In via preliminare potremmo chiederci se siamo autorizzati a leggere filosoficamente Dostoevskij. Su questo punto non spenderò molte parole, perché quasi tutti ci siamo appassionati ai temi, ai problemi, alle domande sulle cose ultime che caratterizzano la sua grande opera narrativa. Inoltre un’intera tradizione interpretativa, che è durata tutto il secolo, ci autorizza in questo senso. Grandi filosofi, tra i quali Luigi Pareyson, hanno letto Dostoevskij da un punto di vista filosofico; è pur vero, però, che altri hanno messo in dubbio questa possibilità. Mikail Baktin, il grande critico russo, invitava a non farsi ingannare dall’apparente carattere filosofico dell’opera di Dostoevskij. Infatti la sua forza consiste nella capacità di accogliere all’interno del suo orizzonte narrativo tutte le più diverse e conflittuali voci del mondo senza armonizzarle in un disegno unitario; queste voci vengono semplicemente lasciate essere, dando luogo ad un sistema polifonico che non può essere raccolto in un sistema. Per questo motivo, Dostoevskij non si presterebbe ad una lettura filosofica. A Baktin si può rispondere che invece questa è filosofia della miglior qualità; affermare che non esiste un punto di vista fondamentale sul mondo, una unità di senso, è infatti una premessa, in definitiva nichilistica, che chiama in causa la filosofia nel momento stesso in cui la rifiuta.
Credo dunque che ci siano delle buone ragioni per leggere filosoficamente Dostoevskij. Se andiamo a vedere i grandi interpreti, quelli che si sono confrontati sul piano delle idee, dei problemi e non solo sul piano dello stile, osserviamo che due grandi filoni si sono costituiti fin dall’inizio, come se chiunque avesse a che fare con Dostoevskij dovesse innanzitutto decidere e prendere posizione. La prima è la via di coloro, e il più grande è stato Lev Sestov, secondo i quali Dostoevskij è uno straordinario sperimentatore del negativo. Ci parla certamente della fede, profonda, abissale, ma – scrive Sestov – quello a cui ci chiama davvero Dostoevskij è l’altro abisso, l’abisso del dubbio, della negatività. Dostoevskij è uno sperimentatore della negatività nelle sue forme più estreme e in questo è veramente grande; la fede è tutto sommato una sorta di riparo, è qualcosa di cui egli si serve per salvarsi da ciò che lui stesso ha intuito, da cui si sente catturato e a cui cerca di sfuggire, appellandosi a qualcosa di superiore. Ma l’autore propone una descensus ad inferos, una discesa negli abissi del cuore umano, che mette capo non tanto alle Memorie da una casa di morti, cioè al diario di quell’esperienza tragica che fece quando, coinvolto in una rivolta, fu imprigionato, condotto sul luogo del patibolo in una macabra messa in scena e, alla fine, inviato per alcuni anni in Siberia, ma ad un’opera successiva, Le memorie dal sottosuolo. In essa Dostoevskij avrebbe davvero sperimentato l’abissalità del negativo, con la scoperta che l’uomo è in maschera, sempre e comunque, e che dietro di essa non c’è il volto, ma un’altra maschera, e poi un’altra ancora. Se ci fosse un volto, sia pure miserabile, sarebbe consolante: ma neppure questo l’uomo scopre, perché anche nelle tecniche di auto – smascheramento l’uomo si compiace di sé e, là dove crede di raggiungere una sorta di grado zero di sincerità nei confronti di se stesso, incontra la falsità e la menzogna, cioè il compiacimento. Ecco l’abissalità dell’esperienza umana come esperienza di qualcuno che è in maschera sempre e comunque e che, nel momento in cui se la toglie, scopre di non avere volto. Questo soggetto non può far altro che sprofondare in quegli abissi che non hanno fondo.
