All’inizio della mia carriera scientifica, appena laureato, vinsi un concorso ed ebbi la fortuna di lavorare nel gruppo diretto dallo scienziato inglese prof. Patrick Blackett, insignito nel ’48 del premio Nobel per la fisica, nel laboratorio della Jungfraujoch a 3500 m di altezza. In quel centro all’epoca si studiavano interazioni di alta energia. Non esistevano le macchine che noi oggi abbiamo nei grandi laboratori. L’Europa usciva dalla guerra e aveva come unico strumento i raggi cosmici. Durante le notti che si passavano lavorando, ebbi la fortuna di incontrare il prof. Halltermanns, un fisico di origine tedesca, professore dell’università di Berna. Egli mi prese in simpatia e si intratteneva con me in conversazioni estremamente interessanti. Mi parlò anche della bomba nazista. E’ falso che gli scienziati tedeschi si rifiutarono di costruire la bomba. E’ vero, invece, che il compimento del loro progetto fu ostacolato da un enorme errore di calcolo: un errore di fattore 30 (come se qualcuno, dovendo stabilire quanto è larga una porta, dicesse metri 1, invece di 30). Il gruppo tedesco, che lavorava alla costruzione della bomba in gran segreto e che aveva commesso quel madornale errore di calcolo non poteva, d’altra parte, digerire il fatto che la super-bomba avesse come pilastro fondamentale la scoperta di un ebreo: la famosa equazione di Einstein. Pertanto gli scienziati nazisti speravano in tutti i modi che qualcuno scoprisse che quell’equazione era sbagliata. Degli aspetti allucinanti, dell’oscurantismo di queste ideologie folli fa fede quanto sto per raccontare.
Il prof. Halltermanns era un giovane comunista tedesco e, quando Hitler incominciò ad avvicinarsi al potere, decise di scappare nel “paradiso terrestre” russo. Finito nelle galere di Stalin, perché era un idealista, un certo giorno Halltermanns venne avvicinato da due persone che dissero: “Usciamo” ed egli pensò: “Adesso mi condannano a morte …” Invece, nel giro di un giorno e mezzo, si trovò in Germania. In virtù dell’accordo tra Ribbentrop e Molotov, l’Unione Sovietica e la Germania erano divenute alleate per conquistate la Polonia. Il prof. Heisenberg, che era il capo del progetto tedesco per la bomba nucleare, aveva bisogno di persone in gamba e si ricordò di Halltermanns che fu ben presto liberato. Il giovane fisico tedesco non poteva credere ai suoi occhi: dalle galere staliniane era passato ai fasti della gloria nazista. Quindici, venti giorni dopo la liberazione, il giovane scienziato venne a trovarsi dietro la porta del Führer: entrato nella équipe di Heisenberg lo seguiva in tutti i posti, in qualità di suo stretto collaboratore, e quindi anche negli ambienti più riservati del regime. Alla diretta presenza di Hitler non era ammesso nessuno, nemmeno Ribbentrop. Aveva accesso solamente Heisenberg. Una volta che Halltermanns lo accompagnò e dovette fermarsi alla porta dello studio di Hitler, fu avvicinato o da Goering o da Goebbles – non ricordo bene – e gli fu rivolta la domanda specifica: “Professor Halltermanns, ci dica, il prof. Heisenberg crede veramente all’equazione di Einstein?”. Halltermanns, che mi raccontò questo episodio in una nottata a Jungfraujoch in cui si rideva di cose tragiche, mi disse: “Io ero letteralmente terrorizzato: adesso dalle galere staliniane finisco in quelle naziste”. E aggiungeva: “Sta’ attento, tu sei giovane! Tu non sai quanto è terribile vivere in quelle condizioni. Io avevo giurato che mai più sarei tornato in galera”. Quindi, in un attimo di riflessione, venne fuori la battuta: “Purtroppo sì”. Mi confidava Halltermanns: “Dissi ‘purtroppo’ per mettermi in salvo, ma non potevo dire ‘no’ per non mentire”. Quando Halltermanns arrivò nel gruppo di Heisenberg, il calcolo errato del fattore 30 era stato già commesso e gli esperimenti erano in corso. L’uranio, prima del 1940, era l’elemento più inutile che si potesse immaginare; non serviva assolutamente a nulla; ed ecco che nell’Europa occupata dai nazisti fu sequestrato tutto l’uranio. La notizia fece il giro del mondo e fece scattare la paura che i nazisti fabbricassero la bomba, impresa ormai compromessa dal fattore errore che li aveva portati completamente fuori strada. Nasce di qui l’appello di Einstein a Roosevelt: “…Mi risulta che Hitler sta facendo una bomba d’immensa potenza distruttiva; pertanto io penso che gli Stati Uniti debbano immediatamente partire in questa direzione”. L’originale è conservato nel Museo della Tecnica e della Scienza in Chicago. Quando finì la guerra, Einstein dichiarò: “Se avessi saputo come stavano effettivamente le cose, non avrei mai firmato quella lettera”.
