeta non è un essere umano, ma soltanto una condizione per la manifestazione della qualità; la verità è la rivelazione dell’essere che viene compiuta dall’essere stesso, dunque tutto questo sistema di filosofia assume un carattere religioso, conclude Pasternàk. Questa conferenza è la chiave indispensabile per conoscere e per capire la sua opera. Infatti Pasternàk ci offre forse l’unico esempio, in tutta la poesia mondiale, della lirica senza il soggetto lirico, senza l’io lirico del poeta. La sua poesia è la descrizione, per esempio, di un paesaggio, della pioggia, della tempesta, ma dopo avere letto queste poesie noi abbiamo l’impressione di avere letto la descrizione degli stati d’animo del poeta, delle sue esperienze interiori. Eppure l’autore è assente nelle poesie, ci sembra che la natura parli a noi con la sua propria voce. La conoscenza intuitiva non si distacca dall’oggetto, ma lo conserva in tutta la sua integrità; non è l’uomo che compie l’atto di conoscenza ma l’atto di conoscenza viene vissuto dall’uomo, l’uomo è dentro.
In questo modo deve essere compreso anche un aspetto strano e a prima vista paradossale dell’opera di Pasternàk e della sua estetica, e cioè il suo antipsicologismo. La parola stessa, “psicologia” o “psicologismo”, è per Pasternàk la parola dispregiativa che significa qualcosa di poco conto, qualcosa di privo di importanza, misero, piccolo.
La prosa di Pasternàk, e in particolar modo il suo romanzo Il dottor Živago, non ha nulla in comune col realismo psicologico del romanzo classico dell’800. Possiamo trovare piuttosto i paralleli col romanzo del ’700 o addirittura con la letteratura greca antica. Da qui anche la difficoltà di comprendere il romanzo di Pasternàk. Non c’è il conflitto di diversi tipi psicologici, non c’è dialogo inteso come scambio delle battute, ma è piuttosto un mosaico dove sono fusi insieme il discorso dell’autore e il discorso del personaggio. I punti di vista non sono focalizzati, ma sono presentati in un modo diffusivo. Diciamo fra parentesi che Pasternàk, a differenza di tutti o quasi tutti i poeti suoi contemporanei, amava il teatro, mentre altri disprezzavano la cosiddetta teatralità, cioè l’innaturalezza, la perdita della propria individualità, la simulazione o istrionismo. Invece Pasternàk amava il teatro proprio perché lo considerava come la trasfigurazione, la trasformazione dell’uomo attore in qualcosa di diverso: l’uomo varca i propri limiti e diventa egli stesso un’opera d’arte. E dunque questo paradosso dell’antipsicologismo di Pasternàk sembra strano perché Pasternàk è stato proprio uno che è insorto contro il collettivismo comunista, contro la spersonalizzazione sovietica in difesa della persona umana. Ma a questo punto bisogna fare una distinzione: l’individualismo e il personalismo non sono la stessa cosa. Dal punto di vista di Pasternàk l’individualista è una creatura senza anima, perché l’anima dell’uomo è l’uomo nell’altro; l’individualista invece è l’uomo in sé. Per difendere i loro interessi gli individualisti si riuniscono molto facilmente in collettività, in cui ciascuno funziona come una variante di qualsiasi altro confratello della stessa comunità e in cui, difendendo lui e tutti gli altri, ciascuno difende in realtà soltanto se stesso. Questo individualismo si rivela soltanto come il rovescio del collettivismo sovietico e la concezione pasternakiana della vita come sacrificio è incompatibile con l’individualismo. E dunque la soggettività in Pasternàk non è intesa come qualcosa di privato, di instabile, di inattendibile, ma è piuttosto la soggettività quale principio ontologico dell’essere personalisticamente costruito, la soggettività sovraindividuale grazie alla quale l’uomo può partecipare alla storia.
