Quest’anno si dovrebbe celebrare il quarantesimo anniversario della Costituzione Apostolica Veterum Sapientia, pubblicata da Giovanni XXIII il 22 febbraio 1962. Forse si dovrebbe dire non che si celebra ma semplicemente che ricorre il quarantesimo anniversario di quel documento, tanto lontano appare a molti quel tempo visto dal terzo millennio. Eppure la Veterum Sapientia uscì in un momento storico decisivo, di cui ancora non si sono misurate in pieno le conseguenze. La Chiesa si apprestava a celebrare il Concilio Vaticano II, nel quale la maggiore universalità dell’episcopato chiamato a raccolta avrebbe posto anche il problema della lingua di comunicazione. In Italia si preparava, preceduta da lunghe discussioni e intensa partecipazione della scuola militante, la legge 31 dicembre 1962 n. 1859, che relegava il latino in margini ristrettissimi, preludio inevitabile alla sua totale cancellazione dalla Media unica, sancita dalla legge 348 del 16 giugno 1977. La Costituzione Apostolica è all’interno della Chiesa ed emana norme severe per la propria applicazione. Lo studio del latino nei Seminari deve durare almeno sette anni; non si può giungere agli studi superiori sacri senza una buona conoscenza delle lingue classiche. Lo scopo è l’accesso diretto ai testi fondamentali della dottrina della Chiesa. Per il latino sono previste norme speciali: libri e lezioni in quella lingua. La fondazione di un istituto per il Latino Antico veglierà perché questa stessa lingua, che è consolidata e universale, si adatti alle esigenze nuove senza perdere le proprie caratteristiche. L’ottica è quella non di un latino umanistico e formale, ma di una lingua funzionale, che possa essere sentita ancora come vox materna da tutti i popoli. Allora si riteneva che tra le lingue moderne parlate nessuna eccellesse in autorevolezza tra le altre. Nonostante la sua ristretta sfera di applicazione la Veterum Sapientia è di utile rilettura anche al di fuori della Chiesa. Intanto ribadisce il valore intellettualmente formativo dello studio scolastico del latino (che, aggiungerei, gode di una lunghissima tradizione didattica, la quale ne ha fatto uno strumento, gravoso e astratto, se si vuole, ma anche funzionale). Lo stesso concetto aveva espresso qualche decennio prima Antonio Gramsci, formulando anche una profezia, che si é avverata, e cioè che era tempo di cancellare il latino come fulcro educativo nella scuola (come è stato fatto), ma che sarebbe stato difficile sostituirlo (come puntualmente è avvenuto). Oggi tocca a inascoltati filosofi della scienza e a specialisti di materie scientifiche la rivendicazione dell’utilità metodologica di malvisti esercizi scolastici, come la «versione del brano». Ma è più importante ancora che la Veterum Sapientia, come già dice il titolo, non proclami un interesse indiscriminato per la romanità, anzi fortemente selettivo. Di Roma antica ci interessano i valori che, nonostante le strutture, nonostante l’imperialismo, l’antifemminismo e lo schiavismo, gli spiriti pensosi e illuminati seppero definire ed esprimere consegnandoli alle norme del diritto e alle pagine dei loro scritti. E proprio in litteris (cioè nella letteratura, non intesa in senso estetico ed evasivo) si trova depositata la sapienza degli antichi e a questo deposito ci si deve rivolgere. La Chiesa da parte sua dichiara di accogliere come proprio tutto ciò che di «vero, giusto, nobile, bello» è stato «generato» nel mondo antico prima del suo avvento, da qualsiasi parte provenga, anche dall’Oriente (in Orientis plagis, recita il testo). E perciò i regolamenti applicativi prevedono lo studio nei seminari di molti autori classici. Non c’è motivo di non comportarsi nello stesso modo, ossia di concedere gli stessi riconoscimenti, anche nella cultura laica. Il problema è di grande attualità, perché in Italia la funzione socializzatrice di collegamento col passato è affidata quasi unicamente alla scuola, e la scuola è in travaglio da troppo tempo. Non si tratta di risuscitare un panlatinismo di infausta memoria, di sospetta matrice ideologica e di ben scarsa efficacia. Si tratta invece di assicurare, per ottenere effetti di ricaduta, in uno o più canali scolastici non privilegiati, una presenza forte e ben calibrata del mondo classico, tanto più che il suo insegnamento non rifugge dalle strumentazioni moderne, informatica compresa, e chiede solo lo spazio per realizzare anche la tradizionale funzione formativa preuniversitaria, accanto a quella culturale. Fuori dalla scuola la presenza del mondo classico sembra affidata alla sola archeologia, qualche volta non senza eccessi di conservatorismo. Però la valorizzazione delle aree di interesse in questo settore sembra a volte motivata piuttosto da ragioni turistiche e quindi commerciali. Nella relazione dei 44 saggi della riforma Berlinguer se ne era parlato come di una risorsa economica. E questo è certamente troppo poco, anche se delle ragioni pratiche bisogna tener conto. Come è troppo poco mettere sullo stesso piano i pitoti e l’archeologia industriale, i resti romani e quelli precolombiani trasformando l’archeologia in antiquaria, quella «cultura dei sassi», che già lo spirito illuminato di Leopardi rimproverava ai romani del suo tempo, senza senso della storia e selezione di valori. Fondamentale è la coscienza del nostro inserimento in un flusso di vicende, che viene da lontano. È piuttosto strano che ai giorni nostri ogni borgo esibisca una festa in costume, per commemorare un avvenimento locale di pochi secoli fa, una battaglia, un editto o anche solo l’ingresso di una principessa, e non si abbia lo stesso interesse per una storia e una cultura, che ci coinvolgono tutti, perché hanno posto le basi della nostra identità, abituano a vedere i fattori di lunga durata dal passato al futuro e preparano all’apertura al diverso senza complessi di inferiorità. Non servono il folclore e il turismo, ma la coscienza storica che i Romani prima e gli italiani poi sono stati il risultato di incroci di più popoli, che però si sono fusi in un’unica cultura. Credo che sia inutile insistere sulla straordinaria attualità e urgenza di simili prospettive.
Giornale di Brescia, 22.2.2002.