Tra il gennaio e l’aprile del 1945 i lager nazisti svelarono il loro segreto. Il mondo conobbe che cosa erano i campi della morte. La guerra è crudele di per sé, ma le notizie che arrivavano dai campi di sterminio erano così esorbitanti rispetto alla stessa esperienza bellica da apparire non reali. Da allora la coscienza umana non ha cessato di chiedersi come mai fu possibile Auschwitz, come si arriva ad Auschwitz? E quando diciamo Auschwitz, intendiamo tutto l’universo concentrazionario, la ragnatela fittissima di campi che copre tutta l’Europa occupata dai nazisti, da Treblinka a Bergen-Belsen, da Mauthausen a Dachau, da Chelmno a Buchenwald, da Ravensbruch (il campo delle donne deportate) alla risiera di S.Sabba a Trieste. La Polonia, soprattutto, era un immenso campo di concentramento, la nazione più martirizzata di tutte.
Questa tremenda esperienza che caratterizza negativamente il nostro secolo – c’è un prima e un dopo Auschwitz – non deve essere cancellata, per rispetto della verità e per onorare il dolore umano, per impedire infine che la peste totalitaria continui a diffondersi. La letteratura sui campi possiede già alcuni capolavori, come “Se questo è un uom” di Primo Levi, “Si fa presto a dire fame” di Pietro Caleffi, “Tu passerai per il camino” di Vincenzo Pappalettera, La quarantena di Giovanni Melodia, Lo Stato delle SS di Eugen Kogon, “Un vescovo polacco a Dachau” di Franciszek Korszynski stampato dalla Morcelliana di Brescia. E tuttavia occorreva studiare il quadro più vasto in cui si inseriscono le memorie personali, Far emergere dei campi di concentramento la struttura e l’organizzazione, le tecniche della deportazione, le ideologie politiche che li avevano fatte sorgere come un mezzo di rafforzamento del potere conquistato, spegnendo con il terrore ogni dissenso, per poi disseminarli in tutta Europa come strumento di sfruttamento e di sterminio. Questo lavoro è stato finalmente compiuto. Proprio in Italia è apparso sulla fine degli anni Settanta, nelle Edizioni Studium di Roma, “Il nazismo e i lager” di Vittorio E Giuntella.
Il libro di Vittorio E. Giuntella – frutto di una ricerca appassionata di decenni, sulla scorta di una imponente documentazione – scarta energicamente e denuncia la tendenza di certa pubblicistica e di tanti films di bassa lega a ridurre la vicenda dei lager a un episodio moderno della galleria degli orrori e del sensazionale. Malgrado la ferocia consueta di tutte le guerre, di tutti i massacri, di tutte le violenze, i lager rappresentano qualcosa di inedito nella storia dell’umanità. Il sistema dei lager nasce nella Germania nazista come conseguenza logica, inevitabile, di una ideologia totalitaria, che porta alle estreme conseguenze la teoria dell’annientamento degli avversari. La storia dei lager quindi non è affatto l’esplosione di una violenza bestiale, incontrollata, ma la traduzione pratica di una concezione del mondo. La crudeltà episodica, dovuta all’iniziativa di comandanti minori e di guardie dei campi, è di scarsa rilevanza di fronte alla spietata regolamentazione “a tavolino” della sorte di milioni di uomini. Questo carattere di fredda burocratizzazione distingue la vicenda dei lager nazisti in modo assai netto. Ai veleni consueti di ogni totalitarismo – la divinizzazione del partito messia, del capo; la dedizione servile e appassionata a un credo che si carica di compiti mondiali; la compensazione di ansie e insicurezze attraverso l’assorbimento nel collettivo e l’odio ossessivo degli avversari – il nazismo aggiungeva l’uso perverso di alcune caratteristiche tedesche o meglio prussiane. Persino un grande e nobile pensatore come Kant non aveva osato attaccare il dovere del militare prussiano di eseguire gli ordini ingiusti e proprio nello stesso scritto in cui rivendicava alla ragione il compito di far uscire l’uomo da una condizione di minorità.
Per troppo tempo la frase “Befehl ist Befehl”, un ordine è un ordine, aveva bloccato non solo il giudizio critico, ma la protesta della coscienza. L’antisemitismo, il razzismo, la celebrazione ossessiva del totalitarismo come religione di ricambio in un’epoca che ha smarrito il senso della dignità e del messaggio cristiano attestano che nell’età contemporanea per centinaia di milioni di persone la pratica della crudeltà è stata richiesta come un servizio da rendere allo Stato. E’, però, doveroso ricordare che vi è un’altra Germania, quella dell’universalismo etico ed estetico, la Germania di Bach, di Leibniz, di Kant, di Beethoven: c’è la Germania che ha resistito al nazismo, ci sono i tedeschi imprigionati nei lager prima dei popoli vinti, ci sono i fratelli Scholl, c’è Bernhard Lichtenberg, il parroco di Berlino che fa pregare pubblicamente per i fratelli ebrei ingiustamente perseguitati, c’è Dietrich Bonhoeffer e tanti altri che onorano altamente la loro nazione e l’umanità.
Con lo stato totalitario moderno il male e l’orrore hanno cessato di essere episodici e si sono inseriti nella vita di tutti i giorni in un sistema “razionale”di sterminio. Un sistema a suo modo “razionale” di genocidio si è avvalso della tecnica moderna messa al servizio dell’annientamento pianificato di interi gruppi umani: lo strapotere dello Stato moderno è irrefrenabile quando lo Stato diventa totalitario. Questa a noi pare la tremenda lezione della “scienza della barbarie”. Il nazismo non è del tutto estraneo ad alcuni tratti specifici della tradizione politica e culturale tedesca, ma è del pari vero che la barbarie dei lager è la proiezione tedesca di un male generale della nostra epoca là dove essa è caratterizzata dal declino dello spirito di libertà e dalla illusione di cercare la propria salvezza nella pseudo-mistica dell’annientamento di chi è oggetto dell’odio razziale e ideologico.
Giornale di Brescia, 27.1.1983. Articolo scritto in occasione dell’incontro con Vittorio Emanuele Giuntella su “La scienza delle barbarie: i lager nazisti”.