In realtà il gruppo di scienziati che lavorava al progetto Manhattan, che in cinque anni trasformò una proposta fantascientifica in realtà, era dominato da un incubo: che in Germania la bomba fosse già messa a punto e che i nazisti fossero in grado di farla esplodere da un momento all’altro.
Negli anni ’40, due gruppi di persone, uno nella Germania nazista, l’altro nella libera America, lavorano senza che nessuno sappia nulla dell’altro, ciascuno convinto che gli altri siano più bravi. E tutti e due corrono. Adesso, a quarant’anni di distanza, è ancora così. Due gruppi di persone molto intelligenti lavorano, uno qui, uno lì, a 15.000 Km. di distanza. Ciascuno dei due gruppi pensa che l’altro sia più avanti. Gli scienziati vogliono preservare dalla distruzione la loro patria e intanto sono ingaggiati in un duello che è mortale per l’intero pianeta. I ricercatori non sono diavoli, ma persone come noi. Io ne conosco moltissimi, di tutte e due i gruppi: tutti sono dominati dalla paura di perdere e molti non hanno ancora capito che qualcosa di fondamentale è cambiato nel mondo, per cui o ci si salva, lavorando a un progetto comune, o si va incontro al terricidio.
Nel 1942 l’uomo ha acceso un altro tipo di fuoco, le cui conseguenze non ci sono ancora chiare. Il fuoco l’uomo l’ha acceso all’alba della civiltà, molto prima dell’invenzione della scrittura, ma fino al 1905 nessuno sapeva cosa vuol dire accendere un fiammifero. Quando da ragazzo, finito in campagna a causa dei bombardamenti, conobbi per la prima volta il processo di fabbricazione del pane, chiesi a un contadino fornaio, che era anche, a suo modo, un po’ filosofo: “Mi spieghi che cosa trasforma questa cosa immangiabile, questa poltiglia in un pane così squisito?”. Egli mi rispose: “Io prendo tanta legna (100, 200, 300 kg.), la metto nel forno, la brucio. Poi non c’è più nulla, solo cenere. La grande quantità di materia si trasforma in energia e l’energia cuoce il pane”. Il povero contadino siciliano non sapeva quello che nel 1905 Einstein aveva dimostrato: se bruciamo diecimila tonnellate di legna, trasformiamo quell’enorme massa in appena tre grammi di energia. Il nostro è un mondo in cui abbonda la massa e scarseggia l’energia; ma nei nostri laboratori noi siamo giunti a creare artificialmente proprio la situazione inversa, un mondo in cui l’energia è tanta e la massa pochissima.
Il fuoco è un metodo per trasformare massa in energia: è il fuoco dei nostri fornelli, del fiammifero, del petrolio, delle bombe classiche, della nitroglicerina, del tritolo. La bomba che distrusse Hiroshima era di 14.000 tonnellate, 14 kiloton, cioè equivalente a 14.000 tonnellate di tritolo. Ancor oggi non c’è un aeroplano che trasporti 14.000 tonnellate dì tritolo; ci vorrebbe una nave. Eppure la bomba era costruita con pochi chilogrammi di uranio, perché il fuoco di quella bomba non era fuoco elettromagnetico, ma nucleare, che è decine di milioni di volte più potente del fuoco elettromagnetico.
