Alla fine dell’anno giubilare del 2000 si è tenuto ad Agrigento, città natale di Pirandello, un grande convegno dal titolo “Pirandello e la fede”. L’argomento, evidentemente dettato dalle circostanze, è stato affrontato dalla maggior parte dei relatori ritenendo che il tema religioso fosse collaterale nell’opera di Pirandello, che si potesse farlo emergere attraverso testi “mirati”, come per esempio la commedia tarda “Lazzaro”, affrontata addirittura da cinque relazioni, e non certo uno dei testi più felici dal punto di vista tecnico, estetico e dell’analisi teatrale dell’opera pirandelliana
Una posizione nuova ed originale è che il tema religioso non sia “un tema tra gli altri”, bensì un tema centrale dell’opera di Pirandello. E interpellato con chiavi diverse da quelle della tradizione e della critica ufficiale, l’autore risponde in altro modo e in maniera inaspettata: ne risulta un “sottotesto” oltremodo inquietante e sbalorditivo.
L’elemento più sorprendente scaturisce da un romanzo esaltato dalla critica degli anni Cinquanta e Sessanta, uno dei migliori di Pirandello: non “Il fu Mattia Pascal”, il più noto, del 1904, ma quello che originariamente era intitolato “Si gira”, del 1915, che successivamente l’autore, con quell’arte combinatoria di mutare i nomi e i titoli che nasconde sempre insidie e comunicazioni supplementari al lettore, intitola “Quaderni di Serafino Gubbio operatore”.
Erano, quelli, gli anni dell’alienazione, dell’esistenzialismo, delle tematiche dell’assurdo. Il tema dell’alienazione era soprattutto molto familiare alla critica marxista, che allora era la critica impegnata nella “decifrazione” dell’opera di Pirandello.
Il protagonista del romanzo è Serafino Gubbio, che lavora come operatore in una casa cinematografica romana. Di giorno egli è solo “mano”, ha come unica e alienante funzione quella di girare una manovella, ma al di fuori del lavoro, nel tempo libero, in una sorta di risarcimento per questa mutilazione della sua essenza umana, diventa “uomo di cuore”; secondo le parole di Pirandello, “la sua anima è albergo nei confronti di tutti”, come dire che egli non ha “io”, non ha “volontà di potenza”, ma nel rapporto con gli altri è colui che si dona totalmente, tant’è che è definito più volte nel romanzo come dotato di un “occhio divino”. Serafino, in netta antitesi rispetto a ciò che comunemente si afferma di Pirandello e si insiste a sostenere, ha la capacità di leggere direttamente nel cuore degli altri e riesce a percepire la verità che molto spesso è nascosta perfino al soggetto stesso dell’analisi.
Nel romanzo c’è un personaggio femminile dal nome curioso, come tutti i nomi pirandelliani, Varia Nestoroff, un’attrice avventuriera russa, una “donna vampiro”, che cambia continuamente uomo; che, in cerca della propria anima, rifiuta di essere una donna oggetto e, per disprezzo verso gli uomini interessati solo al suo corpo, si concede a loro per poi abbandonarli.
L’importanza dell’onomastica risulta evidente analizzando il significato del nome del protagonista (nel romanzo di Pirandello i richiami francescani e pauperistici si sprecano): l’“uomo di cuore” è il protagonista del romanzo, colui il quale vuole risarcirsi del fatto di essere solo mano durante il giorno e riacquista l’integralità della propria umanità dopo il lavoro; è colui che fa del dono di sé, della caritas, l’elemento di vita.
Questo personaggio che crede nelle virtù attive e, quindi, alla possibilità di porre operativamente rimedio al malessere del mondo, ad un certo punto incorre in una situazione che offusca la sua limpidezza di sguardo: s’innamora di una ragazza. È un amore pudico, come è tipico degli amori pirandelliani, caratterizzato dal tratto quasi fobico nei confronti della sessualità e, forse, addirittura nei confronti della vita, che traspare da tutta l’opera di Pirandello. Serafino Gubbio s’innamora in questa maniera e, innamorandosi, si accorge che la purezza del proprio sguardo, che lo rendeva un “medium”, un “trasmettitore” nei confronti degli altri, perché agli altri egli era in grado di restituire la loro anima quando essi non la conoscevano, si offusca; diventa consapevolmente “partigiano”, comincia a difendere la parte della propria amata. Si accorge che un amore terreno, anche il più casto, rivolto ad un particolare oggetto, offusca l’amore rivolto alla totalità.