Le prime poesie di Pasternàk sono apparse nel 1913 sulla rivista “Centrifuga”, la rivista dei futuristi russi. Pasternàk faceva parte del gruppo futurista anche se egli è stato sempre un futurista “sui generis”; condivideva cioè alcune idee futuriste, ma la sua arte in generale non ha quasi nulla in comune col futurismo. Nessun genere di classificazione letteraria è in grado di rendere conto della sua poetica, della sua poesia, come del resto di quella di qualsiasi altro grande poeta. Bisogna tenere presente anche che il futurismo russo non ha nulla a che vedere con il futurismo italiano che voi conoscete bene. Quando Marinetti è andato in Russia per incontrare i futuristi russi, credendo di trovarvi i propri seguaci, è stato accolto con indifferenza assoluta. Lo stesso Pasternàk così definisce il futurismo russo in un suo saggio: “Il futurismo è impressionismo dell’eterno, la trasformazione dell’effimero in eterno, ecco il vero significato delle sintesi futuriste”.
E così Pasternàk attribuisce al futurismo il proprio tentativo di valorizzare la quotidianità, di trovare nella quotidianità l’eterna bellezza e il significato profondo, fondere l’anima con lo spirito del mondo, di estendere un presente prolungato sino all’eternità. In Pasternàk, però, come nei futuristi russi, troviamo il rifiuto delle tradizioni ormai obsolete, il desiderio di trasformare il vocabolario poetico introducendo anche le parole volgari; il desiderio di distruggere la dolcezza del linguaggio poetico tradizionale con la tendenza alla “prosaicizzazione”. Egli cerca di trasmettere l’idea di un mondo visto per la prima volta, di guardare le cose con occhi nuovi. Questa disintegrazione del mondo in una nuova visione produce un’impressione di sconcerto in chi legge per la prima volta le poesie di Pasternàk. Ma questa sua oscurità non è la “trasmentalità” futurista, non è ermetica, basta un po’ di attenzione, un po’ di riflessione, basta rileggere la poesia per rischiararla e per comprendere che cosa vuol dire. E come i futuristi russi, Pasternàk aveva una nuova sensibilità per l’aspetto acustico della materia sonora del linguaggio. Come nei futuristi russi, così anche in Pasternàk la parola non è un segno, ma una cosa che ha la sua propria esistenza e un significato nascosto. Ed anche in Pasternàk c’è la volontà di fare dell’opera d’arte un atto, una cosa, non più solo immagini ma realtà. Le prime, primissime poesie di Pasternàk sono ancora poco originali; in seguito egli stesso diceva che le poesie della sua prima raccolta dal titolo, presuntuoso, Il gemello nelle nuvole, erano una stupida pretesa, una retorica derealizzante, con l’immagine romantica del poeta straniero sulla terra, separato dal proprio ideale, rappresentato appunto dalla figura del gemello fra le nuvole. Ma il vero esordio del poeta è avvenuto nel 1917, quando aveva scritto il suo ciclo di poesie intitolato Mia sorella la vita, che rimane forse il suo migliore libro in assoluto. Le poesie furono pubblicate solo cinque anni dopo, nel 1922, ma già nel 1917 circolarono in copie dattiloscritte, furono note a tutti e hanno avuto un successo straordinario. Pasternàk improvvisamente è diventato il primo, il più stimato poeta della Russia. Questo libro, come dice anche il titolo, è un inno alla vita, il racconto della felicità di esistere, oppure, per dirla con le parole di Pasternàk stesso: “La soddisfazione per l’armonia del mondo, la sensazione di essere compartecipe della bellezza di tutto lo spettacolo dell’universo, la vita intesa come forza universale che rappresenta il cuore stesso dell’essere, l’immortalità, è un altro nome della vita, più ricco di senso. Si deve essere fedeli all’immortalità”.
Il tema centrale di questo libro di Pasternàk, come pure di tutte le sue poesie, è il rapporto fra l’entusiasmo e il quotidiano, ovvero il sentimento che tutto ciò che è piccolo ed ordinario si trova in comunione con il miracolo di una entità eterna ed infinita. Pasternàk dice: “Lo splendore di quanto di più quotidiano ed ordinario esiste”. La realizzazione di questi concetti determina anche la poetica nella peculiarità artistica dell’opera di Pasternàk. Le sue poesie sono caratterizzate dalla grande intensità emotiva, la grande passione poetica, combinata con una straordinaria acutezza analitica della visione, l’originalissima novità di espressione di insolita freschezza, che ci trasmette l’idea di un mondo visto per la prima volta, l’audacia di guardare le cose con gli occhi nuovi. Le sue poesie possiedono l’energia frenetica di una improvvisazione statica, una spontaneità sfrenata, la gioiosa impetuosità di un abbozzo. Pasternàk stesso dice: “Io volevo avvicinare il più possibile le mie testimonianze all’improvvisazione. Io notavo solo ciò che attraverso la forma parlata scaturiva tutto in una volta, necessario ed indivisibile, in attesa incontestabile. Il principio della selezione non consisteva nella rifinitura e nel perfezionamento degli abbozzi, ma nell’energia con la quale certe cose partivano improvvisamente e si disponevano in pieno slancio in tutta la loro freschezza e naturalezza, casualità e felicità”.