Quando accendiamo un fiammifero, quando bruciamo del petrolio o della legna o facciamo esplodere una bomba al tritolo che cosa facciamo, in verità, al nucleo? Nulla. Stuzzichiamo, per così dire, solo la parte esterna degli atomi; la parte interna degli atomi rimane totalmente com’era. Il fuoco nucleare, invece, stuzzica il nucleo, e dà alla trasformazione della massa in energia una potenza moltiplicata decine di milioni di volte. Se io adesso voglio produrre la stessa quantità di energia che otterrei bruciando 10 mila tonnellate di legna (o petrolio o tritolo), invece di 10 mila tonnellate a me bastano 3 chili, perché il fuoco nucleare è un metodo molto più efficace per trasformare la massa in energia: giunge a trasformare, infatti, in energia l’un per mille della massa. Quando si sente parlare di era nucleare, si pensa immediatamente a Hiroshima e Nagasaki; ben pochi sanno che all’inizio dell’era nucleare sta Rutherford. Egli infatti ha scoperto che quello che per definizione significa “una cosa che non si rompe”, l’atomo, invece, si rompe. I nostri bisnonni dicevano che con i 92 atomi elementi della tavola chimica di Mendeleev si poteva fare qualunque cosa. Questi elementi venivano immaginati come sfere perfette, tutte diverse tra di loro, indivisibili ed uniformemente cariche di massa e di elettricità. Rutherford scopri che questa immensa sfera sta tutta qui nel nucleo. Tra il nucleo (dove siamo noi) e gli elettroni c’è il concetto platonico di vuoto, riempito soltanto dalla rotazione, appunto, degli elettroni che, nuvola leggerissima, si muovono continuamente intorno al nucleo (a noi) all’interno di questa immensa sfera. I cosiddetti atomi non sono atomi, la massa e l’elettricità sono concentrate nel nucleo. La teoria fece scalpore e un giornalista chiese al professor Rutherford se la sua scoperta avrebbe avuto una qualche applicazione nel campo dell’energia. L’episodio raccontato da Rutherford al grande Kapitza, dalla cui viva voce io l’appresi, fa parte della storia della scienza. Rutherford, pensando in cuor suo che il giornalista non si rendesse per niente conto del significato di “energia” rispose: “La sua domanda è molto interessante, però pensare che la mia scoperta possa avere a che fare con la produzione di energia è come aspettare di scaldarsi al chiaro di luna!”. Parlava così il padre della fisica nucleare, perché i due estremi comportamenti nucleari la fusione e la fissione, non erano conosciuti e bisognava che fosse scoperta l’equazione di Einstein. Occorre però ribadire una volta per sempre che è arbitrario identificare sic et simpliciter scienza dell’atomo e costruzione della bomba atomica. Nel 1945 Hiroshima e Nagasaki vennero rase al suolo non perché Rutherford aveva scoperto il nucleo, ma perché imperversava nel mondo la violenza politica e una parte piegò l’altra con un’arma fino a quel momento “segreta”. La scelta tra il bisturi che salva e il pugnale che uccide non può essere una scelta scientifica, perché è una scelta culturale.
Se imperversa la cultura dell’odio, l’uomo farà ordigni di guerra in rapporto al grado di conoscenze e di applicazioni tecniche di cui è capace; se invece trionfasse la cultura dell’amore, l’uomo fabbricherebbe soltanto utensili di pace, che contribuirebbero a estendere l’opera della creazione. Noi rischiamo di passare alla storia come i barbari del Duemila, coloro che imbottirono il pianeta di bombe e si nutrirono di una cultura intessuta di menzogne. Una società civile non può né progredire e neppure sopravvivere in queste condizioni. Noi ci chiamiamo civili, eppure ogni minuto muoiono trenta bambini per fame e si spendono due miliardi di lire in armi. Quindi mentre un bambino muore di fame, si bruciano 70 milioni di lire per produrre strumenti di distruzione. Immaginiamo che un extra-terrestre osservi questo pianeta che gita attorno al sole con strumenti molto potenti, in grado di vedere cosa c’è negli arsenali delle due superpotenze. Il 98% dell’esplosivo nucleare è tutto nelle mani delle due superpotenze. L’extra-terrestre vedrebbe che ci sono 17 miliardi di tonnellate di tritolo equivalente pronto per esplodere e poiché gli abitanti della Terra sono quattro miliardi e mezzo, vi sono circa quattromila chili di tritolo pro-capite. Pare incredibile, ma è vero: per ciascuno di noi ci sono quattromila chili di tritolo, un quantitativo di enorme potenza esplosiva. Mancano, però, pro-capite 300 chili di viveri, che basterebbero per cancellare la tragedia della morte per fame la quale provoca milioni di decessi all’anno.
