Per una felice coincidenza sono usciti contemporaneamente due volumi di grande valore, indispensabili per chi voglia afferrare l’identità della cultura russa e il destino storico del popolo russo: “Il Novecento – La letteratura russa dal realismo socialista ai nostri giorni”, edito da Einaudi; e l’agile, denso, appassionato saggio di interpretazione storica, “La questione russa”, pubblicato da Marsilio. Il primo poderoso volume riguarda il periodo compreso fra gli anni Trenta e i nostri giorni, vale a dire gli ultimi sessant’anni che vanno dal culmine del terrore staliniano allo scardinamento del potere comunista in Urss. Un periodo di straordinaria sofferenza e di autentica creatività che può allineare nomi come Platonov e Bulgakov, Anna Achmatova e Boris Pasternak, Andrej Siniavskij e Josif Brodskij, Vasilij Grossmann e Aleksandr Solzenicyn per fare solo alcuni dei nomi più noti in Occidente. Ed è un onore per l’Italia che l’artefice principale del progetto e il coordinatore autorevolissimo della più organica e vasta storia della letteratura russa sia stato il nostro Vittorio Strada.
Di Vittorio Strada è anche il volume riguardante “La questione russa”. L’illustre slavista da decenni non cessa di indagare il rapporto tra l’Occidente europeo e la Russia e in questo volume ha voluto fare il punto su tutti i problemi e le tesi interpretative della storia russa, illustrando altresì le conclusioni a cui è pervenuto egli stesso dopo anni di intenso travaglio. Il libro di Strada non è il saggio brillante e parziale di un osservatore acuto che si immerge nell’attualità e ne rimane prigioniero. Certamente “La questione russa” è libro di bruciante attualità e la sua lettura costringe ad una continua “revisione” di giudizi correnti e di ingannevolissime analogie; ma il lettore attento si accorge ben presto che tutti i temi più importanti oggi in discussione Vittorio Strada li affronta “nella prospettiva della lunga durata”, cioè collegandoli di continuo ai motivi di fondo dello sviluppo storico.
***
A proposito di errori capillarmente diffusi, e per di più di un motivo, ci permettiamo di segnalarne almeno uno. Il primo errore di ottica storica, è il più duro a morire, è quello per cui si vede nella Russia comunista, nata cioè dopo l’ottobre 1917, nient’altro che la continuazione della Russia pre – rivoluzionaria e zarista, sì che il totalitarismo comunista sarebbe solo una nuova versione del potere autocratico. Per Strada le cose non stanno affatto così. La sovietizzazione fece della Russia il centro geo-politico del potere comunista, ma la privò dei suoi attributi nazionali. È infatti solo con la crisi congiunta del potere e dell’ideologia comunista, che è tornato a vigoreggiare il sentimento di appartenenza alla nazione russa, quella coscienza nazionale, che per decenni era stata soffocata e deformata dal comunismo. Lo stato sovietico era uno Stato ideologico multinazionale, a cui la Russia fu costretta a fornire il materiale qualitativamente e quantitativamente maggiore (umano, linguistico, e, in parte, culturale), perdendo però la propria identità nazionale. Il comunismo si impossessò della Russia, vi si insediò con la forza ed esercitò su di essa il potere per oltre settant’anni con la dittatura, senza mai avere un’esplicita, diretta investitura popolare; ma il fenomeno totalitario comunista non è un fatto specificamente russo, poiché l’ideologia marxista-leninista è per sua intima natura universalistica. Il progetto rivoluzionario è mondiale e solo all’interno di quel modello e di una strategia globale, è pensabile una tattica locale, una via nazionale al socialismo. La riprova è che in ogni parte del mondo, in cui il comunismo si è diffuso come ideologia e come regime, esso ha avuto connotati propriamente non russi, ma marxisti-leninisti. Il marxismo-leninismo è la negazione della democrazia liberale, del socialismo riformatore, della economia di mercato e della religione cristiana. E non sono proprio le cose che il comunismo combatte che, pur fra mille difficoltà e tra le macerie dell’antico regime, risorgono oggi nella Russia post-comunista…
Della pretesa continuità tra regime zarista e totalitarismo comunista si deve dire solo che è un luogo comune tanto insistito quanto superficiale. Come aveva previsto Tocqueville, un regime di dominio totale e incontrollato sulle coscienze, sull’economia e su tutte le istituzioni (in Italia ebbe il nome, poi usato in tutto il mondo di “totalitarismo”), non avrebbe potuto in nessun modo essere paragonato ai peggiori regimi assolutistici del passato. Senza idealizzare minimamente il potere degli zar, che peraltro già nella fase prerivoluzionaria non era più autocratico, non si può negare la radicale differenza fra questi due tipi di governo: quello totalitario realizza la sua conclamata assolutezza mediante l’azzeramento della società; l’altro contrasta una società civile che esiste ed è in via di sviluppo. Né si deve dimenticare che la rivoluzione d’Ottobre (sono molti a scrivere oggi: “la involuzione d’Ottobre”) non abbatté il regime zarista, ma un governo liberal-democratico presieduto da un socialista.