Questa è la via scelta da Sestov, che da lì a qualche anno verrà fatta propria da un altro grande interprete di Dostoevskij, György Lukàcs, il quale inaugura una vicenda che merita di essere brevemente raccontata. Il grande filosofo marxista, negli anni tra il ‘12 e il ‘14 si dedica allo studio di Dostoevskij: allora frequentava alcuni studenti russi e costoro gli avevano fatto conoscere alcune interpretazioni dell’autore, tra cui quella di Dmìtrij Marezcovskij e di Sestov. Lukàcs decide di approfondire il tema del nulla negativo come infondato fondamento dell’essere, ma che apre in due direzioni: quella affermativa del valore e quella distruttiva del valore stesso. Questo significa mettere a fondamento dell’esistenza il nulla e affermare quindi che l’uomo è essenzialmente libertà. Ma l’idea di Lukàcs è che, mentre il bene è impossibile, il male è reale. Solo stando dalla parte del male lo si può convertire, capovolgere, trasformare in qualcosa d’altro, di segno contrario. Il Dostoevskij di Lukàcs è di nuovo lo sperimentatore del negativo, che scende negli abissi del cuore umano e non ha occhi se non per l’orrore e il terrore, per cui il mondo della fede non è nient’altro che filtro, velo, consolazione. Per concludere questa breve storia vale la pena di ricordare che Lukàcs, convertitosi al marxismo, negherà di avere mai scritto un libro su Dostoevskij. Ernst Block, molto legato a Lukàcs in quegli anni, ne attesterà l’esistenza, ma di questo manoscritto non si ebbe più alcuna notizia. Nel ‘77 Ràdnoti, firmatario della carta omonima, trova in una biblioteca di Heidelberg il manoscritto di Lukàcs e lo pubblica. Dal testo emerge la perfetta conferma che il filosofo ungherese non vedeva in Dostoevskij se non il grande genio della negatività e del male.
Vi è però un’altra linea interpretativa, che è addirittura precedente a quella di cui è portavoce Sestov, quella inaugurata da Vladimir Sergevic Solov’ëv. Ma chi era Solov’ëv? Era un giovane filosofo, che insegnava all’università di Mosca e Dostoevskij, che diceva di non essere filosofo, di non sapere nulla di filosofia, ma di amarla come nessun’altra cosa al mondo, lasciò Pietroburgo per andare a Mosca ad ascoltare alcune sue lezioni. Il mondo – come diceva Dostoevskij – è pieno di lacrime e di sangue dalla crosta, fin nel suo cuore più profondo e tuttavia queste lacrime e questo sangue non hanno senso se non in forza di un orizzonte che le precomprende, che da sempre le accoglie, le trasfigura, le illumina e ci dice che cosa propriamente sono. Le lacrime e il sangue esistono, ma tuttavia non sono se non a partire da una luminosità, da un orizzonte pieno di luce. Quella luce – interpreta Solov’ëv – è quella della «sofia», della sapienza di Dio, senza la quale non solo non daremmo ragione delle lacrime e del sangue, ma neppure le vedremmo, perché è proprio partendo da questo paradigma assoluto che noi troviamo quel senso che altrimenti ci sfuggirebbe, per cui tutto precipiterebbe nell’assurdo.
Le due idee, le due diverse interpretazioni del pensiero di Dostoevskij ci obbligano a prendere posizione, a stare da una parte o dall’altra, e questo comporta o una visione aporetica dell’opera di Dostoevskij o una visione dialettica. La visione aporetica è quella in cui le due diverse prospettive, entrambe lucide nell’individuare la terribilità della condizione umana, darebbero luogo ad una opposizione senza possibilità di mediazione. Ma allora come commentare le parole di Dostoevskij, interprete di se stesso, quando dice di aver sperimentato entrambi gli abissi, l’abisso della fede e l’abisso del dubbio? Potremmo allora condividere la prospettiva dialettica, che permette di mediare le opposizioni e di trovare un punto di sintesi che ne supera il mero conflitto? Ma se le cose stessero così, se l’ipotesi di un Dostoevskij dialettico davvero ci convincesse, rischieremmo di cedere alla tentazione di una risoluzione in termini puramente filosofici di Dostoevskij.
Mi permetto di avanzare un’altra ipotesi, che l’opera di Dostoevskij non si lasci ridurre né in termini di mera opposizione aporetica né in termini di dialettica, ma sia espressione del pensiero tragico, il quale davvero dà ragione meglio di altre forme di interpretazione di quella doppiezza. Dussos logos, pensiero tragico, significa appunto pensiero doppio, intimamente doppio, ma non nel senso della mera aporetica né nel senso della dialettica. Doppio nel senso di saper gettare uno sguardo nell’uno e nell’altro abisso, di sperimentarli entrambi, mostrare il legame profondo che c’è tra l’uno e l’altro, ed evocare la possibilità che il male si converta nel bene. Possibilità che rimane misteriosa, enigmatica, perché se questa conversione fosse aporetica, non sarebbe conversione: le due realtà rimarrebbero separate; se invece fosse dialettica, non ci sarebbe più né mistero né enigma, perché avremmo a che fare con le teorie del male che serve al bene, del male che non è se non in funzione di un bene che lo trascende, un male dimenticato, svilito rispetto alla sua vera natura. Il pensiero tragico prospetta, ipotizza, la possibilità di un passaggio, di un movimento tra l’uno e l’altro abisso, ma senza dedurlo, semplicemente mostrando l’enigma. Li esibisce in modo misterioso e, se volete, doppio, dussos logos.