Questa è la “sterzata” del romanzo, il punto in cui compare il tema del “pirandellismo”, ovvero di un personaggio che si accorge di avere un punto di vista e che gli altri hanno altri differenti punti di vista: il suo non è più l’occhio divino, che percepisce direttamente l’anima altrui, e allora egli è preso da un grande smarrimento, che lo costringe a negare il mondo: l’essere nel mondo non è compatibile con la salvezza.
Pirandello usa in numerosi testi questa celebre espressione: “La vita o la si vive o la si scrive”. Avverte una radicale incompatibilità tra l’essere nel mondo, soggetti alla materia e alla carne, e l’esercizio ascetico della scrittura come luogo della salvezza e come ultimo barlume del divino in un mondo “sdivinizzato” (la scrittura salva).
Questo momento di negazione del mondo è situato nel sesto dei sette capitoli che compongono il romanzo e Pirandello usa nell’impaginazione quel metodo di allegoresi che tanto era caro al Medioevo, lanciando tracce che possono indirizzare il lettore ad una lettura aggiuntiva di quello che può esser definito il sottotesto. Nel settimo e ultimo capitolo il personaggio protagonista, che ha già deciso di rifiutare il mondo, incorre in un evento che è la sanzione materiale della sua rinuncia. Mentre, come operatore cinematografico, è intento a girare la sua manovella della macchina da presa, avviene una scena terribile e tragica, definita da Pirandello melodrammatica: al centro della vicenda c’è una tigre e la donna tigre, interpretata dall’attrice Varia Nestoroff, è l’eroina del film. Il suo amante ingelosito riesce a penetrare nel recinto in cui la scena si gira e spara alla donna uccidendola, proprio mentre la tigre spicca un balzo verso di lui e lo sbrana, sotto gli occhi terrorizzati dell’operatore cinematografico che però, impassibile, continua a girare; ma egli perde l’uso della parola, diventa muto e, in tale modo, il suo decreto di isolamento dal mondo, già deciso alla fine del capitolo precedente, trova la sanzione materiale più forte. È muto, non può parlare, e da quel momento fa esattamente quello che fanno tutti gli altri personaggi pirandelliani: scrive le proprie memorie, salva la propria esperienza affinché sia di monito agli altri, rinunciando asceticamente al mondo e rifugiandosi nella scrittura intesa come ultimo residuo del divino.
È Interessante ciò che emerge leggendo Pirandello secondo codici diversi da quelli della letteratura realistica. All’inizio del romanzo il protagonista dalla provincia arriva a Roma e incontra uno strano personaggio, dal nome “alonato”, Simone Pau, ovvero l’unione dei nomi degli apostoli Simone e Paolo, se pure il secondo nome è troncato ad indicare la minor presenza della carità del personaggio rispetto all’apostolo; a questi sono attribuite origini sarde, secondo la tipica ricerca di plausibilità di Pirandello, se pure dal romanzo emerga come sia la toponomastica a rivelare l’essenza del personaggio. Serafino non sa dove stabilirsi e Simone Pau gli indica lo strano albergo in cui può trascorrere la notte e le notti successive; entrato in albergo, il protagonista è costretto a sottoporsi ad un rito di abluzione, deve farsi un bagno, e poi è vestito con una tunica bianca con chiari riferimenti ad una sorta di evento battesimale.
Nell’albergo vige la regola per cui si possono risiedere sei notti consecutive al chiuso, ma la settima deve esser trascorsa all’aperto. In chiave realistica la non plausibilità di una tale situazione è evidente e, se pure non è difficile cogliere il riferimento ad una cerimonia di battesimo riguardo all’abluzione, la comprensione del significato simbolico della strana regola dell’albergo non è immediata. Una prima ipotesi poteva essere l’analogia con la struttura del romanzo in sette capitoli, dei quali i primi sei si svolgono “al chiuso” mentre il settimo è “all’aperto”. Era evidente il riferimento a san Francesco, con i continui cenni a “albergo dei poveri”, “uomo di cuore”, le tematiche di dono e carità, la citazione implicita del nome di Dante che descrive san Francesco come “serafico in ardore”, oltre che, evidentemente, il cognome “Gubbio”, un luogo topico della geografia francescana, ma ancora era oscuro il significato della strana regola dell’albergo.
