La scienza delle barbarie: i lager nazisti

È la prima volta che entro nell’Oratorio della Pace, ma per me è stato sempre un luogo conosciuto attraverso i padri dell’Oratorio: padre Bevilacqua che ho incontrato a Roma quando era in esilio forzato; padre Ottorino Marcolini, questo uomo straordinario, per santità, per profondità di vita, che mi capitò di ritrovare quando eravamo tutti e due ospiti del terzo e ultimo grande Reich; padre Carlo Manziana che ha pagato con la deportazione a Dachau il suo coerente antifascismo.

La mia avventura nei lager nazisti è stata di un altro tipo rispetto a quella che ha affrontato padre Manziana, ma la passione, la lotta, era identica: sapevamo che non si poteva mollare, sapevamo che le richieste dei tedeschi, dei fascisti, andavano respinte. Eravamo sulla stessa strada, combattevamo contro lo stesso nemico e prima di tutto eravamo costretti a combattere contro noi stessi, contro le nostre debolezze, contro la nostra miseria, contro la tentazione di andare al baracchino dei tedeschi, firmare e uscire.

Forse a quel tempo distinguevamo troppo nettamente il torto e il giusto: noi eravamo nel giusto, tutti gli altri erano nel torto. Da questa tragedia dei campi di concentramento ci viene un invito ad un esame di coscienza per tutti gli uomini. Dopo Auschwitz e tutto ciò che questo nome riassume, non è più possibile sbrigarsene con un giudizio manicheo. Giorgio Bassani, l’autore de Il giardino dei Finzi Contini, ha detto che tutti siamo reduci da Auschwitz; e la storia dell’umanità si divide in prima e dopo di Auschwitz. Tutti siamo superstiti di questo enorme campo di concentramento che ha stritolato più di quattro milioni di persone e, allo stesso tempo, tutti siamo corresponsabili di quanto avvenne. Auschwitz ci interpella ancora drammaticamente e ci interpella anche per quello che è il senso della storia e per quello che è il modo con cui Dio interviene nella storia.

Primo Levi, autore del bellissimo libro Se questo è un uomo, che ha aperto le nostre menti intorno alla enorme tragedia degli ebrei nella deportazione, si è domandato se è possibile continuare a credere nella Provvidenza dopo Auschwitz. È un modo di porsi di fronte a questo gravoso enigma del modo in cui Dio opera nella storia, nella grande storia e nella storia di ciascuno di noi. Mi sono posto anch’io la domanda dove fosse Dio in Auschwitz. È stata fatta troppo spesso della agiografia. Il lager è stato visto come momento di riconquista del divino, poiché nella tragedia si sono ritrovate le radici religiose. Tutto ciò è vero, ma fino ad un certo punto. C’è chi nel lager è entrato ateo ed è uscito credente; c’è invece chi nel lager è entrato credente ed è uscito ateo, proprio perché non risolveva questo problema: dov’era Dio quando ad Auschwitz i camini dei forni crematori erano fumanti. Il teologo Jürgen Moltmann riprende un episodio avvenuto in Auschwitz: la terribile agonia di un ragazzo, impiccato dai tedeschi e che non riesce a morire. Gli internati sono costretti ad assistere a questo strazio. Uno di essi mormora «Dio dov’è» e un altro gli sussurra «È lì, che soffre con il nostro compagno».

L’universo concentrazionario nazista ci pone altri angosciosi interrogativi che non ci permettono di addormentare la nostra coscienza: il più grave è quello se sarebbe stato possibile, o no, frenare la mano ai nazisti; se veramente il mondo dei lager era segreto, una città ermetica, fuori della quale non se ne sapesse niente. Dalle ricerche che ho fatto risulta invece che il segreto del lager non era poi un segreto; l’esistenza dei campi di concentramento era conosciuta fin dalle origini. Diceva Joseph Gobbels, ministro della propaganda nella Germania Nazionalsocialista, che era bene che se ne sapesse abbastanza, perché la gente ci pensasse prima a quello a cui andava incontro. Il lager è nato come mezzo per spezzare una opposizione politica, per la distruzione degli avversari del nazismo, e solo in un secondo tempo, è diventato uno strumento di sterminio della razza ebraica. Hitler aveva avuto anche la sincerità di dire nel Mein Kampf in che modo si sarebbero dovuti distruggere gli avversari politici, mediante il gas. Il lager è un modo di far politica per imporre un proprio dominio personale. Nei dieci volumi degli Atti e documenti stampati dalla Santa Sede durante la II guerra mondiale, sono citati tutti quanti i lager, anche i quattro lager di sterminio, e si dice anche chiaramente in che modo venivano sterminati gli ebrei. Se ne sapeva abbastanza e fa pensare la reticenza delle grandi potenze a prendere un atteggiamento chiaro ed inequivoco di condanna dello sterminio.