Gli è propria una concezione intuitivista dell’arte che radica la creazione artistica nell’inconscio. La sua è una poetica della sensazione mediata, fondata sull’imprevisto, sull’imprevisto delle associazioni, soggettive e irrazionali, capaci di rendere la qualità unica di un istante particolare. La poesia di Pasternàk come il suo stile ricco di immagini ha la struttura soggettiva illogica. Pasternàk dice: “Bisogna spiegarsi attraverso illuminazioni istantanee. Noi smettiamo di riconoscere la realtà, essa si presenta a noi come in una categoria nuova, che ci appare come il suo stato e non il nostro; al di fuori di questo stato, tutto ciò che esiste è già stato nominato. Esso solo non ha ancora un nome, esso solo è nuovo. Noi cerchiamo di nominarlo, e il risultato è l’arte. Attraverso la metafora, la poesia permette al linguaggio di dare un nome alle cose”.
Più tardi Pasternàk rifiuterà la metafora per rassomiglianza e darà la preferenza alla metafora per contiguità, oppure alla metonimia. A differenza della metafora per rassomiglianza la metonimia si fonda sul sincretismo prelogico della sensazione primaria e Pasternàk scrive: “La rassomiglianza, o più esattamente il legame associativo fondato sulla rassomiglianza, è all’origine della metafora; ora solo la contiguità possiede il carattere di necessità e drammaticità interiore che può essere giustificato metaforicamente. I dettagli guadagnano in nettezza ma perdono la loro autonomia di significato”.
Dunque la funzione della metonimia non consiste nel descrivere il reale, ma nel rendere conto di ciò che ne rinnova la percezione. Pasternàk chiamava questo principio “la mia teoria della relatività poetica”, simile alla teoria della relatività nella fisica di Einstein. Il nome si stacca dall’oggetto che nomina di solito e nomina, o piuttosto ribattezza, un altro oggetto. In questo modo la parola diventa un mezzo di comunicazione molto particolare, assume un significato nuovo ed originale dal contesto. Il contesto fa nascere un determinato significato appartenente all’immagine singola e irripetibile. Il libro Mia sorella la vita ha un sottotitolo “L’estate del 1917” e in questo modo Pasternàk voleva sottolineare il momento della creazione di questo libro e cioè l’anno della rivoluzione, o più esattamente l’estate, cioè l’intervallo di tempo fra la rivoluzione di febbraio e la rivoluzione di ottobre. Eppure non troveremo in questo libro nemmeno una sola parola della rivoluzione. Siamo di fronte ad un altro paradosso di Pasternàk, e cioè il suo rapporto paradossale con la rivoluzione. Ecco alcuni titoli delle poesie di questo libro: La pioggia, stelle d’estate, Notte afosa, Il giardino piangente, Estate, Elena (la sua donna), e così via.
C’è un verso citato come esempio della apoliticità di Pasternàk:
Silenzio, tu sei il meglio
di tutto ciò che ho udito… [Stelle d’estate]
Colpito da questa apparente indifferenza, Trotskij, che allora era ancora al vertice del potere, rimproverava a Pasternàk proprio l’apoliticità e l’individualismo. Pasternàk scrive in una lettera: “Trotskij mi domandò perché io evitassi di toccare i temi sociali. Le mie risposte si ridussero alla difesa di un individualismo autentico. In altre parole cominciai a dire, cominciai dall’affermazione che io ero un contemporaneo. E invece forse avrei dovuto dirgli che ‘Mia sorella la vita’ è rivoluzionaria nel senso migliore del termine, che lo stadio della rivoluzione più vicino al cuore e alla poesia, il mattino della rivoluzione e la sua esplosione, quando essa fa tornare l’uomo alla sua natura e guarda l’ordinamento sociale con gli occhi del diritto naturale, sono espressi dallo spirito stesso di questo libro, dal ritmo e dal susseguirsi delle parti”.