Insistendo a fondo nell’analisi dell’opera dantesca, tanto cara e molto spesso ripresa da Pirandello, si scopre che Dante chiama “Dottor Seraficus” san Bonaventura. Bonaventura scrisse un testo didattico parenetico intitolato “Intinerarium Mentis in Deum”, “L’itinerario dell’anima a Dio”, e la prima immagine che compare alla lettura è quella del Serafino alato. Si tratta di un angelo che compare nei testi biblici, per esempio in Isaia, dotato di sei ali. Bonaventura effettua una tripartizione dell’uomo in sensi, sentimenti e intelletto, e a ciascuna di queste parti corrisponde un paio di ali: il più basso, che è collocato all’altezza dei piedi, secondo Bonaventura esprime i sensi. Nell’itinerario dell’anima attraverso il quale l’uomo risale al Creatore, la creatura percorre le varie stazioni del proprio percorso, e nel latino di Bonaventura colui che compie questo itinerario si chiama “operator”. Il percorso si svolge in sei fasi. In primo luogo il senso opera in modo diretto, poi attraverso la sua spiritualizzazione, la memoria, che “smaterializza” la sensazione percepita nel ricordo. Lo stesso avviene per l’affectus, i sentimenti, prima vissuti direttamente e poi spiritualizzati nella memoria, e ugualmente pure per la mente. Si tratta di sei stadi di purificazione, di movimento verso l’idea, verso lo spirito, attraverso cui la persona umana deve passare se vuole raggiungere Dio, cioè diventare spirito essa stessa. Sono le sei “operazioni” che compie l’uomo “naturale”: non è necessario ricorrere alla grazia divina per svolgere questo percorso, lo si fa nel chiuso della propria naturalità.
Ma c’è un settimo stadio: l’estasi. Bonaventura, che è il primo biografo di San Francesco, descrivendo il settimo stadio descrive i giorni in cui Francesco sui monti dell’Averna riceve le stigmate, subisce l’estasi e, come direbbe Dante, si “indiia”, “va dentro Dio”, e perde l’uso della parola, diventa muto, perché la parola è un mezzo di comunicazione tipicamente umano, mentre il mistico nel momento del rapimento estatico non è più se stesso, ma diviene tutt’uno con l’Onnipotente e ammutolisce.
Questo è proprio il finale del romanzo di Pirandello: egli trasla in immagini e in coefficienti narrativi un contenuto che proveniva da un testo sacro, rendendo le catene narrative metaforiche di Bonaventura attraverso le nuove catene metaforiche del suo racconto.
Pirandello fa così sempre. In ogni opera occorre andare a scovare il nodo che lega i testi, il glutine segreto che sta dietro di essi, perché Pirandello offre, sia nei romanzi sia nelle opere teatrali, una narrazione che a prima vista è plausibile dal punto di vista realistico, ma che può essere riletta secondo molteplici livelli. I modelli da cui parte sono tratti dalla patristica, dai grandi testi sacri, la “Bibbia”, il “Nuovo Testamento”; sono tratti, insomma, da elementi di carattere religioso, dal momento che il problema ossessivo che circola nei sui testi è il problema della salvezza.
Ci sono degli evidenti equivoci in cui la critica è incorsa a proposito di Pirandello. Il titolo originale “Si gira”, con un primo riferimento concreto al gesto di Serafino alla macchina da presa, alludeva anche al moto vorticoso di quella pallottola che è la Terra, cioè alla miseria del terrestre, metafora sulla quale Pirandello insiste parecchie volte. Il nuovo titolo “Quaderni di Serafino Gubbio operatore” dà tutte le chiavi per risalire al sottotesto, perché “quaderni” sono i singoli capitoli, in ciascuno dei quali è ripresa la catena metaforica dell’equivalente bonaventuriano: confrontando puntualmente i due testi, si vede come Pirandello costantemente trasformi ogni capitolo del testo di Bonaventura con un esercizio di estrema duttilità e creatività fantastica.
Va ricordato che il grande autore del Novecento che è Joyce, scrive l’“Ulisse” riprendendo la fonte greca; ma è l’autore stesso ad affermare questo in seguito, quando scrive una lettera ad un amico raccontando come la giornata di Bloom sia in realtà ripresa dal testo greco; e non è possibile stabilire se questa traccia sarebbe stata colta dalla critica. Ebbene, Pirandello opera prima di Joyce, ma la differenza temporale è minima. Ciò vuol dire che il contesto temporale lasciato aperto dal grande simbolismo europeo, fatto che in Italia in genere è ignorato e non considerato dalla critica, è tale da suggerire a Pirandello operazioni di questo tipo.