Il lager non era una città ermetica; al mondo dei lager si potrebbe estendere il detto di Gesú: «Chi ha orecchi per intendere intenda». Noi, invece, ci siamo rifiutati di udire a tempo il grido che veniva dai lager, anche se la loro dimensione era talmente vasta da risultare inedita nella storia degli orrori del mondo. Ho sentito la prima volta parlare di uccisione nella camera a gas nel settembre 1943, quando ero da poco internato militare (devo precisare che la vita degli internati militari era durissima, ma niente in confronto di quella dei politici e degli ebrei): un ufficiale degli alpini, che aderì immediatamente alle richieste dei nazisti, mi disse che aveva lavorato con suo padre in una impresa di costruzioni presso Mauthausen e che aveva saputo che nel lager esisteva la camera a gas per uccidere la gente. Nel campo di Dęblin, una fortezza russa sulla Vistola, c’era un gruppo di deportate ebree superstiti dal massacro del ghetto di Varsavia: non le vedevamo perché un muro si frapponeva tra noi e loro, ma la sera si poteva parlare in francese. Queste donne ci dicevano che cosa era successo nel ghetto di Varsavia e che esse stesse non avevano speranza di sopravvivere. Noi non volevamo crederci; nonostante tutto ci illudevamo che non fosse così.

Padre Marcolini aveva il coraggio (e chi è stato in campo di concentramento sa che ce ne vuole molto) di passare da un settore all’altro del campo, infilandosi sotto i reticolati tra una sciabolata e l’altra del riflettore. Veniva da noi alla sera a consolarci, e ci diceva una cosa profonda, cioè che era provvidenziale che finalmente nel lager ci fossero degli italiani. Gli dissi: «Ma che dici padre Marcolini!» e mi ricordo il momento e il luogo di questa conversazione nell’immenso campo dove c’erano rappresentanti di tutte le nazioni sotto il tallone tedesco: olandesi, belgi, francesi, russi. Solo dopo ho capito che era stata veramente provvida la sventura che mi aveva messo fra gli oppressi dei nazisti; mi aveva schierato in qualche modo dalla stessa parte di Anna Frank, e mi aveva permesso di sciogliere ogni compromissione con il regime che governava la mia patria e che era alleato ai nazisti. Il ritorno degli italiani nella grande famiglia europea è avvenuto così, e padre Manziana sa che è stato un ritorno doloroso. Come è stato difficile spiegare ai francesi che non eravamo quelli che avevano inferto il 10 giugno il colpo di pugnale nella schiena della Francia, con i tedeschi già a Parigi.

Oggi, sappiamo abbastanza cosa è successo nei lager, ma ne conosciamo sufficientemente solo l’aspetto esteriore, brutale del campo. Anzi si è esercitata fin troppo una curiosità morbosa che ha avuto espressione anche in romanzi, film, che non esito a definire pornografici. Conosciamo anche il posto che ebbe il lager nella politica di Hitler. Fa veramente impressione che in nessun discorso di Hitler, nemmeno in quelli privati, i cosiddetti discorsi a tavola, che venivano tutti stenografati, e nemmeno nei suoi incontri con i gerarchi nazisti, non sia mai spuntata la parola lager; evidentemente c’era in lui una sorta di romantico desiderio che tutto rimanesse avvolto nel mistero, o anche lui si rifiutava di dire questa parola. Del resto sappiamo che i tedeschi nel linguaggio del campo evitavano i nomi più crudi: lo sterminio degli ebrei si chiamava «soluzione finale della questione ebraica»; il camino per il forno crematorio era il «camino per il cielo». Sappiamo anche la funzione che, più tardi, il campo ebbe nell’economia di guerra del Terzo Reich, e come questo infame servaggio dell’uomo abbia raggiunto nei campi di concentramento tedeschi una sapiente organizzazione, un congegno che ha utilizzato mezzi moderni per trovare un modo di uccidere «pulito». Diceva il comandante di Auschwitz che si trattava di interporre tra il carnefice e l’assassinato il massimo spazio possibile, in modo da evitare di vedere negli occhi la gente che si uccideva.

Conosciamo quindi i meccanismi di annientamento, e conosciamo abbastanza l’entità dei massacro: oltre sei milioni di ebrei. Ma credo ci sfugga ancora quello che il mondo del lager fu veramente. Ho cercato anch’io una risposta all’interrogativo supremo e mi sono convinto che solo nell’ultimo giorno l’avremo. Solo allora ci sarà svelato il segreto del lager, solo allora capiremo quale fu il posto del lager nella storia dell’umanità che va verso la salvezza, mentre il lager sembra essere il momento della disperazione e della dispersione totale. Allora quanto ci è stato nascosto sarà svelato, anche se qualcosa si incomincia ad intravedere.

Chi mai avrebbe immaginato che un giorno, un polacco, ossia un uomo uscito da una nazione che non doveva più esistere neppure come nome, sarebbe da Papa entrato in Auschwitz e in Auschwitz avrebbe celebrato una messa? Piansi quel giorno nel vedere alla televisione il Papa in Auschwitz: desideravamo la sconfitta dei tedeschi, ma a questo punto neppure la nostra immaginazione più sbrigliata è mai arrivata. È soltanto un segno piccolo, ma in questa direzione va scavato se si vuol vedere il vero significato dell’universo concentrazionario.