Poi in una sua autobiografia Pasternàk scriveva, durante la famosa estate 1917, nell’intervallo di tempo che separa i due appuntamenti con la rivoluzione: “Non solamente gli uomini, ma anche gli alberi, le strade e le stelle, si sarebbe detto tenessero delle riunioni e facessero dei discorsi. La sensazione di una quotidianità osservata passo per passo e che nello stesso tempo diventava storia, il sentimento di una eternità discesa in terra, e resa evidente in ogni luogo. L’atmosfera fiabesca. Mi sono sforzato di rendere tutto questo nella raccolta Mia sorella la vita”.
E dunque troviamo in Pasternàk sia l’esaltazione entusiasta della rivoluzione che la sua più definitiva condanna. Vi troviamo una critica spietata della prassi rivoluzionaria e dei principi ideologici e filosofici su cui si basa, e allo stesso tempo la venerazione per la Rivoluzione con la maiuscola. Questa contraddizione trova la sua spiegazione nel fatto che Pasternàk non vedeva nella rivoluzione ciò che essa fu in realtà, e ciò che vedevano in essi i suoi artefici: Pasternàk parla della rivoluzione come di un’estate naturale e primordiale. Gli sembrava che nella rivoluzione gli uomini avessero per un attimo uguagliato la natura e si fossero avvicinati alla sua essenza primordiale. Il contenuto reale della rivoluzione sociale è estranea alla visione del mondo di Pasternàk, alla sua ammirazione di fronte al mistero della vita. Vi è estranea l’esaltazione della grandezza della rivoluzione, del grandioso capovolgimento. Egli difende invece la vera dimensione umana contro la gigantomania, generata dalla rivoluzione. Scrive: “Io non credo a ciò che ha dimensioni molto grandi. Sono giganteschi soltanto i corpi inorganici, le distese cosmiche del non essere, il vuoto della morte, i principi letali della putrefazione”.
Per Pasternàk ogni innovazione è illusoria, ciò che è essenziale non ha inizio. È molto caratteristico il suo aforisma: “Il futuro è la peggiore di tutte le astrazioni, il futuro non arriva mai”. Si può dire che Pasternàk vedeva nella rivoluzione qualcosa di opposto al suo significato immediato, cioè non una trasformazione, una rottura ma al contrario la liberazione del volto autentico del mondo eterno, assoluto e immutabile. Il protagonista del suo poema Spektorskij (scritto negli anni ’20), che preferisce la contemplazione all’azione ed è emarginato dalla nuova società socialista post rivoluzionaria, è già un predecessore del dottor Živago. In una appendice a questo poema troviamo anche una frase chiave, in cui parlando di un personaggio del poema Pasternàk afferma: “Era un rivoluzionario, cioè un despota”. Il rivoluzionario è un potenziale despota; la trasformazione delle vittime in oppressori dopo la rivoluzione è ineluttabile. Un altro poema scritto nel 1923 e intitolato La sublime malattia, rappresenta questa “malattia”, che è il sentimento di incompatibilità con il tempo e con la società post rivoluzionaria. Il poeta si sente uno straniero.