Si veda il primo romanzo, “L’esclusa”, del ‘93, quando Pirandello ancora passa per un naturalista: protagonista è Marta Ajala, la donna che quando non tradisce è ritenuta fedifraga dal marito e cacciata, mentre quando tradisce davvero è accolta con tutti gli onori, secondo una trama paradossale che Pirandello, con il suo polso graffiante, usa per criticare aspramente le strutture della società in cui la verità è assente e soggettiva. Letto in chiave naturalistca, sociologica, tenendo presente il contesto siciliano e la situazione femminista, il testo offre sicuramente un certo esito estremamente significativo a livello civile e sociale. Ma spostandosi su un diverso livello di attenzione, si può notare come la protagonista si chiami Marta e la di lei sorella Maria, come le sorelle di Lazzaro, e va ricordato che solo pochi anni prima Maeterlinck, il maestro del simbolismo europeo, nel testo drammatico “Interno” aveva descritto una coppia di sorelle, Marta e Maria, che avevano lo stesso identico valore proprio della simbologia dell’esegesi medievale: Marta incarna le “virtù attive”, Maria le “virtù contemplative”; e quando Marta si lamenta perché la sorella si è inginocchiata ai piedi di Cristo ascoltando le sue parole senza collaborare alla faccende domestiche, Cristo le dice che è invece Maria quella che ha compreso a pieno il senso del suo messaggio, affermando in tal modo il primato della “vis contemplativa”. Una lettura che tenga presente questi aspetti cambia radicalmente il senso del romanzo. Pirandello, quindi, già dal primo romanzo propone un sottotesto, per cui il lettore dispone di una possibilità di interpretazione realistica immediata e poi di una serie di altri significati che si snodano man mano.
Una delle opere considerate maggiori dalla critica è “Sei personaggi in cerca d’autore”.
Per contestualizzare l’opera è opportuno ricordare come nel 1921, anno in cui Pirandello stende il testo, in Italia non esista la regia teatrale. La regia è un fenomeno europeo, nasce emblematicamente nel 1887 a Parigi, il primo regista è considerato André Antoine, ma l’Italia, per tutta una serie di ragioni, essendo terra d’attori, resiste all’onnipotenza registica, e questa figura resta sconosciuta fino agli anni Quaranta. Nel 1921, dunque, esiste solo la figura ottocentesca del capocomico, che spesso è il primo attore e che svolge anche le funzioni di impresario, occupandosi quindi pure di questioni di carattere economico; egli ha così un interesse materiale nei confronti della rappresentazione e ha, d’altra parte, molto meno tempo da dedicare alla preparazione artistica, assillato dalle svariate preoccupazioni logistiche e organizzative. In genere è descritto come un “ignorante crasso”. E l’ignoranza degli attori era proverbiale: basta leggere il testo del 1908, “Illustratori, attori e traduttori”, per avere un’idea della considerazione in cui Pirandello teneva gli attori: erano coloro che ammazzano il testo, perché non lo comprendono, data la loro sordità mentale.
Nella scena iniziale, su un palcoscenico, intenta alle prove, c’è una compagnia che sta mettendo in scena il testo di Pirandello “Il gioco delle parti” e il capocomico, che avrebbe il compito di spiegare agli altri attori il testo in questione, non è in grado egli stesso di comprenderlo. All’improvviso fanno il loro ingresso sei personaggi, che nella prima edizione sbucano dalle quinte, ma che nell’edizione riveduta del ’25, dopo il grande successo europeo, entrano dall’ingresso della platea, come se si trattasse di persone in carne ed ossa in ritardo per la rappresentazione. Lentamente, con passo ieratico, vestite a lutto, le sei figure salgono sul palco e cominciano a qualificarsi, raccontando di essere personaggi usciti da un dramma ma rimasti incompiuti, perché l’autore, dopo aver dato loro la scintilla della vita spirituale, misteriosamente li ha abbandonati. Questa è l’affermazione enigmatica che i sei propongono. Essi allora, essendo consapevoli della promessa ricevuta di esser realizzati come personaggi immortali, esigono questa immortalità e, abbandonati dal loro creatore, si rivolgono ad un altro autore: chiedono al capocomico di esser lui a continuare l’opera interrotta, dal momento che la loro sete di immortalità è tale che così non possono vivere, abbandonati e lasciati a metà. Il capocomico inizialmente è ritroso, non capisce che cosa sia un personaggio spirituale, perché ha dimestichezza soltanto con la materia e coi corpi e non conosce queste “emanazioni psichiche”; poi si lascia lusingare e tentare e comincia ad imbastire l’azione, perché ognuno dei personaggi ha una storia comune con gli altri che deve esser raccontata.