Il paradosso della vergogna può essere così formulato: ogni anno muoiono decine di milioni di persone e il pianeta è imbottito di bombe. Il pericolo di olocausto nucleare e la morte per fame sono i due problemi più drammatici che si stagliano sull’orizzonte del Duemila. La soluzione di questi problemi non può essere scientifica, bensì culturale. Bisogna costruire nel mondo la cultura dell’amore, la sola capace di unire gli uomini tra loro, di difendere la vita contro la morte, di vincere la violenza eliminandone le cause strutturali e le fonti inquinate a cui si alimenta.
Oggi nel mondo deve finalmente prevalere la cultura dell’amore perché ci si possa dedicare a rendere umane le condizioni di vita degli abitanti di questo pianeta. Invece da quarant’anni si parla di disarmo, di congelamento degli arsenali bellici e finora mai un solo missile è stato smontato. Immaginiamo di fare un referendum fra tutti gli abitanti del pianeta: quattro miliardi e mezzo di persone, come noi, voterebbero tutti per vivere in pace e in libertà. Noi abbiamo il dovere di dire che la pace non è una parola astratta, che è fatta di valori concreti.
Che cosa proibisce a questa enorme volontà di pace e di libertà di esprimersi e di farsi valere? Non la scienza, ma la violenza politica che si esercita in tanti settori della nostra esistenza.
Nel campo della scienza e della tecnologia la volontà di dominio, la violenza produce il segreto. Non è vero che gli scienziati vogliano lavorare in segreto. E’ la violenza politica che obbliga coloro che fanno ricerche di un certo tipo a lavorare in gran segreto. Queste cose sono apertamente denunciate nel Manifesto di Erice, che è stato già firmato da diecimila scienziati, con cui si vuol far capire a tutti che “fare scienza” vuol dire studiare le leggi fondamentali della natura e non preparare la fine del mondo. L’insieme di queste leggi Einstein amava chiamarlo “la logica di Colui che ha fatto il mondo”, e aggiungeva: “Io vorrei capire questa logica e poi morire”.
Penso che mai nessuno scienziato cesserà di scoprire le inesauribili meraviglie di quella logica, che la mente umana indaga, ma non produce, perché ne è sorpassata da ogni lato. La scienza è una delle più alte testimonianze sul progetto divino, da cui sgorga l’universo e sull’uomo che lo va disvelando, ma le applicazioni tecniche non sono tutte positive. Oggi siamo giunti a un punto in cui ogni illusione ottimistica dev’essere bandita e la scienza deve apertamente porsi al servizio della pace e dell’umanità perché la vita vinca sulla morte. La minaccia di distruzione totale non era mai stata così grande nel corso della storia; dunque anche i rimedi a una situazione di estremo pericolo devono essere radicali. In questo intento sono concordi gli uomini che hanno contribuito per primi all’elaborazione del Manifesto di Erice: Paul Dirac, lo scienziato che, proprio attraverso l’equazione di Einstein, ha scoperto l’anti-materia, e che, a mio avviso, passerà in testa ad Einstein stesso quando si scriverà la storia della scienza, e l’altra figura mitica della ricerca moderna, Kapitza, che ha scoperto la super-fluidità, il quale è famoso per aver risposto a Stalin (che gli voleva affidare la direzione del progetto della bomba H): “Io mi rifiuto di passare alla storia come colui che ha dato all’uomo la possibilità di autodistruggersi”.