Se questa ipotesi ha un qualche senso, vediamo come Dostoevskij, concretamente, ce la mostra. Il problema di fondo è quello della giustificazione del male, che in un certo momento della storia della filosofia si è chiamato «teodicea». Questa (il nome è stato inventato da Leibniz) è la teoria della giustizia di Dio che è anche la teoria della giustificazione di Dio, cioè della giustificazione che Dio, essendo giusto, dà del male, ed è la giustificazione che l’uomo, tenendo conto di questo, dà di Dio. Leibniz, logico sublime e giurista ineccepibile, va a fondo nel suo ragionamento: il presupposto della sua teodicea è che il bene non è se non vittoria sul male. La condizione umana è così fatta che il bene non lo conosce se non nella forma di un superamento, di una vittoria. Il bene allo stato puro, non solo non esiste, ma se esistesse sarebbe un fantasma, qualcosa di inerte, privo di senso. È drammatico il fatto che noi conosciamo il bene solo in rapporto al male, ma è così. Pensiamo alle virtù teologali: cos’è la fede se non uno sguardo rivolto a una realtà che trascende il male. Questo vale anche per le virtù che pratichiamo: ad esempio, l’amore non è pensabile se non nella forma di una contrapposizione all’odio, a tutto ciò che è contrario all’amore stesso. Ecco il presupposto profondissimo, anche se lineare e semplice, della teodicea di Leibniz. Da questo presupposto Leibniz, che sapeva ragionare, ricava il ragionamento che, essendo il bene vittoria sul male, allora dobbiamo ipotizzare che un mondo in cui c’è del male possa essere migliore di un mondo in cui il male non c’è, perché in quest’ultimo anche il bene non ci sarebbe. Dunque Dio, che tutto vede, capace di soppesare tutti i pro e i contro, sceglie il migliore dei mondi possibili, quello in cui il male non può non esserci. E ancora: Dio non soltanto sceglie il migliore dei mondi possibili, ma questo, essendo scelto da Dio, è un mondo la cui radice ultima è la libertà.
Parallela alla storia della teodicea, vi è quella di coloro che da questo ragionamento non sono affatto convinti e, siccome non sono logici sublimi e giuristi ineccepibili qual era Leibniz, si accontentano di porsi molti perché, domande senza risposta: sulla terribile realtà di un terremoto, della peste, o sull’espressione di un negativo la cui gratuità beffarda sembra, anzi è irriducibile a qualsiasi disegno. Vedete come la teodicea trovi qui il suo scoglio, il suo scandalo. Aveva cominciato subito dopo Leibniz, Voltaire e poi via via gli illuministi e, lungo tutto l’Ottocento, coloro i quali oppongono a Dio non un ragionamento, bensì la dura forza, la realtà semplice ma brutale della sofferenza inutile, della sofferenza che non si lascia riscattare, della sofferenza che resiste a questo disegno di ordine superiore. La storia dell’ateismo ottocentesco è la storia della contestazione alla teodicea di Leibniz.
