All’alba dell’età moderna, i due cristiani che indirizzarono su nuove vie la riflessione politica furono proprio Erasmo e Thomas More. Essi concepirono una vasta, profonda riforma umanistica della politica: il primo, mettendo al centro dei suoi appassionati interventi la pace come obiettivo fondamentale e, dunque, il rifiuto della guerra come mezzo per risolvere le contese internazionali; il secondo, ponendo fortemente l’accento sulla giustizia sociale. I frutti più cospicui dell’impegno di Erasmo in quel campo furono tre: l’Institutio principis christiani («L’educazione del principe cristiano»), lo scritto del 1516 dedicato a Carlo di Gand, il giovane sovrano dei Paesi Bassi che sarebbe divenuto imperatore col nome di Carlo V; la Querela Pacis («Il lamento della Pace»), che uscirà a stampa verso la fine del 1517; il Dulce bellum inexpertis («Dolce è la guerra per chi non ne ha fatto esperienza»), il testo più famoso del pacifismo erasmiano. L’umanista lo redasse tra l’estate del 1516 e la primavera dell’anno seguente; quello scritto, nato come uno degli Adagia, continuò ad essere oggetto di cure particolari da parte di Erasmo che, nelle edizioni successive del 1523 e del 1526, lo trasformò in un vero e proprio libro.
In quel magico 1516 anche il More pensatore politico uscì allo scoperto con un’opera che ga-reggia con l’Elogio della Follia per finezza, ironia e passione riformatrice. Il 3 settembre More inviò il manoscritto a Erasmo con la preghiera di rivedere il testo prima che venisse stampato. Quel libro s’intitola Utopia-De optimo Reipublicae statu. Utopia è termine greco che sta per Nessunposto, in latino Nusquam. È interessante considerare anche le circostanze in cui l’umanista inglese scrisse la sua opera più celebre. Per circa tre anni, dal 1513 al 1516, egli era stato impegnato in una profonda ricerca storica sul regno di Riccardo III, che egli vedeva come un esemplare di tirannia. Una delle opere di Luciano di Samosata, lo scrittore greco del II secolo che i due umanisti avevano tradotto insieme negli anni 1505-6, era dedicata in modo specifico al problema della tirannia e del tirannicidio. Per Erasmo More “aveva sempre nutrito un odio speciale per la tirannia e una grande inclinazione per l’uguaglianza” (Ep. 999); e ciò valeva anche per se stesso. È quindi evidente che More non scrisse la sua History of King Richard III come opera di propaganda per i Tudor e per servire la politica di Enrico VIII, ma per illustrare i mali della tirannia: egli temeva che la monarchia dei Tudor non desse garanzia di libertà per il futuro. Al suo ambizioso progetto di storiografia umanistica More dedicò ogni sforzo. “Cercò fonti personali e storiche e scrisse il testo in due versioni indipendenti, una in inglese e l’altra in latino per i lettori europei. È per noi un dettaglio importante sapere che More lavorò a quel libro dal 1514 al 1516; vale a dire nello stesso periodo in cui avrebbe ideato e scritto la sua Utopia. Anzi, potremmo dire che la storia di re Riccardo III non fu completata o pubblicata neppure in seguito perché sopravvenne quest’ultima opera a sostituirlo”. (Hugh Trevor-Roper, Renaissance Essays, Secker and Warburg, London 1985; trad. it. Laterza, Bari 1987, pp. 49-50).
Mentre rifletteva su questi problemi More, inviato da Enrico VIII in una missione commerciale nei Paesi Bassi, fu introdotto in un nuovo mondo molto diverso da quello inglese, ma anche migliore e meglio organizzato. Vi era nella terra da cui proveniva Erasmo una società di repubbliche civiche unite da vincoli federativi che non mortificavano le libertà dei cittadini. Ad Anversa era segretario della città un umanista devoto a Erasmo, Peter Gillis, e fu nella sua casa che More soggiornò durante i negoziati e cominciò la stesura della sua Utopia. Gillis evidentemente ha avuto un ruolo importante nella genesi di Utopia ed è a lui che sarà dedicata l’opera principale di More.