Ma naturalmente la sua più matura riflessione sulla rivoluzione la troviamo nel romanzo Il dottor Živago, che è, come diceva Pasternàk, “la cosa più importante della mia vita, il mio testamento. Soltanto la prosa mi è vicina a quella idea dell’assoluto che mi sostiene e che include in sé anche la mia vita”. Nel romanzo leggiamo che l’autentica rivoluzione è stata compiuta molti secoli fa, quando venne al mondo il cristianesimo, quando finì il potere della quantità e la personalità e la professione della libertà ne presero il posto, quando la singola vita umana divenne una novella divina che riempì con il suo contenuto lo spazio dell’universo. La semplificazione della vita, la sua “primitivizzazione” effettuata dai rivoluzionari, la loro aspirazione a rifare la vita secondo degli schemi approntati in anticipo conduce unicamente ad una vera e propria violenza sulla vita ed essa se ne vendica poi sui suoi tiranni, tradendo le loro speranze e conducendoli a risultati inaspettati, raccapriccianti. Pasternàk scrive: “Rifare la vita! Così possono ragionare degli uomini i quali […] non hanno mai, neppure una volta, conosciuto per davvero la vita, non hanno mai sentito il suo respiro, la sua anima. L’esistenza è per essi come un batuffolo di materiale grezzo […] che necessita della loro opera. Ma la vita non è mai una sostanza grezza, un materiale qualunque. Essa stessa è il principio che ininterrottamente si rinnova ed eternamente rielabora se stesso; essa stessa si rifà e si trasforma perennemente, essa è immensamente più in alto delle mie e delle vostre ottuse teorie”.
Il romanzo di Pasternàk è pieno di un senso dell’incanto che desta i segreti della vita, la sua bellezza, la sua inconcepibile complessità. Il dottor Živago dice: “La storia non la fa nessuno, nessuno la vede, come non si può vedere come cresce l’erba. […] Le rivoluzioni sono prodotte dagli uomini votati all’azione, dai fanatici che peccano di unilateralità nei giudizi, dai geni dell’autolimitazione. In pochi giorni o addirittura in poche ore essi sono capaci di rovesciare il vecchio ordine. I rivolgimenti così prodotti durano intere settimane, per non dire anni, e poi per decenni o per secoli si sottomettono a quello spirito di limitatezza e di mediocrità che sfocia in un nuovo rivolgimento”. Živago così conclude: “Il mio stato d’animo era fortemente incline alla rivoluzione, ma adesso penso che con la forza bruta e con la costrizione non si approdi a nulla. Bisogna attirare al bene mediante il bene”.
Il dottor Živago rappresenta la personificazione dello sguardo poetico nei confronti della vita, oppure di quel principio lirico sovraindividuale, universale di cui abbiamo parlato all’inizio. E questo personaggio è la risposta di Pasternàk alla sfida rivoluzionaria, incarnata qui nel romanzo dall’antagonista Pavel Antipov, un commissario politico, bolscevico implacabile. La sua finale disperazione e la sua tragica fine, il suo suicidio, dimostrano la sterilità della sua proposta. Leggiamo nel romanzo i suoi pensieri, che erano di una chiarezza e di un equilibrio estremi, ma alla sua intelligenza mancava il dono del fortuito, la forza che con scoperte impreviste viola la sterile armonia del prevedibile. Nello stesso modo, per operare il bene alla sua coerenza di principi mancava l’incoerenza del cuore che non conosce casi generali, ma solo il particolare ed è grande perché agisce nella sfera del piccolo. Egli cioè vuole erigersi a giudice della vita, ma riesce solo a generare una violenza di cui sarà egli stesso vittima. Il dottor Živago in apparenza è un essere passivo e debole. Italo Calvino, quando è uscito il romanzo, aveva scritto che Živago “rifiuta tutto in nome di una cristallina purezza spirituale” e va ad arricchire la galleria degli eroi letterari dell’occidente, una galleria di “étrangers” i quali non vogliono confluire nella società. E quindi Calvino non vede nessuna differenza fra le società occidentali democratiche e la società totalitaria sovietica. Il dottor Živago cerca di conservare la propria personalità nell’infuriare degli elementi ostili a rischio della vita, e procede con fierezza per la propria strada, fino al termine, accettando umiliazione, indigenza, senza mai cedere in nulla e questo non è certamente mancanza di volontà. È interessante a questo proposito vedere ciò che lo stesso Pasternàk dice di un altro eroe privo, per comune opinione, di volontà, cioè Amleto. Pasternàk dice: “Amleto non è il dramma della mancanza di carattere, ma il dramma del dovere e dell’abnegazione… Amleto è il dramma d’un alto destino, d’un’alta impresa recondita, della predestinazione incarnata”.