Il Manifesto di Erice – stilato da Kapitza, da Dirac e da me stesso – è oggi l’indicazione più rigorosa per l’uomo contemporaneo del contributo che la scienza può dare, per la parte che le compete, alla soluzione dei grandi problemi dell’umanità. Alla soluzione politica noi non possiamo dare nessun diretto contributo. Non si può chiedere alla scienza di risolvere problemi che sono politici. Alla scienza si può chiedere, invece, di risolvere problemi che siano scientifici, anche se di straordinaria incidenza sul futuro dell’umanità, sì che nessun politico onesto e lungimirante possa ignorarne gli apporti. Qualche mese fa, a un congresso internazionale sulla fame nel mondo ho iniziato la mia relazione in modo provocatorio, dicendo che il problema della fame nel mondo non esiste. La fame nel mondo esiste in quanto frutto di violenza politica, esattamente come esiste una dotazione di quattromila chili di tritolo pro capite. Il fatto che manchino trecento chili di viveri pro capite, non è attribuibile alla scienza. Le risorse attuali del pianeta, se messe a frutto secondo le possibilità realmente aperte dalla scienza, potrebbero dare da mangiare a dodici miliardi di individui. Non è vero che abbiamo raggiunto il limite dello sviluppo. Se non si può chiedere alla scienza di risolvere i problemi della politica, perché non sono problemi scientifici, la scienza ha però il dovere di dire qual è il contributo che può da essa venire alla soluzione dei problemi più gravi dell’umanità. Occorre pero alla comunità degli scienziati decisi a spezzare la corsa all’armamento il consenso esplicito dei popoli, perché smantellare il segreto in tutti i laboratori del mondo qualunque sia la ricerca in gioco, è una decisione morale e politica non scientifica. Niels Bohr, uno dei giganti della fisica moderna, nei 1950 scrisse una lettera aperta alle Nazioni Unite in cui formulava il concetto che è alla base del Manifesto di Erice. Egli aveva fatto parte del progetto Manhattan e vedeva chiaramente cosa sarebbe successo. Eravamo allora ben lungi dai 4.000 chili di tritolo pro capite, però Niels Bohr già vedeva i drammatici sviluppi del futuro e indicò la strada giusta da percorrere senza indugi. La lettera aperta di Bohr rimase inascoltata fino al 1982. Giovanni Paolo II ne ha ripreso e riproposto il messaggio. Il Santo Padre insiste sul dovere della scienza di parlar chiaro ai popoli, perché la gente ha il diritto di sapere verso quale assurdo traguardo siamo incamminati. In effetti la scienza finora non ha parlato con l’autorità che le viene dal grado di conoscenza della reale situazione e dei pericoli incombenti. Sta qui la vera e unica colpa della scienza.
Non è più consentito adesso dire che scienza e tecnica sono la stessa cosa, come dire: “Scienza e bombe idem”. Il Manifesto di Erice dice esattamente il contrario: fare scienza vuol dire studiare la logica della natura, mentre applicare le scoperte scientifiche vuol dire fare tecnica. Tecnica vuol dire potenza, nel bene e nel male: bombe nel male, utensili di pace nel bene; ma la scelta tra bene e male appartiene alla coscienza dei singoli e dei popoli. La confusione tra scienza e tecnica è nata anche dal fatto che spesso la stessa persona fa scienza e tecnica e tecnica di guerra. Noi viviamo nell’era post-galileiana, ma è a partire da Galileo che si è vista la straordinaria fecondità pratica delle leggi scientifiche.