Se ci sforziamo a portare testimonianza, non lo facciamo per riaprire una storia di orrori, di vergogna; non ci proponiamo di rimestare nella più spaventosa tragedia di tutti i tempi, né di rattristare le coscienze. Non si tratta neppure oggi di riaprire un processo ad un popolo, anche se siamo convinti che molto del carattere teutonico si è espresso nella organizzazione dei lager, non fosse altro perché i tedeschi credevano che «un ordine è un ordine» in ogni caso, anche quando va contro la coscienza. Persino un grande pensatore come Kant, quando nella risposta alla domanda Cosa è l’illuminismo esamina che cosa deve fare un ufficiale prussiano di fronte ad un ordine ingiusto, dice che deve obbedire. Di questa realtà pochi hanno presa coscienza in Germania, anche se qualche volta ci hanno dato degli esempi, come quel gruppo di giovani tedeschi che all’indomani della fine della guerra ha voluto girare a piedi in Polonia visitando i campi di concentramento con una croce sulle spalle, vivendo di elemosina.

Vogliamo alimentare la memoria storica dei campi di concentramento perché è necessario prendere coscienza del passato se non vogliamo che si ripeta; il nostro è un dovere doloroso, ma al quale non possiamo rifiutarci. Appartengo ad una generazione per la quale non c’è congedo, che deve fino in fondo portare la testimonianza di chi si è piegato a molte compromissioni ed è stato poi costretto ad agire eroicamente, a pagare di persona perché il Paese tornasse libero. Ai giovani dobbiamo dire che la libertà è un bene tanto grande, tanto vitale, che si fa presto a perderlo se non ci si oppone subito alle tentazioni totalitarie. Hitler avrebbe potuto essere respinto all’inizio, ma non più, soltanto ad un anno di distanza dalla sua presa di potere.

C’è un’altra insidia che il lager ci ha svelato e che oggi, nell’era dei computer, dell’organizzazione totale della vita, ci deve far riflettere. Ha scritto il cardinale Joseph Ratzinger che il segreto vero dei lager sta nella bestia apocalittica che è un numero e che numera gli uomini e li conosce solo per numero. Nel lager siamo stati tutti numerati, ci chiamavano per numero, dovevamo tenere al collo la piastrina con il numero. La bestia dell’Apocalisse è un numero e questa bestia non è stata uccisa. Nell’aprile del 1945, quando la Germania crollò, credevamo che fosse stata uccisa, invece sonnecchia soltanto. Tutti ricordiamo i versi di Brecht. La massima crudeltà del campo di concentramento è la tentata distruzione della dignità umana, di quel riflesso divino che è in ciascuno degli uomini. Per questo anche oggi, contro ritorni delle barbarie, non solo possibili, ma che si sono già verificati, siamo chiamati ad una continua, intransigente, vigile lotta per il rispetto e il riscatto della dignità dell’uomo.

Ripensiamo alla resistenza nei lager, a questo miracolo avvenuto in tutti i campi; agli internati militari che affamati, colpiti da malattie, potevano andare a firmare, e non hanno voluto. Ne sono morti quarantamila di italiani e ho il ricordo di giovani nell’inverno 1944-45 (allora avevo trentatré anni ed ero il più vecchio della baracca), che venivano la mattina con un freddo di 25-30 gradi sotto zero a dirmi: «Giuntella spiegami perché dobbiamo ancora rimanere qui», ed io avevo paura che fossero impazziti e, invece, volevano solo che riconfermassi loro le ragioni della nostra resistenza. Alcuni di questi giovani non sono ritornati a casa; sono rimasti lassù, hanno resistito fino all’estremo; non hanno ceduto. Ebbene, il non piegarsi ai nazifascisti era un modo per restare uomini, e la resistenza possibile era appunto il rifiuto di divenire un numero.

Questa mi è parsa l’unica lezione accettabile dell’esperienza dei campi ed è la lezione che ci viene da Massimiliano Kolbe. Padre Kolbe ha imposto al comandante nazista di Auschwitz una scelta in un campo in cui ogni decisione era preclusa: la scelta di morire al posto di un padre di famiglia. Quello è il miracolo di padre Kolbe. Quando lessi quell’episodio rimasi sconcertato, in quanto un nazista avrebbe mandato nel bunker della morte insieme al religioso, che sceglieva, anche il padre di famiglia, al quale voleva sostituirsi. Padre Kolbe doveva avere negli occhi un tale riflesso di santità che l’altro ha dovuto cedere.

Restare uomini, rispettare in noi e negli altri l’immagine di Dio. Questa è la lezione che ci viene dalle atrocità dei campi di concentramento.

 


Testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta il 28.1.1983 a Brescia su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura. Vittorio Emanuele Giuntella, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, tenente degli Alpini, fu preso prigioniero dai tedeschi e fu internato in lager della Polonia e della Germania (Sanboster, Bergen-Belsen, Deblin, Wietzendorf). Ha speso tutto il resto della sua esistenza, oltre che nel lavoro di storico, nella testimonianza della pagina nera della storia dell’umanità, da lui vissuta in prima persona.