Autorità, signore, signori e soprattutto giovani così presenti e dunque così attenti ai messaggi che contano, mi è particolarmente gradito darvi lettura del testo di un telegramma giuntomi ieri: «Partecipo con fervido pensiero alla cerimonia inaugurale della mostra sulla Rosa Bianca promossa dall’assessorato alla Cultura del Comune di Brescia e dalla Cooperativa cattolico-democratica di cultura. L’esempio della resistenza degli studenti tedeschi contro il nazismo testimonia con grande forza come i valori ideali di democrazia e di libertà siano irrinunciabili e presenti ovunque. Insieme ai voti augurali per il miglior successo dell’iniziativa giunga a tutti i presenti il mio più cordiale saluto. Oscar Luigi Scalfaro».
Avete già ascoltato parole significative e altre importanti le ascolteremo.
Un grande drammaturgo della modernità, che ha soprattutto esplorato gli abissi dell’angoscia dei moderni, fa dire ad un suo personaggio rivolto ad un interlocutore: «Signore, se la sua sofferenza è intollerabile, si affidi alla parola».
Potrebbe essere anche questa una epigrafe del gesto di questi giovani che qui commemoriamo, nel senso che essi altro non avevano se non la loro parola, la forza della provocazione della loro parola, ma certo non per riscattare la loro angoscia, ma anzi, poiché erano giovani vivi ed intensi, lieti, carichi di speranza per il futuro, così confidenti nella vita, nella forza della vita, che accettarono di scommetterla, per le ragioni più alte, che la vita rendono nobile e degna.
Oggi noi li ricordiamo qui, con una cerimonia sobria, come deve essere, alla inaugurazione di una mostra né clamorosa né accattivante, ma volutamente vera e preziosa, nel giorno in cui in tutta l’Europa si festeggia il ricordo della fine della seconda Guerra mondiale e della liberazione degli uomini europei dal giogo nazista.
Nella lunga e controversa mappa della resistenza europea la vicenda della Rosa Bianca ha un suo spazio inconfondibile proprio per la ragione che non vi fu lì nulla di militare, nulla di resistente in termini di contrapposizione violenta, ma l’affidarsi al gesto di una ribellione prima di tutto e quasi tutta morale.
Non avevano avuto maestri di antifascismo, o di antinazismo, avevano avuto dei buoni maestri nelle loro discipline, erano ragazzi molto colti, intelligenti, avevano letto la grande cultura tedesca, l’arte, la musica tedesca e chiedevano di sollecitare l’apatia dei cittadini ormai oppressi, ma quasi consenzienti con quel regime, provocandoli così, scrivendo, in un loro volantino: «Noi siamo la voce della vostra cattiva coscienza».
Avevano imparato quello che anche altri giovani della resistenza italiana avevano imparato sui grandi autori, ricordavano anch’essi il distico latino summum nefas esse, propter vitam vivendi perdere causam: essere un delitto, una diserzione l’idea che per una sopravvivenza, purché sia, si possono perdere le ragioni della verità della vita.
Attingevano insieme, pur provenendo da ambiti diversi, quel sentimento religioso e sacro della vita che si radicava appunto su una ispirazione che li aveva portati ad incontrarsi e a riconoscersi pur attraverso esperienze diverse. I più grandi avevano anche fatto parte della gioventù hitleriana; avevano conosciuto dal di dentro il nazismo e ne avevano percepito la barbarie. Così come accadde da noi, perché non dirlo orgogliosamente e rivendicarlo, qui a Brescia, con tanti uomini illustri e coraggiosi di quel tempo, quali padre Manziana, padre Bevilacqua, quando agli albori del fascismo riconoscevano nel fascismo una radice di barbarie, di paganesimo che non poteva non essere contrastata in termini radicali.
La libertà del dovere interiore.
Questi giovani andarono alla morte così, la loro esistenza si riassunse in sei volantini, l’ultimo fatto calare dal loggiato dell’Università di Monaco, sapendo bene che la Gestapo era sulle loro tracce e che quel gesto sarebbe stato l’ultimo, irrimediabile gesto della loro vita.
Li seguiva un professore, Kurt Huber, del cui figlio abbiamo recentemente, in Università Cattolica, ascoltato una emozionante testimonianza non solo di ciò che è accaduto, ma anche di ciò che potrebbe ancora accadere se non fossimo attenti, se non ci fosse nella nuova gioventù, così fervida, così carica di speranze e promesse, la verità di questa scelta di valori.
Sophie Scholl scrisse sul retro del capo di imputazione che la riguardava una sola parola: Libertà! Intendendo non la libertà facile, non la libertà della pretesa, ma la libertà del dovere interiore. Sapeva quanto brucia il sale della libertà, quale assunzione di responsabilità, della propria singolare responsabilità, significhi questa parola.
Non siamo qui a ricordare solo per un rimpianto, ma anche per una sorta di ammonimento.
Dal messaggio che il cancelliere Kohl ha rivolto ai tedeschi in occasione del cinquantesimo anniversario della fine della seconda Guerra mondiale, possiamo, credo, trarre questa indicazione. Egli scrive così: «Dopo quella guerra sono nati i due terzi dei tedeschi di oggi: è assolutamente imperativo che le immagini e i film, i racconti dei testimoni dell’epoca, i diari e prima di tutto i ricordi personali di chi ha partecipato a quel tempo, in ogni famiglia, insegnino a rammentare loro le terribili e devastanti conseguenze della guerra che Hitler volle e della tirannide nazista. Quel ricordo ci ammonisce a cercare per l’Europa un ordine di pace che sia fondato sul rispetto illimitato dei diritti umani; allora, e solo allora, potremmo essere fiduciosi che gli orrori del passato non abbiano più a ripetersi».
È il senso, umile e discreto, di questa nostra iniziativa. Della memoria del passato abbiamo assoluto bisogno per rafforzare l’ispirazione del nostro impegno nel presente.
NOTA: trascrizione, rivista dell’Autore, della conferenza tenuta il 9.5.1995 a Brescia su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.