Nella storia esiste un padre, che ha allontanato da sè la moglie e il figlio legittimo; la moglie, cacciata, se n’è andata con un subalterno, dal quale ha avuto tre figli bastardi, e l’occasione del rincontro di queste due famiglie è un avvenimento che all’epoca non era certamente facile da accettare. Il padre, rimasto solo, frequenta abitualmente un bordello, per placare temporaneamente gli appetiti della carne (ma poi si ricompone sotto un’apparenza di assoluta rispettabilità) e qui incontra la figliastra, che aveva deciso di fare la prostituta di nascosto per aiutare la propria famiglia. È sfiorato l’incesto, quando i due sono interrotti dalla madre che irrompe e li blocca. Il padre accoglie i membri della famiglia bastarda in casa sua, ma il figlio di primo letto non vuole gli intrusi. La madre, disperata, vuole parlare con questo figlio che la respinge e mentre tenta di colloquiare con lui lascia incustodita la figlia minore di due anni, la quale sta giocando nella vasca del giardino; la bambina annega, sotto gli occhi del fratello quattordicenne il quale potrebbe intervenire, ma non interviene e la lascia morire, per poi a sua volta spararsi un colpo di rivoltella, lasciando filtrare l’ovvio significato per cui un’esistenza così negativa e così infame vada negata.
Questa è la vicenda che i personaggi vogliono rappresentare, perché gli eventi che sono accaduti allora suggeriti dall’autore originario sono eventi suggellati una volta per sempre: essi vogliono la forma eterna, vogliono essere “fissati”. Il capocomico tenta la rappresentazione di queste vicende, ma per rappresentarle si serve degli attori ed è a questo punto che capita il momento più sconcertante di tutta la vicenda: i personaggi, che sono figure spirituali, di fronte ai loro doppi in carne ed ossa li ricusano: essi sono nati per essere entità spirituali e non vogliono la “materia”, poiché aspirano all’immortalità e l’immortalità non è raggiungibile per mezzo di quelle figure di carne. In un dialogo spesso tagliato dai registi il personaggio del padre afferma, rivolgendosi al capocomico, che quest’ultimo è più reale, ma che egli è più vero, e l’uomo in carne ed ossa non può sostenere di esser più concreto dei personaggi, perché egli è ogni giorno diverso e la sua vita è un continuo trasmutare.
La vicenda si conclude nella tragica scena del giardino; il capocomico, vista la sua incapacità di mettere in scena il dramma secondo i desideri dei sei, che vorrebbero una rappresentazione spirituale e un dono d’immortalità, decide di venir meno al proprio compito e i personaggi devono abbandonare il giardino, condannati ad una sorta di eterno esilio; il dramma resta incompiuto e non rappresentato e i personaggi riprendono la loro ricerca di un autore.
Ci si potrebbe chiedere perché questo testo sia così risonante da esser tradotto in tutte le lingue europee ed esser rappresentato con successo in tutto il mondo. In genere viene letto come un testo metateatrale, come una polemica nei confronti del capocomico e dell’attore da parte di Pirandello. Ma dietro questo testo c’è ben altro: ci sono i primi capitoli del “Libro della Genesi”.
I personaggi sono sei e la scelta del numero è molto significativa: l’uomo è la figura del sesto giorno, il sei connota, come anche in Pitagora e in tutto il “Vecchio Testamento”, la figura umana e, quindi, quei sei rappresentano l’umanità intera.
Sin dalla prima rappresentazione Praga, un critico nonché drammaturgo di un certo talento, rileva un aspetto curioso: i personaggi in cerca d’autore sono a ben guardare sette; insieme ai sei membri della famiglia: padre, madre, figlio legittimo, la figliastra e i due figli piccoli, bisognerebbe contare anche Madama Pace, la ruffiana che gestisce il bordello in cui lavora la figliastra. La differenza è che i sei personaggi sono in cerca dell’autore perché, per una ragione o per l’altra, sono imperfetti, ciascuno in stadi diversi di realizzazione artistica, ma tutti incompiuti in qualche aspetto; invece, come Pirandello stesso scrive nella prefazione del ‘25, Madama Pace è il personaggio realizzato, “pacificato”, che non è alla ricerca dell’autore, perché è l’unico ad esser stato ultimato. Il numero sette, nella tradizione pitagorica seguita da Pirandello anche nei “Giganti della Montagna”, è il numero del divino, dell’immateriale, dello spirituale, e infatti il settimo personaggio è quello perfettamente compiuto, che perciò non ha nessun bisogno di andare in cerca di un autore come gli altri.