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Un libro così enigmatico e a un tempo estremamente audace non poteva essere giudicato come un semplice ludibrium, un esercizio a tempo perso, anche se quest’ultima opinione fu in qualche modo incoraggiata dallo stesso autore. Appena pubblicato, esso ebbe un grande successo. I contemporanei e i posteri ne furono affascinati ed anche provocati. Quasi tutti d’accordo sul fatto che si trattava dell’opera di un genio, non si sono mai trovati d’accordo nell’interpretarla allo stesso modo e questa, ovviamente, è una delle caratteristiche che meglio rivela la sua originalità. More si serve di un tipo di scrittura che meglio gli permetta di individuare le assurde, scandalose iniquità di una società storicamente determinata – in primo luogo quella inglese, che conosceva meglio, ma anche quella europea del XVI secolo – del tutto estranea ad ogni autentica ispirazione evangelica. Nell’introdurre la sua traduzione dell’Utopia (Utet, Torino 1971, p. 16), Luigi Firpo osservò acutamente che quello è un libro assai complesso, “pieno di ironia e di insidie sottili, un libro a molti strati”: More ricorre a un racconto fantastico per delineare una “parabola metastorica” in cui la più ardita denuncia si fonde perfettamente con l’arguzia elusiva. Egli indugia a ragion veduta nel descrivere la mescolanza di acuta razionalità e stravagante insensatezza degli utopiani: il viaggio-finzione deve, infatti, apparire a volte assai poco credibile perché attraverso l’elemento fabulatorio possa meglio intravedersi la severa diagnosi dei mali della società. Ciò gli consente di avere una maggiore libertà di espressione e, nello stesso tempo, di ribadire che il suo pensiero non è sic et simpliciter quello del protagonista dello scritto, il navigatore Itlodeo, né quello degli utopiani che non conoscono Mosè, Socrate, Cicerone e san Paolo. L’Utopia, insomma, non va presa come un e-sempio di società perfetta, la quale non esiste e non potrebbe mai esistere nella storia, che presenta ad ogni passo opzioni e risultati ambivalenti, avanzamenti e arretramenti, sviluppi perfettivi e dege-nerazioni, vittorie e sconfitte prima di tutto di ordine morale. Gli abitanti della Nuova Isola ignorano l’orizzonte cristiano della fede; eppure, col loro buon senso, hanno saputo fare di risorse limitate l’uso migliore, costruendo una società tutt’altro che priva di difetti e tuttavia assai più giusta di quella edificata nei regni e nelle repubbliche dei cosiddetti Stati cristiani, in cui la politica si è trasformata in sistema di brutale dominio dell’uomo sull’uomo:
“Non ho difficoltà ad ammettere – queste sono le parole conclusive dell’Utopia – che ci sono un gran numero di cose nello Stato di Utopia che desidererei (optarim) vedere nelle nostre città, anche se non ho molta speranza (sperarim) che ciò possa avvenire”.
E poco prima:
“Quando considero con attenzione – scrive More verso la fine dell’opera – tutti questi Stati che oggi prosperano dappertutto, non riesco a scorgervi nient’altro, e Dio mi perdoni, che una sorta di congiura dei ricchi (quaedam conspiratio divitum) i quali, in nome e sotto il pretesto dello Stato, badano solo ai propri interessi”.
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Con un libro apparentemente atemporale – che è tra i pochi di cui si può dire che abbiano ve-ramente inciso nella storia – colui che lo ideò ci ha insegnato a lottare nel solo modo concesso agli uomini di cultura, costretti a vivere in un mondo troppo sordo e ostile, ma impegnati con tutta l’anima a risvegliare le coscienze e ad aprire un varco a quella società futura – libera, giusta, fraterna – di cui l’umanità ha assoluto bisogno. Il risultato a cui perviene l’autore di Utopia è di straordinaria rilevanza: egli ha individuato per primo le tare del mondo moderno, le loro cause e la maggior parte dei problemi che ne derivano, nella concentrazione nelle stesse mani del potere politico e della ricchezza, nella spietatezza dei rapporti sociali, nel bellicismo criminale, nella frenesia del danaro “unica misura di tutte le cose”, nella riduzione dell’uomo a ciò che produce.
Le idee hanno mani e piedi, camminano cioè con gli uomini che le fanno proprie, e le proposte utopiane, una volta divenute oggetto di discussione, non saranno più messe a tacere. Se proviamo solo ad elencarle, ci accorgiamo che nel corso di mezzo millennio esse sono divenute progetti e ideali storici a cui l’umanità migliore non può rinunciare: l’istruzione pubblica è obbligatoria per tutti; il regime costituzionale, escludendo i diabolici opposti della tirannide e dell’anarchia, è la forma di governo da preferire ad ogni altra; si ha accesso alle funzioni pubbliche mediante il voto; è garantita la parità tra uomini e donne dinanzi alla legge, nel lavoro, nella cultura; i servizi necessari, come ad esempio la medicina sociale e la cura dell’igiene, sono pubblici per poter essere effettivamente assicurati a tutti; le leggi devono essere poche, brevi ed estremamente chiare per non essere aggirate e perché possano tradursi in strumento di giustizia. La pena capitale – inflitta nel Cinquecento con crudele incoscienza anche per reati non gravi – nella Nuova Isola è di fatto abolita e al suo posto si sperimentano i benefici di una giustizia penale mite, efficace e realmente uguale per tutti.