Chi è colui che ha saputo meglio di ogni altro, con una semplicità folgorante, sconfiggere, colpire al cuore, l’argomento di Leibniz? Un filosofo che non troverete nei manuali di filosofia, ma che meriterebbe un suo capitolo, nonostante non sia un personaggio in carne ed ossa, bensì una creazione di Dostoevskij. Questo filosofo che dà scacco matto alla teoria del Dio che, in quanto giusto, giustifica il male, si chiama Ivan Karamazov. Non so se ricordate l’episodio dell’incontro dei due fratelli (Ivan e Alëša) in una trattoria, dove essi parlano dei grandi temi di fondo, gli stessi di cui noi stiamo discorrendo ora. Ivan Karamazov introduce il tema inserendosi nella prospettiva tipicamente ottocentesca dei liberi pensatori, i quali, di fronte all’evidenza di un male non giustificabile, credevano di avere buon gioco nel dire: – Ma allora quello che sta lassù vada al diavolo. Quasi se la prendevano con Dio, in quanto incapace di giustificare qualche cosa che resisteva alla giustificazione. Ivan Karamazov è molto più sottile di tutti questi, perché rovescia l’argomento, lui che pure ha subito tutta una serie di piccole atrocità e ha seguito la prospettiva dell’ateismo ottocentesco. Eppure riconosce che «quello che fa meraviglia è che un’idea simile, l’idea della necessità di Dio, possa essere venuta in testa ad un animale così selvaggio e cattivo come l’uomo; tanto è sacra, tanto è commovente, tanto è saggia quest’idea». Non è dunque un’idea abbietta quella dell’armonia, nella quale l’uomo ha potuto pensare l’abbraccio della vittima e del suo carnefice in un futuro di là da venire, anzi è la sola idea capace di dare senso al mondo. Però – dice Ivan – di fronte alla realtà del male («le sofferenze dei bambini», «le lacrime umane di cui è imbevuta tutta la terra») non esiste possibilità di riscatto, di perdono, di compensazione. «Se le sofferenze dei bambini saranno servite a completare quella somma di sofferenze che era necessaria per pagare la verità, io affermo in anticipo che tutta la verità non valeva un prezzo simile… L’hanno valutata troppo quell’armonia, l’ingresso è davvero troppo caro per la nostra tasca. Perciò mi affretto a restituire il mio biglietto d’ingresso… Non è che io non accetti Dio; soltanto, Gli restituisco rispettosamente il biglietto». Vedete la forza nichilistica di Ivan, la capacità di portare a fondo qualsiasi prospettiva di redenzione, non contestandola, ma riconoscendola come la più alta e la più sublime che ci possa essere, salvo poi prenderne le distanze, dicendo di voler stare dalla parte della «sofferenza invendicata». Non c’è modo più distruttivo della teodicea, che quello di esaltarla per poi rimuoverla. Qual è il senso del ragionamento di Ivan? Non la sofferenza invendicata mette in questione Dio, non la resistenza, l’urto, la forza del male è davvero scandalosa; è scandaloso che Dio abbia potuto pensare di trarre il bene dal male, cosa che impedisce a Dio di essere se stesso, di essere il giustificatore. Dostoevskij, da questo punto di vista, è davvero lo sperimentatore del negativo come nessun altro; non è un nichilista leggero, il male lo prende sul serio e lo indaga come mai prima.
Ma Dostoevskij non si ferma qui. E in questo senso il suo è davvero pensiero tragico perché, come già diceva Virgilio, difficilis descesus ad avernos, difficilior regredere passos, se è difficile discendere, è anche più difficile una volta discesi, ritornare con la memoria di ciò che si è visto, conservando e proprio perciò salvando ciò che lì si è visto. Non dimenticate che conservare e salvare hanno lo stesso etimo; non c’è salvezza che non sia quella che passa attraverso la memoria, il dolore. Per Leibniz, il bene è solo nella forma dell’opposizione al male e, quindi, della memoria. Ebbene, come risale Dostoevskij da quell’abisso in cui l’aveva sprofondato la radicale rimozione della teodicea? Anche qui penso che la parola di Dostoevskij sia la più profonda, la più vera che il mondo moderno e contemporaneo abbia saputo pronunciare sulla tematica fondamentale della libertà umana e del male. Con ciò che ha detto Ivan il discorso non è affatto chiuso. Ivan sembra aver detto l’ultima parola, ma l’ultima parola non è la sua; quella davvero decisiva è di Alëša, che è stato ad ascoltare pieno di turbamento, perché capisce come il fratello abbia preso sul serio il tema di cui si tratta. Alëša, che è stato zitto fino a quel momento, trova, anche se nella forma di un bisbiglio, la sola parola che si possa rispondere a Ivan che gli chiede cos’ha da dire a difesa del suo Dio: «Fratello, tu hai chiesto dianzi se esiste in tutto il mondo un essere che possa perdonare ed abbia il diritto di farlo. Ma questo Essere c’è, e Lui può perdonare tutto, tutti e per tutti, perché Lui stesso ha dato il suo sangue per tutto e per tutti». Dio non è quindi venuto a giustificare il male del mondo, ma lo ha preso su di sé. Questa è la parola di Alëša che riporta diritto diritto nel cuore