Ma l’elemento più forte, quello su cui si basa tutto il testo, deriva dal capitolo della “Genesi” dedicato alla creazione dell’uomo. La “Bibbia” descrive due tipi di creazione, cosa che ha sempre costituito un problema teologico, perché in un versetto si dice che l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio, e quindi è figura spirituale e totalmente immortale, mentre poco oltre, nella descrizione dell’atto fisico della creazione, l’uomo risulta essere derivato da un incrocio di fango e argilla. Pirandello legge in chiave gnostica questo tema della doppia creazione dell’uomo; egli odia il mondo, la materia, la carne, “l’osceno del vivere”, dell’impulso vitale, e proprio per questo ritiene che la creazione vera sia la creazione dell’uomo a immagine di Dio, quella dell’uomo spirituale, e che invece l’uomo “materico” e materiale sia imprigionato: a tale riguardo nei “Giganti della Montagna” cita Pitagora mettendo in bocca a Cotrone la battuta “la carne è la tomba”, e non a caso, dato che Cotrone era l’antico nome di Crotone, che era sede in Calabria del sodalizio pitagorico. Il tema del sette come numero spirituale che contraddistingue l’immateriale è continuamente ripreso da Pirandello. Madama Pace sta al di fuori, è il settimo personaggio, personaggio “domenicale”, realizzato, spirituale: è quella che non ha bisogno di attori, e infatti compare sul palcoscenico magicamente, perché è una presenza fantasmatica, di puro spirito.
E va notato come Pirandello assegni questa connotazione di pura essenza spirituale alla figura più oscena e deforme del dramma; la ruffiana è una donna dalle fattezze enormi, brutta, con una parrucca bionda, i lineamenti eccessivamente truccati, ma si salva, perché grazie alla sua completezza è eterna. Si tratta della pietas pirandelliana nei confronti della materia: Pirandello maledice la materia e la considera la prigione dell’umano; l’uomo doveva avere un altro destino, ma l’Artefice misterioso che l’ha creato l’ha poi abbandonato; e Pirandello all’inizio del Novecento si interroga su questa assenza di Dio, sul suo silenzio: Dio ha creato questo mondo informe e deforme e lo scrittore si chiede gnosticamente da dove provenga il male.
In un bellissimo passaggio nei “Sei Personaggi” si assiste allo scontro tra il padre e la figliastra riguardo all’autore: ogni sera nella penombra del crepuscolo i personaggi erano accolti allo scrittoio dell’autore; la figliastra afferma di esser stata il personaggio più ricercato dall’autore e il padre l’accusa di esser per questo la ragione del loro abbandono, per la sua petulanza, il suo orgoglio e la sua impertinenza, a cospetto di un autore onnipotente. La figliastra, con uno splendido pezzo di teatro, risponde che è stato l’autore a crearla e volerla così, come dire che il mondo è sì una mescolanza di poma ed argilla, ma che è il Creatore che ha voluto l’argilla e ha voluto il mondo fatto così. Ed è proprio la prostituta, ovvero colei che più avrebbe motivo di maledire la sua condizione, bassa dal punto di vista morale e sociale, ad accettare la sua condizione materiale: in Pirandello è presente questa pietas nei confronti della materia, contemporaneamente al fatto che la materia è orrore.
L’incesto è un altro tema proveniente dalla “Genesi”, in cui sono narrati i due episodi incestuosi, quello delle figlie di Loth e l’avventura di Tamal, come pure quello della famiglia bastarda che si riferisce alla condizione di Abramo, e il giardino in cui il dramma ha il suo culmine è un chiaro riferimento al giardino dell’Eden, dove il luogo dell’immortalità cede il posto alla tragica landa che è la terra, sulla quale in eterno esilio viaggeranno i sei, alla ricerca di un autore che non risponde.
Pirandello -come si è detto- scrive a più strati: i “Sei Personaggi” possono essere affrontati in chiave puramente letterale oppure si può scendere nei meandri del testo e veder comparire un argomento di natura religiosa, una domanda sulla salvezza, che circola assiduamente in tutta la testualità di Pirandello, che è il più grande scrittore religioso che la letteratura italiana abbia avuto dopo Dante.
NOTA: testo, non rivisto dell’Autore, della conferenza tenuta il 28.2.2002 a Brescia su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.