Da Galilei in poi scoprire una legge fondamentale della natura vuol dire aprire un nuovo orizzonte, un ventaglio di possibili applicazioni, spesso di enorme portata. Noi adesso viviamo nell’era delle grandi applicazioni tecnologiche e tutti i giorni gli strumenti diventano sempre più sofisticati, sempre più precisi, sempre più potenti. Si pensi solo alle applicazioni delle leggi dell’elettromagnetismo: microfoni, radio, lampadine, televisioni, aeroplani, satelliti sarebbero impossibili se Maxwell non avesse scoperto un secolo fa le sue famose equazioni. La tecnica moderna è l’applicazione di leggi scientifiche, ma la differenza rimane integra tra scienza e tecnica. Scienza vuol dire leggere il libro della natura; far tecnica vuol dire, avendo letto tale libro, trarne profitto nel male (bombe) o nel bene (utensili di pace). Ci si può chiedere come mai le stesse persone siano chiamate a fare scienza e tecnica e a incrementare lo sviluppo della tecnica sia come strumento di benessere che di distruzione. Si pensi al progetto Manhattan, che doveva produrre la prima bomba nucleare della storia. I più grandi scienziati di allora erano tutti in America e furono chiamati a realizzarlo. Volendo applicare subito e con la massima efficacia possibile una legge scientifica, era logico utilizzare gli stessi cervelli che si dedicano alla ricerca scientifica. Oggi riviviamo la stessa storia del progetto Manhattan con il progetto dello scudo stellare, in cui grandi scienziati sono impegnati a portare, a livello di applicazione, le scoperte scientifiche di ieri l’altro, quelle che si vanno facendo. Coloro i quali hanno seguito la fase di impostazione del progetto dello scudo stellare sanno che quando Teller, a Erice, lo propose, una parte del mondo scientifico si affrettò a giudicarlo irrealistico, fantascientifico, dimenticando che un progetto che si fonda sulle leggi-cardine della natura prima o poi diventa realtà. Il prima e il poi dipendono dai soldi investiti e dai cervelli che ci lavorano. Io ricordo che molti dissero: “I laser a raggi x non si può fare”. Dopo pochi mesi il prof. Teller era in grado di annunciare formalmente che il laser a raggi x era realtà. La comunità scientifica deve chiedersi se la realizzazione dello scudo stellare è strumento utile a favorire la pace e la sicurezza o se è destinato a fallire proprio in questi obiettivi, ma non può a priori fermarsi a predire l’ineseguibilità di un progetto così ardito. Ecco perché ci appare molto più produttiva la proposta del Laboratorio mondiale, che impegna tutti i grandi scienziati del mondo a lavorare per l’uomo, non contro l’uomo.
La nostra insegna è “lavorare per una scienza senza segreti”, in qualunque campo. Noi vogliamo che tra qualche tempo coloro i quali lavorano in ricerche segrete siano giudicati criminali che operano contro l’umanità e non scienziati. Si dice: “Questo è utopistico, non si possono aprire i laboratori”. Però è anche vero che mai l’umanità si è trovata nella condizione attuale di bruciare enormi ricchezze per fabbricare strumenti di morte, ormai in grado di far saltare per aria il nostro pianeta. Per questo ha valore di simbolo l’intesa stabilitasi a Erice nel 1983 traVelicov, uno scienziato dell’URSS, e lo statunitense Teller per uno scambio progressivo di informazioni nei rispettivi campi di ricerca. E’ un inizio, può essere l’inizio di una nuova era, l’era della scienza che spezza le catene delle ideologie ed esce dall’incubo della paura reciproca.
Si incomincia sempre con l’avere il dubbio che uno voglia approfittare dell’altro, ma ad Erice un gruppo di scienziati dell’Ovest e dell’Est si è messo a discutere per fare proposte concrete ai rispettivi governi e per proclamare la propria volontà di aprire i laboratori. C’è però un altro modo per combattere il segreto: identificare temi che sono suscettibili di produrre tensioni internazionali profonde, il che vuol dire pericolo di guerra, prima che si giunga al limite di rottura. Un esempio: lo studio dell’atmosfera. Lo studio dell’aria che avvolge la terra e che viene riscaldata dal sole, porta a capire cosa effettivamente bisogna fare, eventualmente, per alterare il clima. In questo campo sono stati compiuti ormai enormi progressi perché con i satelliti si osserva tutto ed è questione di immagazzinare tante informazioni, per poi elaborarle ed escogitare modelli operativi. Prima o poi si arriverà a controllare il clima del pianeta. Immaginiamo