del pensiero tragico. Dio non dà ragione di ciò che appare inconoscibile, inconciliabile. La conoscenza è quella che si fa essa stessa dolore e non c’è conoscenza vera che non sia dolorosa; così Dio non viene a dare ragione di ciò di cui non può dare ragione, ma viene a prendere su di sé la sofferenza e tace. Dmìtrij, pasticcione ma anima appassionata, viene accusato di aver ucciso il padre pur essendo innocente; tuttavia non si preoccupa di difendersi, ritiene giusto andare in Siberia. «Signori, siamo tutti crudeli, tutti siamo dei mostri, tutti facciamo piangere gli altri, facciamo piangere le madri e i bambini… Io accetto i tormenti di questa accusa e della pubblica infamia, io voglio soffrire, e la sofferenza mi purificherà!». Ecco la conversione. Quando Alëša capisce perché il fratello non si ribella e accetta la pena, ha come un lampo, gli ritorna in mente l’insegnamento di Zosima di cui era stato allievo e si ricorda che un giorno una madre, una povera vedova, andò dal santo monaco perché le era morto il figlio e Zosima usò con lei gli argomenti che appartenevano alla tradizione consolatoria. Ma questa madre non ne voleva sapere e lo trattò con durezza. Il maestro, allora, le disse citando la Bibbia: «Ecco l’antica Rachele che piange i suoi figli e non può consolarsi, perché essi non sono più; tale è la sorte assegnata a voi, madri, sulla terra. E dunque non consolarti, la consolazione non ti è necessaria; non consolarti, e piangi pure. Ma ogni volta che piangi, ricordati bene che il tuo figlioletto è uno degli angeli di Dio, che di lassù lui ti guarda, ti vede, gioisce delle tue lacrime e le mostra al Signore Iddio. Durerà ancora a lungo questo tuo gran pianto di madre, ma alla fine si convertirà per te in una quieta gioia, e queste tue lacrime amare diventeranno solo lacrime di dolce tenerezza e purificazione, e libereranno il tuo cuore dal peccato». Che cosa c’è di più misterioso ma anche di più vero di questa conversione?
Dostoevskij è davvero un autore che di filosofia sa poco, ma che ai filosofi dà continuamente da pensare. È stato un diagnostico del secolo su cui nemmeno si è affacciato, ma che ha saputo prevedere. Se vogliamo capire qualcosa del terrorismo, del potere tremendo dell’ideologia, dei drammi che si nascondono dietro queste realtà, si possono leggere libri di sociologia e di filosofia, ma la prima cosa da fare sarebbe quella di leggere Dostoevskij. Non dico che abbia previsto tutto, ma ha fatto diagnosi molto lucide che lasciano ancora adesso allibiti. Lo scrittore russo è stato profondo anche in diagnosi più sottili: è stato non solo il poeta dei nichilisti sostenuti dall’ideologia, ma anche di quelli deboli, sottili, ironici, sfuggenti. Dostoevskij non è soltanto l’inventore di Stravogin, ma anche di Arkàdij, il figlio del protagonista dell’Adolescente. Ha scritto quattro romanzi dopo Le memorie dal sottosuolo: tre sono capolavori assoluti (L’idiota, I fratelli Karamazov e I demoni), mentre il quarto, L’Adolescente appunto, è un romanzo sbagliato, che però contiene una diagnosi potente del nichilismo così come lo sperimentiamo noi, del nichilismo dei nostri anni, non quello del rifiuto violento di Dio e dell’instaurazione altrettanto violenta di un regno di Dio senza Dio sulla terra, ma il nichilismo della leggerezza, dell’ironia, della dissoluzione dei grandi temi. Versilov ad un certo punto afferma che se gli uomini imparassero a morire fino in fondo, saprebbero che questa vita è bella perché preziosa, perché destinata a finire. Se questa coscienza fosse così diffusa e tutti ne partecipassero e tutti si convincessero di questo, come potrebbero non amarsi gli uni gli altri? Si sentirebbero affratellati da questo vincolo della mortalità e le generazioni si succederebbero con dolcezza. Versilov si interrompe ed è come se, improvvisamente, una smorfia attraversasse il suo volto quando conclude con: – Bello vero? Le stesse parole che di lì a qualche anno Dostoevskij metterà in bocca al demonio nel dialogo con Ivan Karamazov. Qui c’è qualche cosa come una tentazione, una mistificazione sottile, e perciò demoniaca: certo che la morte è la condizione perché la vita sia quello che è, preziosa. Se non ci fosse la morte non ci ameremmo: ci amiamo perché – lo dicevo prima – ci opponiamo alla morte; ma con questo dovremmo dire che la morte è un fatto semplicemente positivo? La morte è la morte e resta l’ultima nemica. Così Dostoevskij è un diagnostico del nostro tempo, del nichilismo nel suo aspetto più tenebroso, ed anche del nichilismo nel suo aspetto più elegante e più convincente, ma al nostro tempo Dostoevskij contrappone, offre una proposta alternativa. Vale la pena, quantomeno, di rifletterci attraverso gli strumenti della filosofia, ma non per ridurlo a filosofia, bensì per sprigionarne il significato più forte e più profondo.
NOTA: Testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 17.3.2000 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.