Con un’intuizione tra le più felici More anticipa di secoli nell’Utopia un’altra questione che in futuro si rivelerà sempre più importante: una società che concepisca come traguardo di civiltà una vita da esseri umani per i suoi cittadini, deve cercare l’armonia tra la fatica del lavoro e la libera attività ricreativa, e quindi promuovere un’autentica cultura del tempo libero, di “un tempo dedicato a piaceri onesti fondati sulla natura e la verità”. In una società giusta bisogna evitare che i più siano costretti a lavorare “come bestie da soma”, alienati da ritmi insopportabili come quelli a cui sono sottoposti i salariati e gli artigiani. Il lavoro può essere un fattore di crescita economica, sociale e politica ed è un diritto-dovere, ma esso non deve distruggere l’umanità di chi lo compie e le sue giu-ste aspirazioni. Per questa ragione la giornata lavorativa, nei limiti consentiti dalle comuni necessità, non dovrebbe superare le sei ore. Il lavoro è importante ma non può essere finalizzato al lavoro stesso, bensì all’otium nel senso classico del termine, perché “è nella coltivazione dell’animo che consiste la felicità della vita” (Utopia, libro II-«I mestieri»). Come si vede Budé coglie perfettamente il valore dell’Utopia dicendo subito, nel 1517, che quel libro meritava l’epiteto di “seminalis”, in quanto “vivaio di istituzioni belle e utili”.
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In un’epoca in cui coloro che erano giudicati eretici venivano torturati e condannati al rogo, la religione degli utopiani – anche se nulla autorizza a sostenere che le loro idee fossero in tutto coincidenti con quelle di More – ha un significato altissimo per la storia dell’umanità. Non esiste nella Nuova Isola una Chiesa di Stato e ogni fede può essere ammessa e praticata nel rispetto delle leggi e dello spirito che animano la collettività. Non è che gli utopiani mettono sullo stesso piano tutte le credenze, perché un atteggiamento del genere produrrebbe solo indifferenza. Essi sono, al contrario, obbligati in coscienza a seguire quella che giudicano la migliore e si dichiarano pronti, nelle loro preghiere, ad adottare un culto o una costituzione più perfetti se ne venissero a conoscenza. La loro volontà resta dunque costantemente tesa verso un ideale superiore e, grazie all’arrivo dei compagni di Itlodeo, anche la religione cristiana comincia ad essere predicata tra loro e ad avere nuovi adepti. La premessa irrinunciabile in questo campo è una sola: la libertà di credere e di praticare il culto che si preferisce è ritenuta necessaria a difendere la pace tra i cittadini, la loro convivenza serena, il reciproco rispetto. L’impiego della violenza e delle minacce per costringere gli altri a credere ciò che noi crediamo è cosa assurda e immorale. L’intolleranza e il fanatismo pseudoreligioso generano, infatti, contese e odi implacabili. Nell’ultima sezione del libro II si dice testualmente:
“Nello stabilire queste norme il legislatore ritenne di favorire anche l’interesse della religione, sulla quale non si azzardò a dare definizioni dogmatiche a cuor leggero, quasi nel dubbio che non fosse Dio stesso ad ispirare a chi una fede, a chi un’altra, desiderando una varietà e molteplicità di culti. Certo che il pretendere con la forza e le minacce che tutti riconoscano per vero quello che tu credi vero, questo sì gli parve tracotante e sciocco. Se poi una sola religione fosse quella vera e tutte le altre fossero false, il legislatore previde che – se solo la faccenda fosse trattata con ragionevolezza e senso di misura – questa avrebbe finito per emergere da sé senza difficoltà e la forza della verità prima o poi si sarebbe imposta. Affidandosi invece alla forza delle armi e dei tumulti, dato che gli individui peggiori sono anche i più ostinati, la religione migliore e più santa sarebbe stata soffocata dalle superstizioni più vacue in lotta fra loro, come spighe in mezzo a spine e rovi”.
Il valore irrinunciabile della tolleranza viene formulato in questi termini precisi:
“Ognuno sia libero di praticare la religione che preferisce, ma nel tentativo di convertire gli altri può giustificare con pacate e serene argomentazioni la propria religione senza per questo di-struggere con asprezza le altre e senza ricorrere alla violenza e alle ingiurie” (ibid.).
Nella stessa pagina Itlodeo traccia anche l’identikit dell’integralista cristiano. Eccolo:
“Ad uno del nostro gruppo durante la mia permanenza è capitato di subire una punizione. Costui, avendo ricevuto da poco il battesimo, si mise a discutere pubblicamente sulla religione cri-stiana con più foga che saggezza, benché noi cercassimo di dissuaderlo. Prese così a infervorarsi a tal punto non solo da vantare la superiorità della nostra fede su ogni altra, ma persino da condannare tutte le rimanenti, gridando a gran voce che erano, esse stesse, un’empietà, così come scellerati e sacrileghi erano quelli che le praticavano, meritevoli del fuoco eterno. Blaterava così da un bel pezzo quand’ecco che lo arrestano, accusandolo non di vilipendio della religione, ma di istigare il popolo alla sedizione perché tra i loro principi più antichi annoverano il seguente: «Nessuno venga perseguitato a motivo della propria religione (Ne sua cuiquam religio fraudi sit)»” .