È impossibile, nello spazio di un articolo, anche solo offrire uno specimen delle osservazioni storico-critiche che rendono appassionante la lettura di Strada. Qui mi limiterò solo a far emergere lo schema sotteso al suo discorso. Da quando ha cominciato ad essere europea, la Russia ha conosciuto momenti di drammatica “svolta” tali da metterne in gioco l’ “identità” e il “destino”. La prima modernizzazione della Russia fu quella di Pietro il Grande e di Caterina II; e quello straordinario processo fu simbolizzato dalla fondazione di San Pietroburgo. Nacque allora la seconda Russia, cioè l’impero russo, una Russia più grande, più complessa, più potente, in cui la tradizione storica entrava in una complessa interazione col presente “moderno”. Poi, a partire dalla Rivoluzione francese, la Russia divenne forza determinante nella politica europea di equilibrio e perno delle monarchie conservatrici.
Nell’Ottocento esplose la grande creatività culturale russa e non solo nella letteratura e nella musica, in cui toccò vertici altissimi. Nei XIX secolo, si ebbe, infatti la seconda grande modernizzazione, che va dal 1861, cioè dalle riforme “europee” dello zar Alessandro II, al 1914. Le riforme vennero anche questa volta dal centro e dall’alto, ma la società e l’intelligenticijia le avevano reclamate da tempo, e quando esse giunsero, le giudicarono tardive e insufficienti. In ogni caso il regime politico in Russia divenne costituzionale nel 1905 e la riforma agraria di Stolypin dette realmente la terra al 40% dei contadini russi, scatenando però la protesta di coloro che non avevano fatto in tempo a godere dei frutti del riformismo di Stolypin ucciso nel 1911.
Il 1917 fu l’anno del tracollo militare, della rivoluzione liberaldemocratica del febbraio, e in ottobre, della presa del potere da parte dei comunisti. Anche con il marxismo-leninismo al potere si realizzò un nuovo tipo di “modernizzazione”. Nacque allora la prima dittatura totalitaria, la più spietata che la storia conosca, le cui vittime si contano in decine di milioni; il comunismo significò l’ipertrofia industrial-militare e fu eretta a sistema economico l’antieconomia collettivistica. Una modernizzazione a marce forzate, dunque, ma antimoderna e regressiva, consapevolmente rivolta ad annullare gli effetti organici della modernità nella sfera sociale e intellettuale mediante un potere politico totale.
L’ultima forma di modernizzazione, che era stata avviata da Gorbaciov allo scopo di salvare dal crollo il comunismo, a partire dall’agosto 1991 si è trasformata in rivoluzione democratica, cioè in qualcosa che è fuori e contro il comunismo. Quale futuro potrà avere, nelle tragiche condizioni di fame e di disorganizzazione economica e sociale in cui il comunismo ha lasciato la Russia, la rivoluzione democratica di agosto? Il rischio è grande ma la speranza è bella.
Giornale di Brescia, 1.12.1991. Articolo scritto in occasione dell’incontro con Vittorio Strada.