Živago rappresenta la nobiltà della sconfitta, una specie di santo laico, di martire che fa fronte ad un sistema impersonale liberticida, opponendo ad esso la resistenza morale. Živago è portatore di un ordine morale superiore a quello del suo tempo e del suo ambiente. La sua vita è una passione, Passione con la maiuscola, nel senso religioso, il suo è un dramma di sacrificio e di eroismo. A proposito della missione eroica possiamo dire che Pasternàk stesso, questo poeta chiuso nel suo mondo poetico esclusivo, ha compiuto anch’egli un atto eroico. Quando il mito della grande rivoluzione socialista d’ottobre e del primo stato socialista del mondo, l’Unione Sovietica, era incrollabile egli non temette di essere bollato come un reazionario, un retrogrado e pronunciò la sua condanna. Il grande scienziato italiano Vittorio Strada aveva scritto bene in un suo saggio sul romanzo Il dottor Živago. Scrive Strada: “È un atto di eroismo spirituale perché la rivoluzione, più dello sterminato numero di vittime fisiche, ha fatto una innumerevole quantità di vittime morali, anche fra gli uomini di intelletto i quali, anzi, hanno collaborato attivamente ad uccidere in sé, prima ancora che negli altri, ogni scintilla di libertà interiore”. E ancora: “Il romanzo è la biografia spirituale non di un singolo individuo, ma di una generazione ed è il rendiconto di una esperienza etica super individuale che abbraccia una intera epoca”.
Il dottor Živago è un poeta, come lo stesso Pasternàk, e questo è un elemento importante del romanzo, che diventa così uno sguardo poetico sull’esistenza, personificato da Živago. Per Pasternàk il poeta è uno che sa ascoltare la vita, la voce della vita, che si abbandona riconoscente alla vita. L’accettazione del mondo è accompagnata dal senso della splendida unità del mondo. Il talento poetico per Pasternàk è il dono di penetrare dentro i segreti dell’esistenza, la capacità di compenetrarsi dello spirito della vita, di avvertirne tutta la bellezza e l’immensa ricchezza, di sentire l’essenza profonda dell’esistenza. La poesia è capace di offrirci della vita una conoscenza più profonda di quanto non possa la scienza, che erra e attraverso il superamento dei propri errori procede innanzi nel suo campo ristretto e limitato. È anche una conoscenza più profonda della stessa filosofia con le sue astrazioni, che non offre concezioni integrali dell’essere. L’arte invece, la creazione poetica, è intesa da Pasternàk, e dal dottor Živago, come sacrificio, un dono di sé totale, e in questo modo lo sguardo poetico sul mondo diventa quasi uno sguardo religioso. E questo sguardo coincide con la visione cristiana del destino e della destinazione dell’uomo. Pasternàk intende sempre la vita come sacrificio, come adempimento del dovere. Esiste un mondo superiore che bisogna servire con entusiasmo anche se comporta delle sofferenze. Il suo aforisma prediletto è: “Perdere nella vita è più necessario che guadagnare”. E un altro ancora: “Un autentico fiasco è per me, nonostante tutto, più accettabile di un falso successo”.
Nella sua autobiografia Pasternàk scrive: “Noi tutti siamo diventati uomini solo nella misura in cui abbiamo amato gli uomini ed abbiamo avuto occasione di amarli”. E ancora, sempre nell’autobiografia: “Ciò che mi è caro più di tutto è la vita che si perde in quella degli altri; io non ho mai provato la felicità senza sentire l’esigenza appassionata di condividerla con qualcuno. E quanto più questo sentimento di felicità era grande tanto più volevo condividerlo con un numero maggiore di persone. Da questa esigenza, talvolta insopprimibile, comincia l’arte”.
Nell’autunno del 1952 Pasternàk ebbe un infarto, ed era sul punto di morire. Ma la morte, per fortuna, quella volta lo risparmiò. E qualche mese dopo scriveva alla cugina Olga, descrivendo questa esperienza: “All’ospedale mi sentivo pronto al pensiero della morte, con tranquillità e quasi con un senso di beatitudine. Guardavo alla mia vita passata e non vi trovavo nulla di casuale, ma una regolarità interna pronta a ripetersi, e ringraziavo Dio perché mi aveva fatto artista, per ammirare tutte le sue forme e piangere su di esse di incontenibile esultanza”.
NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia l’8.3.2001 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.