La domanda che a questo punto sorge spontanea è: nei mesi in cui fu Lord Cancelliere come More applicò le leggi repressive dell’eresia promulgate da Enrico VIII? La situazione in Inghilterra era diventata sempre più difficile e insidiosa sia per il rapido propagarsi dei luterani, sia per il sostegno sempre più aperto che essi dettero alla causa di Anne Boleyn, che non poteva certo dispiacere al sovrano. More scelse di attenersi ad una linea di condotta ben precisa: applicare le leggi emanate dal sovrano contro gli eretici e, nello stesso tempo, di fatto tacitamente disattenderle su due punti cruciali come non permettere il ricorso alla tortura durante gli interrogatori dei dissidenti e non mandare a morte neppure uno di essi. Erasmo, in una lettera al vescovo di Vienna Johann Faber, giudicherà il comportamento di More come esemplare.
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Erasmo, che aveva seguito da vicino la stesura dell’Utopia, ne suggerisce pure la chiave di lettura in un passo dell’Epistola 999. More, secondo Erasmo, volendo mettere alla prova la sottigliezza del suo ingegno e la sua capacità dialettica, difendeva tesi estreme, gli adoxos, che però servivano a mettere in luce nella coscienza dei lettori esigenze e principi il cui rispetto è fondamentale perché la politica non si trasformi in fonte di oppressione. Gli argomenti fuori dal comune More li sceglie di preferenza nella Repubblica di Platone tra quelli che più fanno scandalo, come la proibizione per le sole classi superiori di ogni proprietà e quella di avere una vita familiare.
Su quest’ultimo punto il dissenso di More da Platone è esplicito e totale , e tuttavia non si può eludere la domanda: quali verità Platone voleva affermare “in his materiis adoxis”? Il discepolo di Socrate voleva tener lontano nel modo più radicale dalla politica il potere economico-finanziario ed eliminare la confusione tra interesse pubblico e interessi privati, o familiari. Insomma, è nella plutocrazia nell’ipertrofia della proprietà privata e nel primato esclusivo del “particulare” a spese del bene comune che Platone individua la causa principale della corruzione e dell’ingiustizia che portano tutte le società, e in particolare le democrazie, alla rovina. In questo duplice imperativo, che è etico e politico a un tempo, More ed Erasmo concordano in pieno col filosofo ateniese. Questo è il messaggio forte dell’Utopia, non il ricalco della configurazione mitologica che Platone dette al suo Stato ideale, che è cosa del tutto discutibile.
Ai due umanisti cristiani comunque non piace affatto il sempre rinnovato tentativo di mettere tra parentesi una delle pagine più alte della Chiesa nascente. Essi sanno che lo spontaneo mettere in comune i propri beni era ben reale nelle prime comunità cristiane, ma non può tradursi in obbligo giuridico. Erasmo e More, però, pensano che da quell’esperienza eccezionale giunga un appello a cercare le vie della fratellanza anche nella società politica: un cristiano, infatti, non può far politica se non avverte come ineludibile il dovere della solidarietà e se non fa suo il concetto di uso sociale della proprietà. Nel primo degli Adagia – che s’intitola Amicorum communia omnia – Erasmo giudica negativamente il modo in cui “i cristiani lapidano Platone”, invece di sforzarsi di cogliere quello che c’è di profondo nelle sue tesi estreme; “eppure quel filosofo pagano non ha mai detto nulla di più vicino alle parole di Cristo”. Né si deve dimenticare che nella storia della spiritualità cristiana perenne è stata la polemica religiosa per il ritorno della Chiesa alla povertà evangelica. Alcuni studiosi si sono anche chiesti come mai le ideologie marxiste non si siano appropriate del pensiero di More. Secondo Karl Kautsky, More ha sostenuto nell’Utopia la tesi della comunione dei beni e, dunque, l’abolizione della proprietà privata. Per l’autorevole esponente del socialismo tedesco, che nel 1888 dedicò uno studio alla vexata quaestio, il nome di More rimarrà comunque nella storia perché egli è “il politico dell’uguaglianza e dell’equità, l’uomo di genio che si rese conto dei pro-blemi della propria epoca prima ancora che sorgessero le condizioni atte a risolverli”.
Città e Dintorni, n.89, 31.8.2006. Il testo completo di note è reperibile nel file in PDF allegato.