che questi studi vengano fatti in segreto, come già si incomincia a fare. Siamo proprio agli inizi, ecco perché bisognerebbe pubblicizzare i risultati e le stesse prospettive di sviluppo di tali studi. Immaginiamo che una potenza si veda il proprio cielo occupato in permanenza dal sole, senza più pioggia, per chilometri e chilometri. Che cosa pensa? Può assistere inerme all’avanzare del deserto? Nel Duemila non è detto che la guerra debba essere fatta con le bombe. Può essere fatta anche in questo modo: ne andrebbe di mezzo la sopravvivenza di fasce enormi del pianeta, se si arrivasse a questo. Com’è noto fu istituito negli anni del dopoguerra, grazie all’impegno di un gruppo illuminato di scienziati tra cui il grande Bohr, il Centro Europeo Ricerche Nucleari (CERN), che ha sede in Ginevra. Ebbene per statuto il Centro Europeo Ricerche Nucleari non può avere segreti; tutto ciò che viene scoperto deve essere reso pubblico: brevetti, applicazioni, qualunque cosa. Qualsiasi persona può venire a visitare il laboratorio e nessuno può sentirsi dire: “Qui non si può andare perché ci sono cose segrete”. Se fosse così con tutti i laboratori di ricerca, non ci sarebbero segreti. Il Centro Europeo Ricerche Nucleari offre la garanzia che, proprio nel campo delicatissimo delle frontiere stesse della ricerca scientifica, non ci siano più segreti. Quindi non è vero che la ricerca aperta è utopia: al CERN è fin d’ora realtà. Se oggi nella scienza e nella tecnica ci sono segreti, essi sono il risultato della medesima violenza che in altri campi proibisce, per esempio, all’uomo di esprimere liberamente il suo voto, il suo pensiero, la sua fede. E’ oggi possibile, nel 1985, concepire una super-potenza in cui sia proibito pregare? Quali delitti sta perpetrando l’uomo che prega? Se noi non denunciamo queste cose assurde, non possiamo sperare che cambi il mondo. La lotta al segreto nei laboratori è lotta alla fame, lotta contro i missili, contro le bombe, qualunque sia il loro colore, contro la conquista dello spazio a scopi militari. Essa non va combattuta con le bombe, ma con le armi della democrazia e con i valori del Cristianesimo. Gli scienziati credenti e tutti coloro che hanno fatto del Cristianesimo e della democrazia una scelta di vita debbono essere in prima fila in questa sacrosanta lotta contro la violenza politica. Il nemico numero uno dell’umana specie, oggi, nel campo della nostra esistenza, è la violenza politica; nel campo della scienza applicata l’alleato della violenza politica è il segreto. La violenza politica produce il segreto nei laboratori, i campi di concentramento, le bombe, la fame nel mondo. Gli scienziati non sono persone eccezionali; come tra di voi alcuni amano la musica, altri la pittura, altri la poesia, tutte forme di ginnastica intellettuale, gli scienziati si distinguono in questo: non possono non dedicarsi alla ricerca scientifica. “Pur di fare esperimenti, i fisici darebbero l’anima al diavolo”, diceva Bertrand Russell. C’è in questa esagerazione del filosofo un nocciolo di verità. Vi è, infatti, un altro motivo per cui il laboratorio vuol essere una proposta concreta di pace. In molti paesi del mondo si va delineando la tendenza a ridurre le spese per la ricerca pura. Al servizio di quali ideologie e programmi saranno indotti a porre le loro energie ricercatori che si sentano condannati all’inazione? Nella nostra società esiste questo pericolo. Noi dobbiamo, invece, fare in modo tale che tutti i più grandi cervelli siano impegnati in ricerche che aiutino l’uomo a vivere meglio e non in ricerche contro l’uomo. Occorre insomma far sì che la scienza divenga parte integrante della cultura dell’amore. La scienza insegna all’uomo ad amare la natura. Lo scienziato è colui che legge il libro della natura; non può cooperare a distruggerlo. Coloro i quali costruiscono bombe sempre più micidiali lavorano oggettivamente, al di là delle intenzioni soggettive, a bruciare il libro del mondo. La logica perversa, per cui la scienza nella società moderna è fuorviata dai fini e dai valori che la specificano e la costituiscono, deve essere consapevolmente rifiutata. Di questo coraggioso rifiuto l’atto-prologo è scardinare il segreto nelle ricerche, qualunque sia il campo in cui vengono esercitate. E’ questo il messaggio che oggi viene dallo stesso mondo scientifico. L’umanità ha diritto a sperare.
NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura il 4.10.1985.